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Al di là delle retromarce e delle precisazioni successive, la tesi del Cavaliere è "tecnicamente" risibile.
L'intenzione è chiara: il premier, nell'illusione di mettere in sicurezza l'esecutivo e il Pdl, non nega gli addebiti al vaglio della magistratura, ma li scarica sui singoli espungendoli dagli organismi collettivi. Ma la spiegazione non regge: qui non stiamo parlando dell'oscuro assessore di un comune dell'hinterland milanese. Finora nelle inchieste delle Procure di mezza Italia sono coinvolti, nell'ordine: un ex ministro (Lunardi), un ministro dimesso (Scajola), un ministro in carica (Matteoli), un sottosegretario con delega alla Protezione Civile e ai Grandi Eventi (Bertolaso), un nutrito drappello di servitori dello Stato (dal direttore generale dei Lavori Pubblici Balducci al capostruttura del ministero delle Infrastrutture Incalza), uno dei tre coordinatori del partito di maggioranza (Verdini). Di fronte a questo "apparato", fatto di uomini e di incarichi, è difficile parlare di "casi isolati". Ed è impossibile non vedere l'elemento "di sistema" che, nella zona grigia in cui si mischiano politica ed economia, può trasformare un episodio in un metodo, e un gruppo di persone in un comitato d'affari.
Per questo la tesi del Cavaliere è anche politicamente inaccettabile. La giustizia deve fare il suo corso. Le responsabilità penali, personali, dovranno essere accertate. Ma le responsabilità politiche, collegiali, sono già sotto gli occhi di tutti. Si può far finta di non vederle. Si può, manzonianamente, continuare a troncare e a sopire, ripetendo come un esorcismo che "questa non è una nuova Tangentopoli". Ma sapere che oggi si ruba per se stessi e non per il partito (ammesso che sia vero) non può e non deve consolare nessuno. Questi scandali producono comunque una profonda alterazione alle regole del gioco democratico e del libero mercato. E di questo Berlusconi, che si fregia tuttora di aver portato in politica "una nuova visione morale", non può non rispondere.
m.giannini@repubblica.it
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