sabato 15 marzo 2014

Essere liberi per la liberazione? di Anselm Jappe

Il testo che segue è tratto da un documento presentato a San Cristobal de las Casas (Messico), nel corso del "Secondo seminario internazionale di riflessione ed analisi: Pianeta Terra, movimenti antisistemici" (30 dicembre 2011 - 2 Gennaio 2012) che celebrava il 18° anniversario dell'insurrezione zapatista, cosa che spiega certe allusioni e riferimenti.
Ci sono due notizie. Quella buona è che il nostro vecchio nemico, il capitalismo, sembra trovarsi in una crisi gravissima. La cattiva, è che, per il momento, nessuna forma di emancipazione sociale sembra davvero a portata di mano, e non c'è niente che garantisca che la possibile fine del capitalismo porterà ad una società migliore. E' come se la prigione, dove siamo rimasti a lungo imprigionati, avesse preso fuoco ed il panico si fosse diffuso fra i secondini, ma le porte rimangono serrate. Vorrei cominciare con un ricordo personale che riguarda il Messico. Ho visitato il vostro paese nel 1982, quando avevo 19 anni, e lo zaino. Allora vivevo in Germania. Nonostante il fatto che all'epoca si parlasse del "Terzo mondo" e della sua miseria, conoscerlo realmente e confrontarsi con i bambini che mendicavano a piedi nudi, è stata un'altra cosa. In Messico, alloggiavo in una specie di ostello della gioventù gestito da degli svizzeri, e una sera, rientrando, sopraffatto dalla visione della povertà nella città, mi misi a leggere una copia del settimanale tedesco, Der Spiegel, che avevo trovato. Mi imbattei in un gran reportage sullo stato della società tedesca, che allora sembrava essere al suo apogeo. La descrizione era desolante al più alto grado: nient'altro che depressione e farmacodipendenza, famiglie destrutturate, giovani demotivati e degrado sociale. Mi sentivo come immerso in un abisso. Allora, avevo già una lunga esperienza della critica teorica e pratica del capitalismo, di cui già pensavo tutto il male possibile. Ma mai prima avevo sentito con una tale forza in quale mondo viviamo, un mondo dove gli uni crepano di fame e dove gli altri, quelli che si ritiene che vivano in cima alla catena, sono così infelici da rimpinzarsi di droghe che li uccidono. (I ricordi della mia vita in Germania confermavano pienamente quel reportage). Avevo sentito che i poveri sono infelici ed anche i "ricchi" lo sono, e che il capitalismo è perciò infelicità per tutti. Capivo che questo sistema, in ultima istanza, non giova a nessuno, che far "sviluppare" i poveri per farli diventare come i ricchi non serve a niente, e che la società di mercato è la nemica del genere umano. Ma allo stesso tempo, questo sistema sembrava essere forte, molto forte, nel 1982, e ci si poteva solo deprimere se si considerava il rapporto di forze tra chi voleva, in un modo o nell'altro, cambiare questo sistema, e le forze di cui detto sistema disponeva, compreso il consenso che suscitava malgrado tutto ed i benefici materiali che poteva ancora distribuire. Oggi, sembra che la situazione sia radicalmente cambiata. In questi giorni si evocano in Europa, nelle istanze politiche e sui grandi media, degli scenari catastrofici, di genere argentino. Non è necessario che qui mi soffermi sul fatto che dappertutto si percepisca una crisi assai grave del capitalismo, che perdura almeno dal 2008. Avete potuto leggere la traduzione del mio articolo dove tento di immaginare cosa accadrà nelle società europee se il denaro, tutto il denaro, perderà il suo ruolo dopo un crollo finanziario ed economico. E' stato pubblicato su Le Monde e numerosi lettori l'hanno commentato: tuttavia penso, che ci vorrà ancora qualche anno, o verrò classificato nella stessa categoria di quelli che vedono gli UFO...
Tuttavia, e questa è una prima osservazione importante da fare, questa crisi del capitalismo non è dovuta alle azioni dei suoi avversari. Tutti movimenti rivoluzionari moderni, e pressoché tutta la critica sociale, hanno sempre immaginato che il capitalismo sparirà perché vinto dalle forze organizzate decise ad abolirlo e a rimpiazzarlo con qualcosa di migliore. La difficoltà era quella di demolire l'immenso potere del capitalismo, che risiedeva tanto nelle canne dei fucili quanto radicato nelle menti stesse; ma se si riusciva, l'alternativa era a portata di mano: infatti, era l'esistenza stessa di un progetto alternativo di società che avrebbe causato, in ultima istanza, le rivoluzioni.
Quello che vediamo oggi, è il crollo del sistema, la sua autodistruzione, il suo esaurimento, il suo autoaffondamento. Alla fine ha incontrato i suoi propri limiti, i limiti della valorizzazione del valore che portava in nuce fin dall'inizio. Il capitalismo è essenzialmente una produzione di valore, che si rappresenta nel denaro. Solo quello che procura denaro interessa nella produzione capitalista. Questo non è dovuto essenzialmente all'avidità dei malvagi capitalisti. Il fatto è che solo il lavoro attribuisce valore alle merci. E questo significa anche che le tecnologie non aggiungono valore supplementare alle merci. Più si utilizzano macchinari ed altre tecnologie, meno valore c'è in ciascuna merce. Ma la concorrenza spinge senza posa i proprietari di capitale ad utilizzare tecnologie che sostituiscono il lavoro. Così, il sistema capitalista mina le sue proprie basi, e lo ha fatto fin dall'inizio. Solo l'aumento continuo della produzione di merci può contrastare il fatto che ciascuna merce contenga sempre meno "valore", e dunque plusvalore, traducibile in denaro. Si conoscono le conseguenze ecologiche e sociali di questa folle corsa alla produttività. Ma è altrettanto importante sottolineare che questa caduta della massa di valore non può essere compensata eternamente e che alla fine porta ad una crisi dell'accumulazione del capitale stesso.Negli ultimi decenni, l'accumulazione mancante è stata rimpiazzata largamente dalla simulazione per mezzo della finanza e del credito. Ora, questa terapia di mettere "sotto trasfusione" il capitale ha, anch'essa, incontrato i suoi propri limiti, e la crisi del meccanismo della valorizzazione sembra oramai irreversibile. Questa crisi non è, come alcuni vogliono credere, un'astuzia dei capitalisti stessi, un modo per far passare delle misure ancora più sfavorevoli per i lavoratori e per i beneficiari dell'assistenza pubblica, per smantellare le strutture pubbliche ed aumentare i profitti delle banche  e dei super-ricchi. E' incontestabile che alcuni attori economici riescono ancora a trarre grossi benefici dalla crisi, ma questo vuol solo dire che una torta sempre più piccola viene tagliata in parti più grandi per un numero sempre più ridotto di concorrenti. E' evidente che questa crisi sfugge ad ogni controllo e minaccia la sopravvivenza del sistema capitalista in quanto tale. Naturalmente, questo non vuol dire automaticamente che stiamo assistendo all'ultimo atto del dramma cominciato 250 anni fa. Il fatto che il capitalismo abbia raggiunto i suoi propri limiti - sul piano economico, ecologico, energetico - non significa che crollerà dal mattino alla sera, anche se questo non può essere del tutto escluso. Piuttosto, si può prevedere un lungo periodo di declino della società capitalista, con degli isolotti situati un po' dappertutto, sovente circondati da mura, dove la riproduzione capitalista lavorerà ancora, e delle vaste distese di terra bruciata dove i soggetti post-mercato dovranno cercare di sopravvivere come possono. Il traffico di droga e il recupero dei rifiuti sono due delle facce più emblematiche di questo mondo che riduce gli stessi esseri umani a dei "rifiuti", e di cui il più grande problema non è più quello di essere sfruttati, ma di essere semplicemente "superflui" dal punto di vista dell'economia di mercato, senza avere più la possibilità di tornare a delle forme pre-capitaliste di economia della sussistenza nell'agricoltura e nell'artigianato. Laddove il capitalismo ed il suo ciclo di produzione e di consumo non funzioneranno più, si potrà semplicemente tornare a delle forme antiche di società, ma il rischio è quello di entrare in delle nuove forme che combinano i peggiori elementi delle altre formazioni sociali. E' certo che coloro che vivono in aree della società che ancora "lavorano", vorranno ancora difendere i loro privilegi con le unghie e con i denti, con le armi e con delle tecniche di sorveglianza sempre più sofisticate. Anche in quanto bestia morente, il capitalismo può ancora fare degli scempi terribili, non solo innescando guerre e violenze di ogni genere, ma anche provocando dei danni irreparabili sul piano ecologico, con la disseminazione di OGM, di nano-particelle, ecc.. Perciò, la cattiva salute del capitalismo è solo una "condizione necessaria" per l'avvento di una società liberata, non è per niente una "condizione sufficiente", in termini filosofici. Il fatto che la prigione bruci non serve a niente se la porta non si apre, o se si apre solo su un precipizio.
Un-grupo-de-hombres-celebra-la-proclamación-de-la-segunda-república
Questo costituisce una grande differenza rispetto al passato: per più di un secolo, il compito dei rivoluzionari è stato quello di trovare dei mezzi per poter abbattere il mostro. Se si riusciva, sarebbe stato inevitabile che il socialismo, la società libera - o quale che fosse il nome datogli - doveva succedergli. Oggi, il compito di coloro che una volta erano i rivoluzionari si presenta in modo inverso: a fronte dei disastri prodotti dalle rivoluzioni perpetue operate dal capitale, si tratta di "conservare" alcune acquisizioni fondamentali dell'umanità e di tentare di svilupparle verso una forma superiore. In questo momento, non è più necessario dimostrare la fragilità del capitalismo, che ha esaurito il suo potenziale storico di evoluzione - e questa è la buona notizia. Non è più necessario - e questa è un'altra buona notizia - concepire l'alternativa al capitalismo sotto forme che piuttosto lo continuano. Direi che oggi c'è molta più chiarezza sugli obiettivi della lotta, di quanta ce ne fosse quarant'anni fa. Fortunatamente, due modi di concepire il dopo-capitalismo - due modi generalmente sempre intrecciati - che hanno dominato per tutto il XX secolo, ultimamente hanno perso un bel po' di credibilità, anche se sono tutt'altro che scomparsi. Da un lato, il progetto di superare il mercato grazie allo Stato, la centralizzazione, la modernizzazione del suo recupero, e l'affidamento della lotta per arrivarci a delle organizzazioni di massa guidate da dei funzionari. Mettere tutto il mondo al lavoro era il fine principale di queste forme di "socialismo reale"; bisogna ricordare che per Lenin, come per Gramsci, la fabbrica di Henry Ford era un modello per la produzione comunista. E' vero che l'opzione statale continua ad avere i suoi adepti, sia sotto forma di entusiasmo per il caudillo Chàvez, sia evocando maggior intervento statale in Europa. Ma in generale, il leninismo, in tutte le sue varianti, dopo 30 anni ha dovuto lasciare per lo più la sua presa sui movimenti di contestazione, e questo è bene. L'altro modo di concepire il superamento del capitalismo, sotto una forma che rassomiglia piuttosto ad una sua intensificazione e ad una sua modernizzazione, è la fede cieca nei benefici causati dallo sviluppo delle forze produttive e della tecnologia. In entrambi i casi, la società comunista ecc. è concepita essenzialmente come una distribuzione più giusta dei frutti dello sviluppo della società capitalista ed industriale, ampiamente invariata. La speranza che la tecnologia e le macchine possano risolvere tutti i nostri problemi ha subìto dei severi colpi negli ultimi quarant'anni, sia a causa della nascita di una coscienza ecologica sia perché i suoi effetti paradossali sull'essere umano diventano sempre più evidenti (vorrei richiamarmi qui a Ivan Illich,malgrado tutte le riserve che posso avere su certi aspetti della sua opera, che ha avuto il grande merito di aver messo in rilievo questi aspetti paradossali ed di aver scosso la fede nel "progresso"). Credere che il progresso tecnologico comporti il progresso morale e sociale, se non si presenta più come esaltazione delle centrali nucleari "socialiste" o della siderurgia, o nell'elogio incondizionato del produttivismo, ha tuttavia trovato una nuova via nella speranza spesso grottesca che ripone nell'informatica e nella "produzione immateriale" - per esempio, nel corso dell'attuale dibattito sull'appropriazione - cui associa da qualche tempo  il concetto di "comune" e di "bene comune". E' vero che tutta la storia, e la preistoria, del capitalismo è stata storia della privatizzazione delle risorse che prima erano comuni, a partire dal caso esemplare delle "recinzioni" in Inghilterra. Secondo una prospettiva largamente diffusa, almeno negli ambienti informatici stessi, la lotta per la gratuitità e l'accesso illimitato ai beni digitali sarebbe una battaglia che ha la stessa importanza storica - ed essa sarebbe, dopo secoli, la prima battaglia vinta dai partigiani della gratuità e dell'uso comune delle risorse. Però, i beni digitali non sono dei beni essenziali. Poter disporre sempre gratis dell'ultima canzone o dell'ultimo videoclip può essere simpatico - ma il nutrimento, il riscaldamento o l'alloggio non sono scaricabili e, al contrario, sono sottomessi ad una rarefazione e ad una commercializzazione sempre crescente. Il file-sharing può sembrare una pratica interessante, e nondimeno costituisce un epifenomeno in relazione alla scarsità dell'acqua potabile nel mondo, o in rapporto al riscaldamento globale. La tecnofilia sotto forme nuove appare oggi meno "dozzinale" rispetto al progetto di "prendere il potere" e costituisce forse un ostacolo maggiore a compiere una rottura profonda con la logica del capitalismo. Tuttavia, la diffusione di proposte come la decrescita, l'ecosocialismo, l'ecologia radicale, il ritorno dei movimenti contadini in tutto il mondo, ecc., indicano, nella loro eterogeneità e con tutti i loro limiti, che una certa parte dei movimenti di contestazione attuali non vuole affidare al progresso tecnico il compito di farci incamminare verso una società emancipata. Ed è un'altra buona notizia.
Hernst Hass Siviglia 1956
Direi, perciò, che esiste attualmente, in linea di principio, una maggior chiarezza circa i contorni di una vera alternativa al capitalismo. Un "programma" come quello indicato da Jérôme Baschet nel corso dell'incontro del 2009 mi pare del tutto ragionevole, è importante soprattutto il fatto che non si limiti ad una critica della sola forma ultra-liberale del capitalismo, ma veda il capitalismo tutto intero, cioè a dire la società di mercato basata sul lavoro astratto e sul valore, sul denaro e sulla merce. Se dunque siamo un po' più fiduciosi di prima sul fatto che il capitalismo sia in crisi, e se abbiamo un po' più chiarezza sulle alternative, va posta ora la questione seguente: come ci si arriva? Non voglio lascarmi andare, qui, a delle considerazioni strategiche, o pseudo-strategiche, ma domandarmi piuttosto che genere di donne ed uomini possono realizzare la trasformazione sociale necessaria. C’est ici que gît le lièvre (Hic jacet lepus: qui si trova la difficoltà). In effetti, per dirla tutta, si ha spesso l'impressione che la vera "regressione antropologica" causata dal capitale, soprattutto negli ultimi decenni, abbia ugualmente colpito quelli che potrebbero o vorrebbero opporsi ad esso. Un cambiamento importante cui non si presta sempre tutta l'attenzione necessaria. L'economia di mercato è nata in dei settori assai limitati di qualche paese solamente; in seguito, nel corso di due secoli e mezzo, ha conquistato il mondo intero, non solo in senso geografico, ma anche all'interno di ogni società - quella che viene chiamata la "colonizzazione interiore". Poco a poco, tutte le attività, tutto il pensiero, tutto il sentimento all'interno delle società capitaliste, ha preso la forma di una merce o si è visto soddisfatto da delle merci. Si sono spesso descritti gli effetti della società dei consumi e le sue conseguenze particolarmente nocive allorché veniva brutalmente introdotta nei contesti cosiddetti "arretrati" (e qui potrei ancora citare Illich). E' ben noto, e non starò qui a ripeterlo. Ma non ci si rappresenta a sufficienza il fatto che a causa di tale evoluzione, la società capitalista non appare più divisa semplicemente fra dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, amministratori e amministrati, carnefici e vittime. Il capitalismo è visibilmente sempre più una società governata dai meccanismi anonimi e ciechi, automatici ed incontrollabili, della produzione del valore. Tutto il mondo sembra allo stesso tempo attore e vittima di questo meccanismo, anche se i ruoli giocati e le ricompense ottenute non sono evidentemente gli stessi.
Nelle rivoluzioni classiche, e al grado più alto nella rivoluzione spagnola del 1936, il capitalismo veniva combattuto da delle popolazioni che lo vivevano come un'esteriorità, un'imposizione, un'invasione. Gli venivano opposti dei valori, dei modi di vivere, delle concezioni della vita umana del tutto altre; costituivano, volenti o nolenti (anche quando non venivano idealizzati) un'alternativa qualitativa alla società capitalista. E, che lo si ammetta o meno, questi movimenti traevano una gran parte della loro forza dal radicamento nelle abitudini pre-capitaliste: nell'attitudine al dono, alla generosità,nella vita collettiva, nel disprezzo per la ricchezza materiale come fine in sé, in un'altra concezione del tempo... Marx stesso ha dovuto ammettere, verso la fine della sua vita, che i resti dell'antica proprietà collettiva della terra, ai suoi tempi ancora presenti presso numerosi popoli, rappresentavano una basa per una società comunista futura. Come si sa, anche oggi, questi resti esistono ancora, soprattutto presso i popoli indigeni delle Americhe.

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