martedì 25 maggio 2010

No. Non saranno i ricchi a piangere

Ieri, in prima mattina, La7 ha ospitato, nella rubrica Omnibus, il tradizionale dibattito politico dedicato, questa volta, alla crisi e alla manovra che il governo si accinge a varare. Vi ha preso parte, fra gli altri, Marco Taradash, recentemente eletto consigliere regionale, in Toscana, nelle liste del Pdl. Ad un certo punto, il nostro si è esibito in quello che con una certa generosità potremmo definire un ragionamento, apparentemente grottesco, ma in realtà - e forse proprio per questo - rivelatore di quale sia l’ispirazione che muove l’esecutivo nel tracciare il perimetro dei provvedimenti economici. Sollecitato (provocato?) da un interlocutore che si chiedeva perché mai Tremonti non provasse a fare cassa istituendo una tassazione seria sui grandi patrimoni e sui grandi percettori di reddito, piuttosto che menare fendenti sui lavoratori e sul già dissestato welfare italiano, rispondeva - vado a memoria - più o meno così: «Bisogna stare attenti a non esagerare in un senso o nell’altro perché se si calca la mano con i poveracci si va incontro a tumulti, se invece lo si fa con i ricchi si rischiano i colpi di Stato». Dove le due ipotesi, rivolta dei poveri diavoli sottoposti ad un regime di oppressione fiscale e sociale da una parte, e reazione golpista dei ceti privilegiati dall’altra, erano poste esattamente sullo stesso piano: non desiderabili entrambe, certo, ma perfettamente equiparabili. In questa vergognosa rappresentazione, frutto di una regressione culturale ottocentesca, è riassunta, come ognuno può agevolmente capire, tutta la protervia delle classi dominanti e l’intrinseca immoralità del loro corrotto personale politico. Perché i ceti proletari sono stati già munti da un regime tributario iniquo che ha visto via via attenuarsi il carattere progressivo dell’imposta, da una compressione dei redditi da lavoro e da un prosciugamento del sistema di protezione sociale; mentre i detentori di capitale e la borghesia usuraria hanno potuto persino aumentare le proprie fortune, protetti da ogni sorta di deroga e guarentigia istituzionale.Per la seconda volta in pochi giorni ricorriamo ad una citazione da Il Sole 24Ore che ha svolto una propria inchiesta, pubblicata nell’edizione di ieri, dalla quale si evince che nel 2009 l’evasione fiscale (Irpef, Ires, Iva, Irap) è cresciuta del 20% rispetto al 2007, raggiungendo il livello (ma la stima è «prudenziale», ci avvisa il giornale confindustriale) di 120 miliardi di euro. Non solo: questa ulteriore degenerazione fraudolenta, indice per giunta di un sicuro deterioramento dei rapporti sociali e della democrazia, si è verificata in concomitanza con una secca diminuzione del Pil.Lascio a chi legge l’elementare considerazione circa cosa sarebbe possibile fare per il Paese, e in primo luogo per i lavoratori (o evitare loro - considerato che Gianni Letta, con salutare chiarezza - parla di «duri sacrifici, si spera provvisori»), se i 118 milioni di euro trafugati all’erario affluissero invece nelle casse dello Stato. Questo è il punto di fondo, eludere il quale significa avvitarsi in una disputa senza arte né parte. Naturalmente, se si pensa, come Taradash, che i ricchi possano adombrarsene e reagire con un colpo di Stato, meglio soprassedere. Non si può aver tutto dalla vita.



di Dino Greco
su Liberazione del 25/05/2010

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