In Europa, è ripartito l’attacco al welfare. Scuola, pensioni, sanità, indennità di disoccupazione, diritti dei lavoratori, i cardini della cittadinanza nelle democrazie delle classi medie, sono tornati sotto tiro. L’obiettivo non è fare un welfare a misura del mercato del lavoro odierno, della transizione demografica in atto, della moltiplicazione dei percorsi di vita. No, l’obiettivo è eliminare il welfare universale e tornare al modello categoriale e corporativo per i più forti. Prima della Grande Recessione, il welfare doveva essere eliminato in quanto intralcio al libero dispiegarsi delle forze progressive del Mercato auto-regolato.
Oggi, dopo il crollo del paradigma liberista, si tenta una spregiudicata manovra culturale: il welfare, dipinto come coacervo di sprechi e clientele della vecchia sinistra parassitaria, è un lusso insostenibile e va sacrificato in nome del risanamento dei bilanci pubblici. È sfacciata la manipolazione dei dati di realtà compiuta in paio di editoriali comparsi nei giorni scorsi sul Corriere della Sera. Il welfare diventa «il socialismo della spesa» e viene indicato come colpevole dell’esplosione dei debiti pubblici nell’Unione Europea. Quindi, tumore maligno da rimuovere, senza lascarsi impietosire dalle urla del paziente non completamente anestetizzato dalla propaganda liberista.
I dati di realtà sono diversi. Indicano, ad esempio, che in Grecia gli squilibri dei conti pubblici sono frutto di enormi clientele e dell’evasione fiscale alimentate dalla destra: l’ex premier Karamanlis, in 5 anni di malgoverno, non è stato in grado di fare alcuna riforma strutturale ed ha lasciato in eredità, a novembre 2009, al socialista Papandreou, un deficit superiore al 10% del Pil. I dati di realtà indicano che neppure l’esplosione del debito pubblico in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Irlanda, ma anche Stati Uniti, ha a che fare con «il socialismo della spesa».
Tali economie prima della crisi avevano bilanci in ordine e un debito pubblico tra i più bassi dell’Ue. Gli squilibri sono derivati, invece, da due fattori entrambi connessi con il fallimento dell'ideologia liberista. Primo, l’ingentissima mobilitazione di risorse necessaria a salvare le banche, ossia signori e signore azionisti al top della scala distributiva, beneficiari di 25 anni di extra-profitti a danno del lavoro. Il secondo, il crollo della domanda interna drogata dalla finanza di facili costumi, ossia la frana dei consumi delle famiglie alimentati per 25 anni a debito a causa di redditi da lavoro stagnanti. Insomma, il dibattito politico avviene all'insegna di un paradosso: il welfare europeo, sopravvissuto alle mode e agli attacchi del liberismo, ammortizzatore degli effetti più acuti della crisi, rischia oggi di morire dissanguato per avere soccorso e salvato un capitalismo impazzito, inceppato da 25 anni di svalutazione del lavoro e di drammatico aumento della disuguaglianza. La cultura della stabilità invocata dalla Cancelliera Merkel è costitutiva dell'UE. Tuttavia, è illusorio fondarla sul mercantilismo a scala continentale. Senza politiche per la domanda interna europea, senza welfare, la ricerca della stabilità porta a stagnazione, elevata disoccupazione strutturale e, quindi, al peggioramento della finanza pubblica. E porta, soprattutto, al conflitto corporativo "domestico" e alla democrazia populista. Forse, è utile (ri)leggersi non solo Keynes, ma anche Lord Beveridge. Forse è utile (ri)studiare le risposte di Roosevelt alla Grande Depressione. Per capire che il welfare è stato voluto, a cavallo della II Guerra Mondiale, innanzitutto dai liberali illuminati per costruire le democrazie delle classi medie. Non ha caso Obama, per far ripartire gli USA, ha varato, per le classi medie, i poveri avevano già il Medicare, la riforma della sanità. Siamo ad un crocevia storico: l'Europa mercantilista o l'Europa del lavoro? I riformisti europei possono ritrovare l'anima, la loro identità, la loro funzione nazionale impegnandosi per una UE federale, capace di governo politico per la crescita e per il lavoro, unica via per garantire stabilità alla finanza pubblica.
Oggi, dopo il crollo del paradigma liberista, si tenta una spregiudicata manovra culturale: il welfare, dipinto come coacervo di sprechi e clientele della vecchia sinistra parassitaria, è un lusso insostenibile e va sacrificato in nome del risanamento dei bilanci pubblici. È sfacciata la manipolazione dei dati di realtà compiuta in paio di editoriali comparsi nei giorni scorsi sul Corriere della Sera. Il welfare diventa «il socialismo della spesa» e viene indicato come colpevole dell’esplosione dei debiti pubblici nell’Unione Europea. Quindi, tumore maligno da rimuovere, senza lascarsi impietosire dalle urla del paziente non completamente anestetizzato dalla propaganda liberista.
I dati di realtà sono diversi. Indicano, ad esempio, che in Grecia gli squilibri dei conti pubblici sono frutto di enormi clientele e dell’evasione fiscale alimentate dalla destra: l’ex premier Karamanlis, in 5 anni di malgoverno, non è stato in grado di fare alcuna riforma strutturale ed ha lasciato in eredità, a novembre 2009, al socialista Papandreou, un deficit superiore al 10% del Pil. I dati di realtà indicano che neppure l’esplosione del debito pubblico in Spagna, Portogallo, Regno Unito, Irlanda, ma anche Stati Uniti, ha a che fare con «il socialismo della spesa».
Tali economie prima della crisi avevano bilanci in ordine e un debito pubblico tra i più bassi dell’Ue. Gli squilibri sono derivati, invece, da due fattori entrambi connessi con il fallimento dell'ideologia liberista. Primo, l’ingentissima mobilitazione di risorse necessaria a salvare le banche, ossia signori e signore azionisti al top della scala distributiva, beneficiari di 25 anni di extra-profitti a danno del lavoro. Il secondo, il crollo della domanda interna drogata dalla finanza di facili costumi, ossia la frana dei consumi delle famiglie alimentati per 25 anni a debito a causa di redditi da lavoro stagnanti. Insomma, il dibattito politico avviene all'insegna di un paradosso: il welfare europeo, sopravvissuto alle mode e agli attacchi del liberismo, ammortizzatore degli effetti più acuti della crisi, rischia oggi di morire dissanguato per avere soccorso e salvato un capitalismo impazzito, inceppato da 25 anni di svalutazione del lavoro e di drammatico aumento della disuguaglianza. La cultura della stabilità invocata dalla Cancelliera Merkel è costitutiva dell'UE. Tuttavia, è illusorio fondarla sul mercantilismo a scala continentale. Senza politiche per la domanda interna europea, senza welfare, la ricerca della stabilità porta a stagnazione, elevata disoccupazione strutturale e, quindi, al peggioramento della finanza pubblica. E porta, soprattutto, al conflitto corporativo "domestico" e alla democrazia populista. Forse, è utile (ri)leggersi non solo Keynes, ma anche Lord Beveridge. Forse è utile (ri)studiare le risposte di Roosevelt alla Grande Depressione. Per capire che il welfare è stato voluto, a cavallo della II Guerra Mondiale, innanzitutto dai liberali illuminati per costruire le democrazie delle classi medie. Non ha caso Obama, per far ripartire gli USA, ha varato, per le classi medie, i poveri avevano già il Medicare, la riforma della sanità. Siamo ad un crocevia storico: l'Europa mercantilista o l'Europa del lavoro? I riformisti europei possono ritrovare l'anima, la loro identità, la loro funzione nazionale impegnandosi per una UE federale, capace di governo politico per la crescita e per il lavoro, unica via per garantire stabilità alla finanza pubblica.
di Stefano Fassina, L'Unità 20.05.2010
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