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Il signor euro aveva più volte rischiato l’infarto. Il dottor Draghi
decise allora di metterlo in coma farmacologico. Sulla cura però
indugiava, e a intervalli periodici il dilemma amletico gli si
ripresentava: lasciarlo dormire o farlo morire? Draghi insisteva per la
prima soluzione. Ma ad un tratto il popolo italiano ha improvvisamente
optato per la seconda: ormai l’euro è solo uno zombie, un morto che
cammina. Volenti o nolenti, prendiamone atto.
Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A
Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità”
della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la
speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La
dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a
rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà
accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello
di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque
avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi
speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è
rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i
lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per
l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che
ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi
prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui
seppellire la moneta unica.
E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco
che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno
anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché
lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o
riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un
anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL
prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di
convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari
tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di
riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è
dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.
Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che
consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni
estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di
capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente
sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto
delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il
redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a
questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti
del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando
l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento,
riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi
favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile
per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che
dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è
salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle
pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose
andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione
della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto,
chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene
che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che
non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime
di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di
liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli
di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni
casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche
esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari
crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia,
Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali
rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998,
in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei
salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare
dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il
ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma
l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.
Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come
abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo
alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel
tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita
dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un
arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto
delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di
indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per
governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di
un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la
soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la
moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del
mercato unico europeo.
Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione
sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro
significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che
sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da
solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio
ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli
imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con
gli interessi dei lavoratori subordinati.
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi
scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale
di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B”
stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo
Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il
“piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può
riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in
prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno
in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche
loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa
sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per
decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di
economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a
rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non
certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di
circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere
Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non
vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di
paradigma [4].
Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a far male davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.
Emiliano Brancaccio da emilianobrancaccio.it
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