Valutazione critica del “federalismo demaniale”, e preoccupazione per il larghissimo consenso bipartisan.
Federare vuol dire unire: unificare più stati in uno. In Italia significa dividere ciò che si era unito 150 anni fa. L’argomento principale è che quello Stato non funziona. Su questo quasi tutti sono d’accordo, infatti pochissimi si dicono contrari al federalismo all’italiana. Alcuni perché vogliono uno Stato che funzioni diversamente: anzi, differenziatamente, senza preoccuparsi di unificare condizioni, diritti, opportunità, ricchezze ma anzi rafforzandole. Altri perché hanno perso la fiducia che questo Stato (quello nato dal Risorgimento e modificato dalla Resistenza) possa essere reso migliore, e quindi subiscono il trend “federalista”. Magari questi altri cercano di ridurre la negatività del federalismo dei padani: meglio uno Stato separato in due come propone Giorgio Ruffolo, che lo “spezzatino federalista”, ha scritto ieri Valentino Parlato. Ma il primo provvedimento dal quale si comprende che cos’è che sta marciando spiega tutto: qual è il disegno che si sta attuando, la strategia che domina, l’egemonia che ha coinvolto quasi tutti. Parliamo del federalismo demaniale. Il suo obiettivo è ridurre il peso dello Stato, trasferire poteri dall’Italia alle sue parti periferiche ritenute, giustamente, più deboli nella resistenza contro l’obiettivo finale: la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile, la riduzione a merce di tutto ciò che merce ancora non è ma che tale può diventare. La Repubblica è stata disegnata dalla Costituzione come un sistema di poteri equilibrato tra Stato, Regione e poteri locali (province e comuni). Negli ultimi decenni queste ultime istituzioni sono state pesantemente indebolite: se ne sono accresciute le funzioni e ridotte le risorse. Oggi sono adoperabili, proprio per la loro procurata povertà, come grimaldelli per cedere patrimoni pubblici a soggetti privati. Preoccupa l’accordo sostanziale che si è raggiunto ieri nella commissione parlamentare, dove Di Pietro ha accettato tutto e il PD si è astenuto di malavoglia. Preoccupa il larghissimo consenso espresso anche dalle opposizioni parlamentari all’obiettivo della priorità della “valorizzazione economica” su qualunque altro obiettivo. I “miglioramenti” introdotti dagli oppositori sembrano costituire argini troppo deboli per porre i beni comuni al riparo dell’impetuosa marea della speculazione; sono già in moto le pratiche per abbatterli con procedure amministrative “facilitate” o con il coinvolgimento dei comuni nella “valorizzazione immobiliare”. E preoccupa l’accettazione comune della liceità, per raggiungere quest’obiettivo, di alienare beni pubblici, di spezzettare beni strutturalmente unitari, e addirittura di modificare le destinazioni dei beni trasferiti derogando alla pianificazione urbanistica: privando così la collettività anche del potere di intervenire nelle decisioni sul territorio. Anche questo, la pianificazione democratica del territorio e delle città, è un bene comune che stanno liquidando.
Salzano, Edoardo Il Manifesto, 21 maggio 2010
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