Il gioco si fa duro. Da giorni la «grande» stampa batte sulla vera novità imposta dalla crisi: il tempo dello Stato sociale è scaduto. Fine dell’elemosina. Ha cominciato il Sole con Alberto Orioli: il welfare è un «insostenibile, costoso, inefficiente» retaggio del passato. Come il posto fisso. Ha proseguito il Corriere con Piero Ostellino (lo Stato sociale «divorerà i cittadini» che sinora ha compassionevolmente assistito) e Angelo Panebianco (che, sotto una veste retorica meno grezza, ha sostenuto la stessa tesi: tutto il potere al Libero Mercato).
Una volta tanto dicono la verità, rendendo inevitabili imbarazzate smentite. Maurizio Ferrera, sempre sul Corriere, ha dovuto sbracciarsi a dire che «standard sociali e diritti di cittadinanza» non saranno travolti. Ma Tremonti taglierà stipendi e pensioni pubbliche, praticherà nuove riduzioni alla spesa sociale, aumenterà la pressione fiscale sul lavoro dipendente: siccome questo non accade dopo decenni di politiche espansive e redistributive ma dopo trent’anni di macelleria sociale, all’ordine del giorno è proprio l’eutanasia dello Stato sociale (a cominciare dal Mezzogiorno). Non è affatto questione di «esagerazioni».
Viene così in chiaro il senso del processo storico svoltosi in questi tre decenni. Si è trattato della feroce vendetta del capitale privato contro il lavoro salariato per la sua inaudita pretesa di giocare da protagonista la partita della riproduzione. Si tratta ancora oggi di punire le scandalose lotte operaie degli anni Sessanta. La nuova fase che si apre con la liquidazione del welfare corona una storia cominciata negli anni Settanta (con la fine di Bretton Woods) ed entrata nel vivo con lo scontro di Reagan con i controllori di volo, della Thatcher con i minatori e di Agnelli e Romiti nei 35 giorni di Mirafiori.
Trent’anni di guerra senza quartiere contro il lavoro dipendente che aveva osato ribellarsi al sovrano, di questo si è trattato. La delocalizzazione, la libera circolazione dei capitali e la guerra infinita per il gas e il petrolio sono stati i cardini dell’offensiva, ma anche Maastricht è stata una pietra miliare, poiché ha imposto lo sfondamento su costi e diritti del lavoro e la distruzione dei contratti collettivi. Panebianco parla oggi di «fallimento del socialismo della spesa». Propaganda a parte, il solo socialismo che abbiamo conosciuto se lo è goduto il capitale privato, al quale gli Stati (prima dei miliardi pubblici gettati nei bilanci disastrati di banche e finanziarie) hanno procurato un mercato del lavoro modellato sulle sue esigenze e concesso di evadere il fisco, di speculare senza vincoli e di accumulare profitti con le privatizzazioni. L’esplosione del debito pubblico (che sarebbe più serio chiamare credito privato) è figlia della ferma volontà di tradurre in profitto la produzione sociale della ricchezza.
È la prima volta che il capitale si vendica brutalmente per la rivolta del lavoro? Naturalmente no. È la storia del Termidoro e della Restaurazione (dopo il Terrore giacobino); del colpo di Stato di Luigi Bonaparte, dell’imperialismo e della Prima guerra mondiale (dopo il 1848, la Comune di Parigi e i primi scioperi generali); del fascismo, del nazismo e della Seconda guerra mondiale (dopo il 1917, Weimar e il biennio rosso). È un classico, quindi si sarebbe potuto intuire da tempo dove si andava a parare. Tanto più che qualcuno (Gramsci, Polanyi, Keynes, lo stesso Marx) aveva chiarito come funziona il meccanismo. Ma dov’è stata e dov’è la controparte in questa vicenda?
La Terza via di Tony Blair (rimpianto dal Corriere) è stata la sciagurata illusione che ha dato il la a tutta la sinistra «responsabile» in Europa. Ma forse adesso si reagisce all’altezza del pericolo? Qualcuno lancia l’allarme? Non pare. Alla «gente» si trasmette l’illusione che la «democrazia» sia una conquista irreversibile e un valore in sé, nonostante lo svuotamento dei diritti. Il governo può dire che taglierà, ridurrà, rimanderà senza che alcuno accenni a una reazione: è difficile in tale situazione prevedere che si andrà a un massacro? Sì, ce n’est qu’un début. Ma in senso opposto a quanto sperammo quarant’anni fa.
Una volta tanto dicono la verità, rendendo inevitabili imbarazzate smentite. Maurizio Ferrera, sempre sul Corriere, ha dovuto sbracciarsi a dire che «standard sociali e diritti di cittadinanza» non saranno travolti. Ma Tremonti taglierà stipendi e pensioni pubbliche, praticherà nuove riduzioni alla spesa sociale, aumenterà la pressione fiscale sul lavoro dipendente: siccome questo non accade dopo decenni di politiche espansive e redistributive ma dopo trent’anni di macelleria sociale, all’ordine del giorno è proprio l’eutanasia dello Stato sociale (a cominciare dal Mezzogiorno). Non è affatto questione di «esagerazioni».
Viene così in chiaro il senso del processo storico svoltosi in questi tre decenni. Si è trattato della feroce vendetta del capitale privato contro il lavoro salariato per la sua inaudita pretesa di giocare da protagonista la partita della riproduzione. Si tratta ancora oggi di punire le scandalose lotte operaie degli anni Sessanta. La nuova fase che si apre con la liquidazione del welfare corona una storia cominciata negli anni Settanta (con la fine di Bretton Woods) ed entrata nel vivo con lo scontro di Reagan con i controllori di volo, della Thatcher con i minatori e di Agnelli e Romiti nei 35 giorni di Mirafiori.
Trent’anni di guerra senza quartiere contro il lavoro dipendente che aveva osato ribellarsi al sovrano, di questo si è trattato. La delocalizzazione, la libera circolazione dei capitali e la guerra infinita per il gas e il petrolio sono stati i cardini dell’offensiva, ma anche Maastricht è stata una pietra miliare, poiché ha imposto lo sfondamento su costi e diritti del lavoro e la distruzione dei contratti collettivi. Panebianco parla oggi di «fallimento del socialismo della spesa». Propaganda a parte, il solo socialismo che abbiamo conosciuto se lo è goduto il capitale privato, al quale gli Stati (prima dei miliardi pubblici gettati nei bilanci disastrati di banche e finanziarie) hanno procurato un mercato del lavoro modellato sulle sue esigenze e concesso di evadere il fisco, di speculare senza vincoli e di accumulare profitti con le privatizzazioni. L’esplosione del debito pubblico (che sarebbe più serio chiamare credito privato) è figlia della ferma volontà di tradurre in profitto la produzione sociale della ricchezza.
È la prima volta che il capitale si vendica brutalmente per la rivolta del lavoro? Naturalmente no. È la storia del Termidoro e della Restaurazione (dopo il Terrore giacobino); del colpo di Stato di Luigi Bonaparte, dell’imperialismo e della Prima guerra mondiale (dopo il 1848, la Comune di Parigi e i primi scioperi generali); del fascismo, del nazismo e della Seconda guerra mondiale (dopo il 1917, Weimar e il biennio rosso). È un classico, quindi si sarebbe potuto intuire da tempo dove si andava a parare. Tanto più che qualcuno (Gramsci, Polanyi, Keynes, lo stesso Marx) aveva chiarito come funziona il meccanismo. Ma dov’è stata e dov’è la controparte in questa vicenda?
La Terza via di Tony Blair (rimpianto dal Corriere) è stata la sciagurata illusione che ha dato il la a tutta la sinistra «responsabile» in Europa. Ma forse adesso si reagisce all’altezza del pericolo? Qualcuno lancia l’allarme? Non pare. Alla «gente» si trasmette l’illusione che la «democrazia» sia una conquista irreversibile e un valore in sé, nonostante lo svuotamento dei diritti. Il governo può dire che taglierà, ridurrà, rimanderà senza che alcuno accenni a una reazione: è difficile in tale situazione prevedere che si andrà a un massacro? Sì, ce n’est qu’un début. Ma in senso opposto a quanto sperammo quarant’anni fa.
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