Qualche giorno fa, mentre lo stesso euro era nel mirino della speculazione finanziaria, il presidente della Banca Centrale Europea Trichet, aveva dovuto ammettere quanto fino a ieri era stato negato: questa è ormai una crisi di sistema.
Il primo aspetto del problema che Trichet non potrà mai ammettere è che questa è la crisi del “loro sistema”, quello costruito sia nei decenni del welfare state sia in quelli del brutale liberismo che ha devastato intere società attraverso la sua globalizzazione a partire dai primi anni ottanta. Il secondo aspetto del problema è che questa crisi non attiene solo al “loro” sistema economico ma anche ai loro modelli politici di esercizio del potere.
Il meccanismo costruito dallo sviluppo capitalistico nel dopoguerra, pur vincendo la sua sfida prima con il socialismo reale e poi con i limiti del mercato mondiale, non ha prodotto quella illusoria stabilità di cui sono andate cianciando le classi dirigenti della maggiore economie capitaliste del pianeta. Al contrario, hanno innescato tutti i meccanismi della competizione globale tra attori sempre più simili tra loro e hanno visto assottigliarsi sistematicamente l’accumulazione capitalistica senza riuscire ad invertire la tendenza alla crisi di sistema.
Per gestire questa contraddizione, hanno creato un modello politico ed ideologico che si è imposto come universale alla fine degli anni ’80 con la dissoluzione del blocco del socialismo reale: il bipartitismo come “democrazia perfetta” e il libero mercato come democrazia economica.
Questo binomio tra liberalismo in politica e liberismo in economica, ha creato la cornice per legittimare come progressisti gli spiriti animali del capitalismo, creando così un apparato ideologico di consenso che ha travolto negli anni ogni resistenza popolare e di classe e ogni ipotesi politica alternativa al capitalismo. I fatti stanno però dimostrando – ancora una volta – come questo apparato ideologico e le sue classi dirigenti siano del tutto inadeguate ad affrontare la crisi del suo stesso modello economico.
Non è un caso infatti che la crisi economica manifestatasi più apertamente nel 2007 stia diventando una crisi politica profonda in tutti i paesi a capitalismo avanzato facendo saltare molti dei bastioni apparentemente immutabili del sistema.
La crisi del sistema elettorale maggioritario in Gran Bretagna – vera e propria icona della stabilità neoliberale - è forse l’esempio più clamoroso. Alla crisi di governabilità e di rappresentatività democratica britannica non è certo estraneo il fatto che proprio la maggiore finanziaria europea sia uno dei paesi più a rischio sul piano economico.
Ma non possiamo non sottolineare come la crisi economica sia ormai diventata crisi politica in tutta l’Europa: nella Germania della Merkel, nella Grecia della recente alternanza tra socialisti e conservatori, nel Belgio a rischio secessione tra fiamminghi e valloni, nei paesi dell’Europa dell’Est annessi all’Unione Europea dove prevalgono forze nazionaliste e reazionarie. Infine – e non per importanza – nell’Italia berlusconiana.Qui il paradosso è ancora maggiore, perché la crisi politica è implosa nel blocco di potere delle destre appena dopo aver vinto le elezioni regionali e aver vinto in questi anni grazie proprio a quella vocazione maggioritaria invocata – pensate un po’ – da Veltroni e da un pezzo del PD. Non solo. Berlusconi ha ben capito i pericoli che derivano (per lui ovviamente) dal corto circuito tra crisi economica e crisi politica-morale del suo entourage, mentre il ministro Tremonti si è dovuto subito smentire da solo rispetto alla manovra finanziaria “correttiva” (ed aggiuntiva) di 25 miliardi di euro in due anni che pure aveva negato fino a dieci giorni prima, così come continuava a ripetere che il peggio della crisi era passato mentre le nubi che si addensavano su Spagna, Irlanda, Portogallo, Gran Bretagna difficilmente potevano sorvolare l’Italia lasciandola indenne.
Eppure le classi dirigenti non possono affermare di non aver potuto prevedere tutto questo. Crisi come questa e sbocchi drammatici hanno caratterizzato l’intera prima metà del XX° Secolo.
Una parte del problema è che le oligarchie del modello capitalistico non riescono ad immaginare altro che il loro modo di produzione e l’estorsione di valore ad ogni costo, anche a costo mettere l’umanità su un piano inclinato e di avventure drammatiche. L’altra parte del problema è che nei paesi capitalisti da tempo non esistono più “classi dirigenti” ma solo classi dominanti che hanno provato un’ebbrezza senza limiti nell’aver scatenato e vinto in questi ultimi decenni una violentissima lotta di classe dall’alto verso il basso. E’ questa ebbrezza che ha innescato molto spesso quegli incidenti della storia apparentemente inspiegabili ma che hanno provocato tragedie.
Se questo è vero, le soluzioni alternative per affrontare e venire fuori dalla crisi non possono essere solo economiche e sociali. Si ripone - e con forza straordinaria – il problema del cambiamento politico di sistema e non tanto e non solo quello della sconfitta del governo Berlusconi sul quale vorrebbero inchiodarci ancora i sostenitori del meno peggio.
Lo stato delle soggettività politiche anticapitaliste e comuniste in Italia e in Europa capaci di impugnare di nuovo l’obiettivo della trasformazione politica e sociale può apparire desolante – anche se in Grecia potremmo affermare il contrario - ma ciò non significa che non si possa e si debba riporre oggi e con decisione la strada dell’alternativa politica al capitalismo, magari mettendo mano almeno a quel programma minimo di transizione capace di incidere sulla sostanza della democrazia e della redistribuzione della ricchezza, tanto per cominciare.
Il primo aspetto del problema che Trichet non potrà mai ammettere è che questa è la crisi del “loro sistema”, quello costruito sia nei decenni del welfare state sia in quelli del brutale liberismo che ha devastato intere società attraverso la sua globalizzazione a partire dai primi anni ottanta. Il secondo aspetto del problema è che questa crisi non attiene solo al “loro” sistema economico ma anche ai loro modelli politici di esercizio del potere.
Il meccanismo costruito dallo sviluppo capitalistico nel dopoguerra, pur vincendo la sua sfida prima con il socialismo reale e poi con i limiti del mercato mondiale, non ha prodotto quella illusoria stabilità di cui sono andate cianciando le classi dirigenti della maggiore economie capitaliste del pianeta. Al contrario, hanno innescato tutti i meccanismi della competizione globale tra attori sempre più simili tra loro e hanno visto assottigliarsi sistematicamente l’accumulazione capitalistica senza riuscire ad invertire la tendenza alla crisi di sistema.
Per gestire questa contraddizione, hanno creato un modello politico ed ideologico che si è imposto come universale alla fine degli anni ’80 con la dissoluzione del blocco del socialismo reale: il bipartitismo come “democrazia perfetta” e il libero mercato come democrazia economica.
Questo binomio tra liberalismo in politica e liberismo in economica, ha creato la cornice per legittimare come progressisti gli spiriti animali del capitalismo, creando così un apparato ideologico di consenso che ha travolto negli anni ogni resistenza popolare e di classe e ogni ipotesi politica alternativa al capitalismo. I fatti stanno però dimostrando – ancora una volta – come questo apparato ideologico e le sue classi dirigenti siano del tutto inadeguate ad affrontare la crisi del suo stesso modello economico.
Non è un caso infatti che la crisi economica manifestatasi più apertamente nel 2007 stia diventando una crisi politica profonda in tutti i paesi a capitalismo avanzato facendo saltare molti dei bastioni apparentemente immutabili del sistema.
La crisi del sistema elettorale maggioritario in Gran Bretagna – vera e propria icona della stabilità neoliberale - è forse l’esempio più clamoroso. Alla crisi di governabilità e di rappresentatività democratica britannica non è certo estraneo il fatto che proprio la maggiore finanziaria europea sia uno dei paesi più a rischio sul piano economico.
Ma non possiamo non sottolineare come la crisi economica sia ormai diventata crisi politica in tutta l’Europa: nella Germania della Merkel, nella Grecia della recente alternanza tra socialisti e conservatori, nel Belgio a rischio secessione tra fiamminghi e valloni, nei paesi dell’Europa dell’Est annessi all’Unione Europea dove prevalgono forze nazionaliste e reazionarie. Infine – e non per importanza – nell’Italia berlusconiana.Qui il paradosso è ancora maggiore, perché la crisi politica è implosa nel blocco di potere delle destre appena dopo aver vinto le elezioni regionali e aver vinto in questi anni grazie proprio a quella vocazione maggioritaria invocata – pensate un po’ – da Veltroni e da un pezzo del PD. Non solo. Berlusconi ha ben capito i pericoli che derivano (per lui ovviamente) dal corto circuito tra crisi economica e crisi politica-morale del suo entourage, mentre il ministro Tremonti si è dovuto subito smentire da solo rispetto alla manovra finanziaria “correttiva” (ed aggiuntiva) di 25 miliardi di euro in due anni che pure aveva negato fino a dieci giorni prima, così come continuava a ripetere che il peggio della crisi era passato mentre le nubi che si addensavano su Spagna, Irlanda, Portogallo, Gran Bretagna difficilmente potevano sorvolare l’Italia lasciandola indenne.
Eppure le classi dirigenti non possono affermare di non aver potuto prevedere tutto questo. Crisi come questa e sbocchi drammatici hanno caratterizzato l’intera prima metà del XX° Secolo.
Una parte del problema è che le oligarchie del modello capitalistico non riescono ad immaginare altro che il loro modo di produzione e l’estorsione di valore ad ogni costo, anche a costo mettere l’umanità su un piano inclinato e di avventure drammatiche. L’altra parte del problema è che nei paesi capitalisti da tempo non esistono più “classi dirigenti” ma solo classi dominanti che hanno provato un’ebbrezza senza limiti nell’aver scatenato e vinto in questi ultimi decenni una violentissima lotta di classe dall’alto verso il basso. E’ questa ebbrezza che ha innescato molto spesso quegli incidenti della storia apparentemente inspiegabili ma che hanno provocato tragedie.
Se questo è vero, le soluzioni alternative per affrontare e venire fuori dalla crisi non possono essere solo economiche e sociali. Si ripone - e con forza straordinaria – il problema del cambiamento politico di sistema e non tanto e non solo quello della sconfitta del governo Berlusconi sul quale vorrebbero inchiodarci ancora i sostenitori del meno peggio.
Lo stato delle soggettività politiche anticapitaliste e comuniste in Italia e in Europa capaci di impugnare di nuovo l’obiettivo della trasformazione politica e sociale può apparire desolante – anche se in Grecia potremmo affermare il contrario - ma ciò non significa che non si possa e si debba riporre oggi e con decisione la strada dell’alternativa politica al capitalismo, magari mettendo mano almeno a quel programma minimo di transizione capace di incidere sulla sostanza della democrazia e della redistribuzione della ricchezza, tanto per cominciare.
di Sergio Cararo, direttore di Contropiano
Rete dei Comunisti
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua