Che a sinistra si pensi di ribaciare il rospo è un bel segno dei tempi.
Dà in primo luogo la misura del disastro provocato dal berlusconismo.
L'ossessione per l'immoralità e l'indecenza dei comportamenti è tale che
la sostanza politica passa in second'ordine. Come se un governo non
fosse un'impresa politica, e come se non si potesse essere galantuomini e
reazionari, persone competenti fieramente impegnate nell'attacco ai
diritti sociali. Ma non solo di Berlusconi si tratta. È questione, più
in generale, di cultura politica. Ci si è talmente disabituati a pensare
in termini di classe, che non si riesce più a leggere nemmeno un quadro
nitido, di per sé inequivocabile. La cifra sociale di questo governo
non è meno limpida di quella del precedente, lo è forse di più, se
consideriamo il mandato che gli è stato affidato. Il governo Monti nasce
per tradurre in realtà le indicazioni contenute nella lettera della
Bce: occorre altro? A scanso di equivoci, è bene tenere presente che
Bruxelles non si limita a tuonare contro l'eccesso di deficit e debito,
ma indica nel merito il modo di ridurli: gli Stati-azienda debbono
finanziarsi privatizzando, licenziando e tagliando il welfare, non
possono mica redistribuire ricchezza. Maastricht e Lisbona non sono
carta straccia! Del resto, vorrà pur dire qualcosa la martellante
invocazione di «scelte impopolari» da parte di leader della maggioranza
vecchia e nuova, di industriali e grande stampa. Che cosa s'intenda lo
sappiamo bene: dopo 35 anni di sacrifici imposti al lavoro dipendente
(in Italia si è cominciato con la svolta dell'Eur nel nome delle
compatibilità), la prospettiva è quella di altri sacrifici per il lavoro
dipendente, nel nome del risanamento o del rigore o dell'interesse
generale. Non bastasse, c'è un problema costituzionale, grosso come una
montagna. Il diktat della Bce rivoluziona la dinamica istituzionale, se è
vero che la Costituzione riserva al Parlamento la prerogativa di
esprimere maggioranze e governi, e al Presidente della Repubblica affida
il compito di interpretare la volontà delle Camere e di favorirne la
realizzazione. Se non vogliamo nasconderci dietro un dito, in questo
frangente la sequenza è stata rovesciata. Il governo Monti è nato da
un'iniziativa del Quirinale, che il Parlamento - sottoposto a una
formidabile pressione interna e internazionale - si è limitato ad
avallare. Non siamo noi a dirlo, lo ha ammesso a chiare lettere chi ha
parlato di «governo del Presidente» (formula ignota ai Padri
costituenti) e di «governo dell'emergenza» (invocando lo stato di
necessità o di eccezione). Detto questo (che non è poco), la sostanza
politica sta in una domanda: perché i partiti accettano di buon grado
l'esproprio delle loro funzioni? perché consegnano ai «tecnici» il
governo del Paese, mentre affermano di condividere il programma del
nuovo esecutivo? Si dice: non c'erano le condizioni per un accordo tra
Bersani e Alfano (né tra Casini e Di Pietro): Monti sarebbe lo snodo
tecnico che permette una grande coalizione altrimenti impossibile. Ma è
più verosimile un'altra spiegazione. Si tratta della classica astuzia
tattica dei politici. Quando il sollievo per la cacciata di Berlusconi
cederà il passo alla rabbia, si potrà spergiurare che il governo sceglie
in piena autonomia e mettere in scena qualche scaramuccia parlamentare.
Un bel parafulmine della collera popolare, già messa nel conto. Il
fatto è che questa operazione non sarà per tutti a costo zero.
Probabilmente per il Terzo polo e il Pdl si rivelerà un buon affare.
L'elettorato di Fini e Casini gradirà privatizzazioni e «riforme» in
stile gelminian-sacconiano. E la destra, a suo tempo, trarrà vantaggio
dal denunciare le forzature quirinalizie. Il centrosinistra invece, a
cominciare dal Pd, difficilmente ci guadagnerà. Gran parte della sua
gente pagherà care le ricette di Monti. Il lavoro dipendente sarà
tartassato; gli operai faranno i conti col modello Marchionne, ammirato
dal premier; e i giovani, che tutti a parole intendono proteggere,
seguiteranno a pascolare nella precarietà. Con ogni probabilità le
«scelte impopolari» del nuovo governo apriranno una grossa falla nei
consensi del centrosinistra. Ma se questo è vero, un nuovo scenario si
apre anche per il nostro partito, per la Federazione e per l'intera
sinistra. Alla domanda di reddito, di lavoro e di beni comuni questo
governo e i partiti che lo sostengono non potrebbero dare risposta
nemmeno se volessero. Dare visibilità e forza a tali rivendicazioni è
compito dei comunisti e della sinistra di alternativa. Per far questo,
due condizioni appaiono tuttavia ineludibili: l'unità della sinistra e
la sua autonomia dal centrosinistra. Frammentata, la sinistra è
ininfluente; interna al centrosinistra, sarebbe subalterna. I gruppi
dirigenti ci riflettano e dimostrino di sapersi muovere con intelligenza
e generosità. La nostra gente se lo aspetta, anzi, lo esige.
mercoledì 30 novembre 2011
L'impresa del comunismo non merita abiure di Dino Greco, Liberazione
Lucio Magri ha deciso di andarsene così, mettendo fine ad un lungo
periodo di autoisolamento e ormai irreversibile depressione. E noi non
proveremo neppure ad indagarne le personalissime ragioni, che devono
solo essere comprese e rispettate. Resta il dolore per una perdita che
nessuno e nessuna hanno potuto evitare. In quest'ora tristissima, solo
poche cose ci sentiamo di dire, ed in primo luogo una. Benché il
suicidio possa apparire come una resa ai colpi della vita, e per lui
indubbiamente lo è stata, il messaggio, quello pubblico, che Lucio ci
rende è l'opposto della rinunzia alla lotta, all'ingaggio politico.
Negli ultimi tempi, totalmente immerso nella stesura del suo ultimo
libro che oggi ci appare non solo come un grande sforzo di ricognizione
storica, ma come il suo testamento politico, Lucio era dominato da un
assillo, quello di avere mancato in un momento di cruciale importanza
per le prospettive della sinistra italiana. Fu quando ad Arco di Trento -
dopo la svolta della Bolognina con cui Achille Occhetto aveva imboccato
la strada della dissoluzione del Pci - Lucio svolse al cospetto della
sinistra del partito che si opponeva a quell'epilogo - una lucidissima
relazione nella quale contestava in radice la scelta autodistruttiva di
Occhetto, ne demoliva i presupposti politici e culturali, per delineare
il progetto di un profondo rinnovamento della cultura, della strategia
del partito comunista, di una sua rifondazione, appunto. Era convinto,
Magri, che i giochi fossero ancora aperti. Lo era sin da quando, nei
primi anni Ottanta, lo scontro nel Pci fra Enrico Berlinguer e la destra
interna (sulla Fiat, sulla scala mobile, sulla questione operaia, sulla
questione morale come degenerazione della partitocrazia) era venuto
alla luce del sole con inedita durezza e andavano maturando le
condizioni di una riparazione storica e politica del partito alla
radiazione inflitta al gruppo del Manifesto, nel fuoco di una battaglia
che si annunciava già senza esclusione di colpi. Ebbene, malgrado il
colpo della scomparsa di Berlinguer, Lucio era convinto che Occhetto (e
il gruppo dirigente stretto attorno a lui) non avrebbe retto di fronte
ad un’opposizione che la sinistra avesse voluto portare sino alle
estreme conseguenze, sino cioè alla minaccia di scissione. Solo quando
Pietro Ingrao, con il suo immenso carisma, si pronunciò in favore, in
ogni caso, di una permanenza nel partito, a lottare nel «gorgo», i
giochi furono fatti. E Magri, ripensando a quei momenti cruciali, non
finiva di rimproverare a se stesso e agli altri compagni di non avere
reagito, di avere subito quello che, retrospettivamente, gli parve un
cedimento, una debolezza, comunque un errore fatale. Difficile dire se
la storia, se la vicenda politica della sinistra e del nostro Paese
avrebbero potuto davvero prendere un’altra piega. Certo Magri ne era
convinto e questa possibilità mancata, proprio perché sorretta da una
rigorosa analisi storica controfattuale, rappresentava per lui il motivo
di un tormento quasi angosciante. Nell’incipit del suo libro, Il sarto
di Ulm, c’è tuttavia l’ultima feconda esortazione che Lucio ci ha
lasciato. L’invito a trarre da quell’apologo la forza, intellettuale e
morale, per non ripiegare passivamente sui nostri insuccessi. Dopo il
fallimento rovinoso del sarto inventore di un marchingegno che credette
capace di fargli spiccare il volo, gli uomini tentarono mille e mille
volte ancora, finché riuscirono, molti secoli dopo, in quell’impresa
titanica. Allo stesso modo, i comunisti farebbero bene a scansare la
damnatio memoriae così di moda di questi tempi. «Se la storia reale
della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente
progressiva - scrive Magri - perché dovrebbe esserlo il processo del suo
superamento?». Ecco allora che «chi al tentativo del comunismo ha
creduto e in qualche modo vi ha partecipato (...) ha il dovere di
rendere conto (...), di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo
frettolosa». Lucio Magri ci manda a dire che quel tentativo che ha
coinvolto per decenni le vite di migliaia, centinaia di migliaia,
milioni di esseri umani in una straordinaria impresa collettiva, in un
progetto di riscatto dell’umanità dalla soggezione e dallo sfruttamento,
merita di essere considerato non soltanto con rispetto, ma come un
percorso da riprendere. «Torno di nuovo e di più a chiedermi -
concludeva Magri - se vi siano argomenti razionali e convincenti per
opporsi all’abiura e alla rimozione. O quanto meno buone ragioni e
condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul
comunismo, anziché archiviarla. A me pare di sì». Pare anche a noi, caro
Lucio. Grazie per il salutare, intelligente colpo di sferza che hai
voluto darci. Fino all’ultimo.
Ciao Lucio, l’uomo volerà: ce lo hai insegnato tu
Ci
ha lasciati Lucio Magri, e il modo con cui ha scelto di farlo
testimonia ancora una volta tutto il suo coraggio e tutta la sua
lucidità. Nella sua scelta vive una libertà straordinaria, e la
consapevolezza che il senso di vertigine può determinare la rottura
dell’equilibrio e del limite che separano la vita dalla morte. Di fronte
a questo, alla grandezza tragica dei nostri destini, non possiamo che
restare muti. Ed è forse solo la scelta consapevole della morte a
restituire libertà a ciò che per sua natura è irrevocabile tanto quanto
insondabile.
Magri in questi ultimi anni aveva lavorato ad un libro e due anni fa lo aveva pubblicato. Già nel titolo, Il sarto di Ulm, rievocava
uno straordinario apologo di Brecht. Alla fine del Cinquecento un sarto
della città di Ulm, convinto di poter volare, costruisce un
marchingegno molto rudimentale e tenta la sorte, presentandosi dal
vescovo in cima alla grande cattedrale. La prova fallisce e il sarto
muore schiantato a terra ma l’uomo, alcuni secoli dopo, imparò a volare.
Sicuramente malgrado questo tentativo. Forse, in parte, anche
attraverso e per tramite di questo errore.
Per Magri questa scena è l’allegoria di un sogno, di un progetto e di una lotta chiamata comunismo.
E allora, proprio perché il dolore della
morte ci rende afoni, l’unico modo per omaggiare Lucio è confrontarsi
con la sua vita e con quel sogno, che equivale a confrontarsi con i
tentativi falliti e gli errori della nostra storia.
Nel giugno dello scorso anno
organizzammo insieme a lui a Monte Sole, a Marzabotto, un seminario di
formazione per i Giovani comunisti.
Per ore discutemmo e lo ascoltammo con
quell’ammirazione e quella deferenza imposta dalla distanza tra lui, una
parte meravigliosa di storia del Pci e della sinistra italiana, e noi,
così piccoli e così stupidi.
Poi verso la fine presi tra le mani
l’appendice di quel libro che stavamo discutendo, un lungo saggio
scritto da Magri nel 1987 con la funzione di essere la base di una
possibile ma mai realizzata mozione alternativa ad Occhetto per
l’imminente XVIII congresso del Pci. In quella possibile ma mai
realizzata mozione alternativa c’è tutto: l’analisi lucidissima di un
sistema che cresce in quanto moltiplica le diseguaglianze di reddito
all’interno di ogni Paese capitalistico e tra le aree del mondo;
l’incompatibilità tra il funzionamento del sistema economico e il
permanere delle grandi conquiste sociali che avevano segnato i decenni
precedenti (il welfare, la piena occupazione, una democrazia nella quale
i lavoratori fossero protagonisti, il diritto all’indipendenza
nazionale); l’erompere di questioni nuove e già cruciali, come il
degrado dell’ambiente, il degrado morale, la crisi di rappresentanza del
sistema politico e partitico; la crisi economica come unico orizzonte
del capitalismo e, dentro questa logica, il ricorso sistematico alla
forza militare. E nella mozione scritta ma mai presentata c’è la
consapevolezza che questo è un sistema che per essere contrastato e
vinto impone la costruzione di un controcanto, e cioè impone che a
nostra volta si definisca un sistema coerente, si accumuli la forza
necessaria per imporlo, si impari la capacità per gestirlo, si dia vita
ad un blocco sociale che sia in grado di sostenerlo e che quindi si
stabiliscano le tappe e le alleanze utili per affermarlo. In breve: la
summa di un comunismo possibile, della nostra idea di comunismo.
E allora la domanda che gli rivolsi fu
ingenua e banale: perché non presentaste quella mozione? Perché non
provaste a impedire il corso degli eventi, la rimozione occhettiana
della questione comunista, perché non deste al sarto di Ulm un’ulteriore
possibilità di volare? Lucio Magri sorrise. Con quel suo sorriso carico
e denso di bellezza e intelligenza. Poi riprese a parlare, a spiegare, a
dettagliare, ad insegnare.
Una cosa, caro Lucio, da te l’abbiamo
imparata. Dobbiamo provare e riprovare, sbagliare e romperci la testa.
Ma l’uomo volerà. In quell’infinito orizzonte di libertà che la tua vita
e la tua morte ci hanno indicato.
Simone Oggionni - Reblab.it
lunedì 28 novembre 2011
Cuneo, le primarie che non ti aspetti: vince l'outsider Garelli
di Anna Cattaneo, Liberazione
A Cuneo, come Milano, le primarie che non ti aspetti. Il capoluogo
della Granda, chiamato a decidere il volto della sinsitra che correrà
alle elezioni amministrative della primavera 2012, ha scelto il suo
Pisapia. A vincere la sfida fra i cinque candidati è infatti l’outsider
Gigi Garelli, cinquantenne professore di filosofia, appoggiato da
Rifondazione comunista e dalla “Costituente dei Beni comuni”. Docente
distaccato all’Istituto storico della Resistenza, molto attivo nel
volontariato cattolico, Garelli ha sconfessato ogni previsione
sbaragliando i tre nomi messi in campo dal PD, tra questi l’ex sindaco
Elio Rostagno, e la candidata di SEL Franca Giordano. Primarie che a
Cuneo esordiscono con un risultato doppiamente inatteso. Innanzitutto
per l’affluenza, un record in Italia con l’11,9% dei votanti sui 44.575
aventi diritto. Quasi il doppio rispetto a Torino dove a febbraio votò
il 6% e ben oltre il precedente record del 9,3% a Reggio Emilia. Alle
consultazioni, che si sono svolte domenica con un seggio centrale nel
palazzo congressi della Provincia e gli altri nelle quindici frazioni,
hanno potuto partecipare anche i giovani di età compresa fra i 16 e i 17
anni e gli immigrati regolari residenti in città. In nottata l’esito
dello scrutinio ha visto prevalere Gigi Garelli con il 27,26% delle
preferenze (1.456 su 5.258). Al secondo posto Elio Rostagno con il
22,25%. Imprenditore 64enne, Rostagno si è da subito presentato come il
candidato forte del Partito Democratico per il quale è stato consigliere
regionale e provinciale. Due le candidature “in rosa” che hanno
raccolto consensi soprattutto nelle frazioni. Si tratta del provveditore
agli studi Franca Giordano, volto del partito di Nichi Vendola, che ha
ottenuto il terzo posto con il 21,78% mentre Patrizia Manassero,
esponente del Pd e assessore al Bilancio del Comune di Cuneo, ha
sfiorato il 18%. Meno del 11% per il terzo nome della rosa democratica,
il vicesindaco Giancarlo Boselli, al quale sono andati 569 voti. “Una
partecipazione eccezionale – commenta Fabio Panero, segretario
provinciale di Rifondazione e consigliere comunale -. Una grande
vittoria popolare che ci ha visti impegnati in una campagna come in
passato. Ci siamo impegnati casa per casa, andando a spiegare il nostro
programma in ogni quartiere, parlando con la gente, come in passato ha
sempre fatto la sinistra sociale non quella salottiera”. A colpi di
spaghettate, Facebook e Twitter, la campagna di Gigi Garelli ha puntato
su un programma di rottura rispetto all’attuale giunta guidata da
Alberto Valmaggia. In primo piano il riesame del piano regolatore, con
una moratoria sull’edificabilità e sulla grande viabilità, in
particolare la tangenziale Est-Ovest che collega il capoluogo alle
vallate lungo il torrente Gesso e il fiume Stura. Poi la richiesta di
maggiore trasparenza nelle nomine a incarichi pubblici, equità fiscale,
rispetto del paesaggio e apertura al dialogo interculturale. Sono
infatti i “beni comuni” la cifra che caratterizza il programma
elettorale del professore di filosofia, sostenuto da Rifondazione e da
un nuovo soggetto politico, la “Costituente dei Beni Comuni”, che
raggruppa esponenti di associazioni locali e movimenti. Spiega il
segretario di Rifondazione Fabio Panero: “Si tratta di un progetto
nuovo, che è stato capace di riunire tutto un mondo che va dal nostro
partito al cattolicesimo sociale, unito da dall’idea che è un altro
mondo è possibile, che si può cambiare il modo di fare politica”. Una
campagna, quella di Garelli, che molto ha puntato sul coinvolgimento dal
basso, così come è stato per Giuliano Pisapia di cui ha scelto il
colore, l’arancione. Archiviato il successo delle primarie, ora il
“cattocomunista” Garelli dovrà incanalare l’entusiasmo suscitato dalla
sua candidatura nella sfida del voto primaverile. Sul versante politico
opposto, Lega e Pdl sembrano intenzionati a correre per conto proprio.
Il nome per il Carroccio sarà quello di Claudio Sacchetto, assessore
regionale all’agricoltura, indicato dallo stesso Calderoli a Pian del Re
nel girono del rito dell’ampolla sul Po.
DOCUMENTO POLITICO FINALE - VIII CONGRESSO PROVINCIALE DELLA FEDERAZIONE DEL PRC DI PERUGIA
L'VIII congresso della Federazione Provinciale di Perugia del Partito
della Rifondazione comunista fa propria la relazione introduttiva del
segretario uscente Enrico Flamini.
In un contesto mondiale
di ristrutturazione del capitalismo che genera l'attuale crisi di
sistema, l'azione delle classi dominanti si fonda sulla riscrittura dei
rapporti di forza e sullo smantellamento dello stato sociale. La crisi è
esplosa nel nostro Paese, un Paese dove dilaga corruzione, evasione e
criminalità, in una situazione economica e sociale peggiore rispetto a
quella dei principali paesi europei. L'Italia, sotto attacco della
speculazione internazionale, ha visto la nascita del governo Monti, una
sorta di commissariamento della BCE, che segna un'uscita a destra
rispetto alla caduta del governo Berlusconi, non solo per le misure che
si appresta a fare come privatizzazioni, peggioramento dei diritti per i
lavoratori, ma anche per il carattere marcatamente antidemocratico che
rappresenta. Anche i nostri territori sono interessati da una forte
crisi, frutto delle politiche neoliberiste fatte di precarietà, bassi
salari ed aumento della povertà: esiste nella nostra provincia una
crescente questione sociale.
Per questo pensiamo che occorra
ripensare il nostro territorio e soprattutto il suo apparato
industriale, con nuove politiche votate all’innovazione, alla ricerca e
al potenziamento delle infrastrutture tecnologiche, alla riconversione
sostenibile in chiave ambientale e sociale, all’internazionalizzazione,
al lavoro di qualità, alla costruzione di sistemi e alla definizione di
reti e aggregazioni, ripensando anche un modello nuovo rispetto ai
consumi.
Riteniamo inoltre che una risposta possibile ai processi
di frammentazione sociale sia la valorizzazione e la centralità del
lavoro nelle sue forme, dal lavoro dipendente, al lavoro artigianale e
agricolo, dal piccolo commercio al lavoro autonomo eterodiretto, al
movimento cooperativo. Di più. Proprio per questo sosteniamo il
referendum per l'abolizione dell'articolo 8 della manovra economica di
agosto.
Su queste basi proponiamo la costruzione di un fronte
unitario al fine di rendere più efficace la nostra battaglia di
opposizione. La nostra proposta politica di fase è l’uscita a sinistra
dalla crisi nella direzione di un’alternativa di società che si coniuga
chiaramente con la riproposizione della “questione morale”. La capacità
di costruire un percorso in cui si passi dall'antiberlusconismo generico
ad una più chiara coscienza antiliberista è il nostro ruolo politico al
fine di continuare la nostra battaglia per l'eguaglianza e la giustizia
sociale. I continui tagli agli Enti Locali, operati dal governo
Berlusconi (cui l'attuale governo Monti sembra voler dare piena
continuità), ridimensionano gli strumenti in mano ai Comuni ed alla
Provincia per il governo dei territori. In questo senso ribadiamo che
occorre mettere al centro dell'azione di governo del territorio il
mantenimento dello stato sociale, la salvaguardia dei trasporti e dei
servizi pubblici locali per una mobilità alternativa (contrastando in
tal modo ogni ipotesi di privatizzazione), la difesa della sanità e
della scuola pubblica, una nuova politica di sviluppo che sappia
riconoscere la centralità al lavoro e all'ambiente. Allo stesso tempo
proponiamo di rompere il tabù del Patto di Stabilità come quello del
debito pubblico che, dietro il falso obiettivo di un rigore economico e
finanziario, sta espropriando le Istituzioni locali del proprio ruolo di
governo democratico dei territori. Su questo quadro pensiamo che
occorra continuare nella direzione di riforme strutturali capaci di
conseguire risultati di semplificazione e riqualificazione della spesa
pubblica intesa come leva di un nuovo modello di sviluppo sostenibile,
all'interno del riassetto federale dello stato, anche attraverso nuovi
strumenti fiscali, reperimento delle risorse e l'accesso al credito.
Inoltre
riteniamo che vada riproposto al centro del dibattito politico il tema
dell'Italia mediana come strumento per contrastare la divisione
territoriale particolaristica, frutto di interessi privati che
alimentano lo sfaldamento della cultura e dell'amministrazione del bene
pubblico; in questo senso intendiamo far avanzare la prospettiva di un
sempre più stringente coordinamento politico e amministrativo tra
regioni e territori che per storia a cultura politica comune hanno da
sempre valorizzato la valenza pubblica e universale dei servizi/diritti
al cittadino.
Per questo intendiamo opporci con forza alla vulgata
demagogica quotidianamente alimentata dal circuito mediatico, che
dietro il mito della casta e dell'antipolitica nasconde un piano
eversivo di desertificazione degli spazi e dell'agibilità della
rappresentanza democratica; coerentemente ci opponiamo alla chiusura
delle assemblee elettive e alla riduzione del numero dei rappresentanti
che sull'altare dei costi della politica indicano una strada che conduce
ad una pericolosissima regressione della democrazia. Al taglio delle
voci nel dibattito democratico opponiamo il taglio dei vitalizi e degli
emolumenti, indubbiamente elevati, percepiti da talune cariche, convinti
che la questione della rifondazione comunista sia oggi più che mai la
questione della democrazia e della sua espansione in senso progressista.
Ai
violenti attacchi alla democrazia, significative sono state le risposte
in termini di partecipazione popolare: un esempio su tutti ci è dato
dal referendum dello scorso giugno che ha segnato una importante
risposta da parte di milioni di cittadini agli esiti di anni di
politiche e di ideologia liberista. Noi condividiamo questa richiesta di
democrazia e partecipazione ed è per questo che ci batteremo in tutte
le sedi affinché venga avviato un percorso di ripubblicizzazione
dell'intero ciclo del servizio idrico nella nostra provincia. Riteniamo
inoltre che l'intero novero dei servizi alla cittadinanza vada riportato
sotto il controllo della sfera pubblica; in tal senso non ci mancano
esempi concreti anche nel nostro territorio a partire dalla VUS del
folignate-spoletino. Un'idea pertanto degli enti locali come luogo per
la costruzione di un modello alternativo di società e di governo dei
territori.
Anche rispetto all'Università, il calo delle iscrizioni
per le scelte scellerate del Senato Accademico perugino ripropone
un'idea di accesso allo studio di classe ed escludente. È necessario
lavorare quindi per riconquistare una nostra rappresentanza all'interno
delle assisi democratiche dell'Ateneo per avanzare le istanze dei
movimenti studenteschi e le nostre proposte. Siamo per la
“ripublicizzazione” dei saperi e per l'universalità della conoscenza,
per un pieno riconoscimento del diritto allo studio. Per l'Università
pubblica e di stato come bene comune.
Proprio su questi temi anche
nella nostra provincia è possibile aggregare la sinistra di
alternativa, in sinergia con i movimenti, con la Costituente dei Beni
comuni e del Lavoro, con l’impegno della Federazione della Sinistra. Per
questo avanziamo a tutte le formazioni politiche della sinistra, così
come alle compagne e ai compagni dei movimenti che, variamente
organizzati, si pongono la necessità politica di costruire una sinistra
ancora più forte ed incisiva nel nostro territorio, la proposta della
costruzione di un polo della sinistra di alternativa. Un polo che
coniughi lavoro, sviluppo, ambiente, qualità della vita e stato sociale,
un progetto che passa necessariamente per un percorso partecipato nella
società, una lunga e difficoltosa traversata nelle pieghe del dolore
sociale, tra le speranze e le aspettative delle classi subalterne.
partendo dalla partecipazione e dalle questioni vere che interessano il
nostro popolo: le questioni del lavoro, del salario, dell'agricoltura,
dell’artigianato, della sicurezza urbana, del piccolo commercio, delle
partita Iva, della scuola, del tipo di sviluppo economico locale. In
questo senso pensiamo occorra rafforzare a livello provinciale la
Federazione della Sinistra pensandola come luogo di incontro e
relazione, come leva di unità di azione tra tutti quei soggetti
politici, sociali e di movimento che sono disposti a opporsi alle
politiche neoliberiste imposte dalla BCE e dai tecnocrati dell’Unione
europea, mettendo in campo un movimento di resistenza al tentativo in
atto di svuotare la democrazia e le istituzioni locali, di creare un
mercato liberalizzato dei servizi pubblici locali, di cancellare i
diritti dei lavoratori. Il problema vero delle forze della sinistra nel
nostro territorio provinciale resta comunque il proprio insediamento
sociale. Non c’è processo unitario della sinistra se non c’è
legittimazione sociale e prospettiva politica. Anche nella nostra
provincia individuiamo nelle pratiche sociali una priorità strategica.
Dobbiamo continuare ad essere presenti nei luoghi di lavoro,
riconoscibili nelle vertenze operaie e del lavoro dipendente e autonomo,
nelle lotte delle comunità sui temi ambientali, nei movimenti che
rivendicano diritti e beni comuni, per contrastare in modo efficace le
difficoltà che la crisi produce tra i lavoratori e negli strati
popolari. Una sfida a cui dobbiamo rispondere con l'allargamento e
potenziamento dello stato sociale, con nuovi diritti sociali esigibili,
con nuove ed efficaci politiche dell'accoglienza, dell'inclusione,
dell'integrazione. In questo senso la lotta per la pace viene assunta
come centrale nella nostra iniziativa politica e culturale, anche
attraverso il recupero delle relazioni con tutte le organizzazioni
democratiche, progressiste e anti-imperialiste presenti nel capoluogo
provinciale, ad iniziare dalle rappresentanze dei movimenti della
“primavera araba” e dal popolo palestinese. La lotta ad ogni forma di
razzismo, ad ogni rigurgito di stampo antifascista ci impone anche su
questo terreno un rinnovato impegno politico e culturale sostenendo
anche il rafforzamento della presenza territoriale dell'ANPI. Questo
impegno si deve connettere anzitutto con la nostra presenza nel mondo
dei lavori e nelle organizzazioni sindacali per contrastare l’attacco
alla contrattazione nazionale ed i tentativi di inasprire i livelli di
precarietà ed insicurezza, per rilanciare il movimento di lotta per il
salario, per determinare risposte concrete alla crisi dell’apparato
produttivo provinciale come abbiamo fatto con la proposta di
introduzione del reddito sociale. Questo può favorire il nostro
radicamento sociale e determinare una discontinuità sostanziale rispetto
alle logiche perverse della politica attuale. Ciò non vuol dire che
rispetto al sistema delle alleanze dobbiamo perseguire l’isolamento.
Vuole dire solo che dobbiamo caratterizzarci per la proposta di una
svolta reale e netta, un profondo processo di innovazione e di
rinnovamento. Si può confermare e ricostruire un nuovo sistema di
alleanze locali su basi che partano da una analisi economico-sociale
condivisa del territorio provinciale. Per fare questo occorre rilanciare
l’azione politico-organizzativa del nostro partito. È necessario
continuare a rinnovare e rigenerare il partito, attraverso la centralità
dei circoli e dei territori. Un partito che continua a radicarsi,
capace di organizzare lotte e vertenze per la pace, contro la guerra,
per la ricomposizione di classe del mondo dei lavori e aperto alla
relazione con le diverse realtà sociali che operano nei comitati, nei
movimenti, nelle associazioni, nei sindacati. Non solo. Un partito
capace anche di utilizzare al meglio gli strumenti di comunicazione
offerti dal web e dall'innovazione tecnologica in genere ed anche capace
di fare formazione dei quadri dirigenti . In questo senso proponiamo
l'organizzazione di un partito che lavora a proposte alternative capaci
di raggiungere obiettivi concreti in favore delle classi subalterne, di
aggregare e di rilanciare l'iniziativa sui temi centrali del lavoro,
dell'ambiente e del modello di sviluppo. Su questo si dispiegherà la
nostra iniziativa attraverso la definizione di una Conferenza di
Programma.
Ponte San Giovanni (PG), 25 - 26 novembre 2011
Approvato con 87 voti favorevoli, 8 astenuti, nessun contrario
Primarie Todi - Dati definitivi: Rossini (Pd) candidato sindaco
Finiti gli scrutini delle primarie del centrosinistra a Todi.
Il
candidato Carlo Rossini del PD è ufficialmente il futuro candidato
sindaco per il centrosinistra tuderte.
Ecco i risultati:
Todi Porta Fratta:
Rossini PD 193,
Caprini PRC 74,
Costanzi PSI 112,
Frongia SEL 27,
Giorgi IDV 25.
Pantalla:
Rossini PD 100,
Caprini PRC 6,
Costanzi PSI 58,
Frongia SEL 7,
Giorgi IDV 5.
Duesanti:
Rossini PD 64,
Caprini PRC 17,
Costanzi PSI 3,
Frongia SEL 16,
Giorgi IDV 3.
Vasciano:
Rossini PD 58,
Caprini PRC 19,
Costanzi PSI 17,
Frongia SEL 5,
Giorgi IDV 3.
Piandiporto:
Rossini PD 191,
Caprini PRC 74,
Costanzi PSI 21,
Frongia SEL 16,
Giorgi IDV 73.
Todi Cappuccini:
Rossini PD 175,
Caprini PRC 62,
Costanzi PSI 62,
Frongia SEL 9,
Giorgi IDV 19.
Todi Centro:
Rossini PD 69,
Caprini PRC 55,
Costanzi PSI 8,
Frongia SEL 26,
Giorgi Idv 6.
Collevalenza:
Rossini PD 79,
Caprini PRC 7,
Costanzi PSI 22,
Frongia SEL 4,
Giorgi Idv 3.
Ponte Cuti:
Rossini PD 33,
Caprini PRC 8,
Costanzi PSI 29,
Frongia SEL 16,
Giorgi Idv 4.
Totale dei 9 seggi: 1883
Rossini PD 962, 51,1%
Costanzi PSI 332, 17,6%
Caprini PRC 322, 17,1%Giorgi IDV 141. 7,5%
Frongia SEL 126, 6,7%
domenica 27 novembre 2011
Nichi tira dritto, e lascia Bertinotti ad abbaiare alla luna
dal blog del dalemiano Peppino Caldarola - 26 novembre 2011
Ormai Vendola deve guardarsi da Bertinotti. L’antico sodalizio si è
sciolto e l’ex segretario di Rifondazione sega il ramo su cui su cui è
seduto il suo più prestigioso successore. In una intervista di ieri sul
settimanale diretto da Piero Sansonetti, “Gli Altri”, con cui collaboro,
Bertinotti ha preso clamorosamente le distanze da Nichi. Bertinotti, e
Sansonetti, sono convinti che l’avvento di Mario Monti sia il segno del
compimento di un “golpe bianco”. E’ una tesi infondata, cara anche a
Giuliano Ferrara, che sul prossimo numero del giornale provo a
confutare. Qui mi interesse attirare l’attenzione invece su un'altra
affermazione di Bertinotti che contesta l’innegabile successo della
corsa di Nichi.
Dice Bertinotti: “La sinistra politica non la vedo più. E’
interamente chiusa dentro il recinto”. Con buona pace del governatore
pugliese. Dopo aver rinnegato la non violenza, su cui aveva costruito la
più felice stagione di Rifondazione, l’ex leader seppellisce anche le
speranze di chi è venuto dopo di lui e ha raccolto, più di lui, consensi
e prestigio. Il tema sollevato da Bertinotti è antico. Da quando esiste
il movimento operaio c’è sempre una parte più radicale, un tempo si
sarebbe detto più rivoluzionaria, che accusa l’altra, generalmente con
più seguito di massa, di essere ammalata di ministerialismo e di perdere
di vista il profilo di classe dello scontro. Questa volta il giudizio è
ancora più duro e doloroso per chi milita nella sinistra radicale.
Bertinotti boccia Sel, e ovviamente il Pd, e ritiene che vadano
distrutte tutte le attuali organizzazioni politiche per affidarsi alla
vena ricostruttrice dei movimenti e del sindacalismo irriducibile.
E’ evidente che il Pd si dibatte in una continuo dilemma se essere un
partito di sinistra che accoglie a pieno titolo anche i riformisti
moderati o se diventare un partito moderato che tollera un’ala di
sinistra. E’ evidente che Sel ha le caratteristiche di un partito
transitorio in attesa di un big bang nell’intera area che permetta la
nascita di un nuovo soggetto di sinistra. Bertinotti chiude tuttavia le
porte alle possibili evoluzioni delle due formazioni e le boccia
entrambe in modo definitivo consegnando le loro leadership alla critica
dei movimenti. Se per Bersani la presa di posizione di Bertinotti è del
tutto irrilevante, per Vendola è un colpo al cuore, ancora più doloroso
perché viene nel momento in cui Nichi è riuscito a tirar fuori dal cono
d’ombra quell’area politica che era stata emarginata proprio nel fulgore
della stagione bertinottiana.
C’è, nel mondo dell’ex Rifondazione, chi spiega tutto questo anche
con la difficile presa d’atto da parte di Bertinotti del successo di chi
ha raggiunto traguardi che lui ha fallito. Ma non sarà la psicologia a
spiegare la nuova rottura a sinistra. La politica ci dice infatti che di
fronte alla più grave crisi dell’assetto economico e del potere c’è una
sinistra che accetta la sfida di governarla, è il caso di Vendola, e
chi si sottrae inseguendo antichi sogni rivoluzionari. Si può pensare
quel che si vuole di Vendola ma è evidente il suo sforzo di far
diventare riformista la sinistra radicale e di attrarre la parte
maggioritaria della sinistra classica nello schema dell’alternativa di
sinistra per sottrarla all’abbraccio con i neo-dc e i moderati.
Bertinotti invece dice che non c’è nulla da fare, che Vendola è un
illuso, e forse peggio visto che si è fatto chiudere nel recinto, e che
la nuova leadership sarà sindacale, di movimento, insomma tutto meno il
governatore pugliese. Il bello di questa stagione politica è che stanno
venendo meno alcune finzioni del passato, quella cioè che i riformisti
possono stare assieme indipendentemente dai contenuti e che i radicali
sono tutti uguali. Invece sembra profilarsi il tempo in cui i
socialdemocratici si possono riunire, con tutta la gamma delle
differenze al loro interno, i moderati possano andare là dove li porta
il cuore e i rivoluzionari abbaiare alla luna. Insomma meglio Nichi di
Fausto.
sabato 26 novembre 2011
I DEVASTATI DEL PATTO DI VASTO
Ve
li ricordati quelli del patto di Vasto? Bersani, Di pietro e Vendola e
il nuovo Ulivo? A quanto pare chi ne esce con le ossa rotte dalla
vicenda Monti sono proprio i tre che volevano costruire l'alternativa di
governo e che molto probabilmente dovranno adesso bersi una stagione di
rigore imposta da Mario Monti.
Bersani, il segretario ombra è andato 'sotto' in direzione nazionale,
visto che l'asse di Veltroni, di quelli dell'ex DC e di D'alema ha
seguito il verbo del vero segretario del PD, il Presidente Giorgio
Napolitano, appoggiando Monti e il golpe bianco. Fassina, l'unico
socialdemocratico rimasto, ha rischiato addirittura il linciaggio
dall'area liberal per aver osato dire quello che tutti pensano sul
commissario europeo Rhen, ovvero che le sue politiche sono recessive.
Bersani è quindi caduto nel passaggio più difficile, dove poteva dare
una sterzata al Paese andando al voto anticipato ed invece si è trovato a
governare con Berlusconi, e con gli ex DC al comando. D'Alema, sempre
lui, pare averlo tradito, o almeno non appoggiato nelle pressioni per
andare subito al voto. Veltroni, sempre lui, ora è felice della nuova
linea politica del PD. E quando è felice Veltroni perchè vince la sua
linea politica c'è di che preoccuparsi seriamente. Berlusconi infatti
medita vendetta, e la crisi non lascia spazio a politiche espansive. Un
disastro.
Di Pietro, il buon 'tonino', ha provato in una prima fase a fare il
solito teatro. Vota il six pack in Europa alcuni mesi fa e annuncia che
non voterà la fiducia a Monti che ne è l'interprete. La solita parte in
commedia che però stavolta non funziona. Viene massacrato sul web con
l'aiuto del Fatto quotidiano e Repubblica.it che “organizzano” la
rivolta dei propri iscritti. I gruppi in parlamento lo costringono ad
accettare Monti senza che questo nemmeno lo prenda in considerazione.
Ora è tra l'incudine ed il martello, voterà tutto quello che gli
imporranno e non potrà opporsi. Egli è vittima dell'antiberlusconismo
senza contenuti che egli stesso ha alimentato per anni.
Vendola. Era in Cina mentre avveniva il golpe bianco. Da laggiù gli
echi di quanto avveniva gli saranno rimbombati in testa come bombe
carta. Ha provato e riprovato a aprire e chiudere a Monti, in strofe,
con narrazioni e geniali salti di retorica. Niente, stavolta bisogna
parlare di politica e la rima non riesce. Così Niki finisce come l'asino
di Buridano, ne di qua ne di là, in attesa perenne, come Penelope con
la sua tela. In poche ore gli si è smaterializzato davanti il sogno
delle primarie e le ombre che danzavano nel governo Monti gli hanno
fatto poi intendere che non ci sarà ne equità ma solo massacro sociale.
Vendola sa che se rompe con Monti il Pd non lo prenderà nel proprio
recinto ed il partito di repubblica.it, Santoro, Floris, e compagnia
cantante potrebbe rovinargli l'immagine. Un dramma umano il suo oltre
che politico.
Non c'è altro da aggiungere, questa stagione è finita. Voltiamo pagina.
Controlacrisi.org
giovedì 24 novembre 2011
Vendola DeVastato
Il Presidente... operaio |
di MdS*
Nichi
Vendola non ha ancora elaborato il lutto: le primarie sono
prematuramente scomparse, la foto di Vasto è ormai nel cestino e -
peggio! - d'ora in avanti le cose serie prevarranno sulle «narrazioni»
Dal governo Monti, le persone normali si aspettano tante legnate. Lui no, lui si aspetta una «musica». Nel governo Monti le persone normali vedono un blocco di potere, dei precisi interessi. Lui no, lui vede solo «qualche ombra che danza».
Dal governo Monti, le persone normali si aspettano tante legnate. Lui no, lui si aspetta una «musica». Nel governo Monti le persone normali vedono un blocco di potere, dei precisi interessi. Lui no, lui vede solo «qualche ombra che danza».
Intervistato
da Fabio Fazio, Vendola ha provato a barcamenarsi. Esercizio duro anche
per il contorsionista di Bari. In un colpo solo gli hanno sottratto il
giocattolo con cui si gingilla da due anni, le primarie, e l'alleanza
che avrebbe dovuto indirle. Peggio: appena rientrato dalla Cina si è
reso conto che il clima è cambiato. In fondo il buffone di Arcore
lasciava spazio alle «narrazioni», mentre l'uomo dell'Europa non lascia
scampo.
Stai a vedere che Vendola sarà costretto ad occuparsi di cose serie! Questa sì, sarebbe una notizia. Ma non ci vuole fretta, e l'intervista è lì a ricordarcelo. Per il governatore pugliese, c'è bisogno «di iniziare la musica di questo governo cominciando dallo spartito della patrimoniale». Ecco qui la demagogia fatta persona. Forse che Vendola non sa quali interessi rappresenta Monti? Forse non sa che «patrimoniale» può significare tante cose, anche solo il ripristino dell'Ici sulla prima casa?
In tempi appena un po' più seri si sarebbe analizzata la natura di classe del nuovo governo. Oggi no, oggi si guardano le facce, la «sobrietà». Il governo dell'UE, della Bce, della Goldman Sachs, della Trilateral e del Bilderberg ci viene presentato come il governo dei «migliori», che daranno il meglio di se per salvare l'Italia. Può il «narratore» abbassarsi a constatare simili contraddizioni? Ovviamente no. Ed allora deve far finta che la partita sia aperta. Chiede una patrimoniale che sa benissimo non potrà esservi, ma - soprattutto - per cosa la chiede, per invertire la rotta o per garantire i vampiri della finanza internazionale?
La «seconda che hai detto», ovviamente. Indorando i sacrifici con la paroletta «equità», che vedremo appiccicata alle labbra di Monti quando presenterà il conto alle classi popolari.
Sulla nascita del nuovo governo, e dunque sul rinvio delle ipotizzate elezioni, queste le parole di Vendola: «Io non sono insensibile agli appelli autorevoli del Capo dello Stato che in questa notte della Repubblica ha rappresentato un faro». Naturalmente, questa dichiarazione «politicamente corretta», deve essere tradotta in questo modo: «Mi girano tremendamente le scatole di essere stato fregato, ma starò al gioco, non perché mi importi qualcosa del futuro degli italiani, ma perché è l'unico modo per restare agganciati al carro vincente».
E qui arriviamo alla perla dell'intervista: «Io sono alleato con Pd e Idv, l'alleanza di Vasto, e quando i miei alleati, anche sulla base del richiamo del Quirinale, mi dicono che c'è bisogno di una fase di governo di emergenza, io dico va bene». Ma nell'esecutivo guidato da Mario Monti «c'è qualche ombra che danza».
Dunque: il governo di emergenza va bene, se poi lo chiedono gli alleati va benissimo. C'è, però, qualche ombra, ma guarda un po'!
Le persone normali forse non vedono le ombre, ma certo sanno scorgere i macigni. E sanno riconoscere i segni distintivi del dominio di classe. Quelli che è sconveniente «narrare». Altrimenti bisognerebbe parlare dei banchieri ai posti di comando, di un ammiraglio al ministero della difesa, dell'ambasciatore a Washington promosso ministro degli esteri, di un prefetto al Viminale, di un frequentatore di cda all'istruzione, e si potrebbe continuare.
Meglio non parlarne e limitarsi alle «ombre». Quella che inquieta Vendola si chiama Corrado Passera. Un'ombra, non perché espressione del mondo della finanza, piuttosto perché si dice che sarà il candidato di centrosinistra e terzo polo alle elezioni politiche. Elezioni al momento non proprio imminenti, con in mezzo sacrifici enormi per le classi popolari e forse il tracollo dell'euro. Dettagli per l'erede di Bertinotti. Convinto, come Monti, di poter essere lui il «salvatore della patria», non ha ancora deciso di rimettere i piedi per terra.
Ce li rimetterà? Non è detto. A volte quelli come lui atterranno più bruscamente. Quel che è certo è che non lo sentiremo mai esprimere una posizione chiara su euro, debito, Unione Europea, sovranità nazionale.
Poco male: delle sue prese di posizione faremo volentieri a meno, per non parlare delle sue «narrazioni». La foto di Vasto è ormai nel cestino, ed il Nostro appare assai deVastato. Forse, per resuscitare il quadretto si rivolgerà alla Madonna di Sovereto, patrona di Terlizzi, alla quale, secondo Wikipedia, egli è devoto. Auguri.
Stai a vedere che Vendola sarà costretto ad occuparsi di cose serie! Questa sì, sarebbe una notizia. Ma non ci vuole fretta, e l'intervista è lì a ricordarcelo. Per il governatore pugliese, c'è bisogno «di iniziare la musica di questo governo cominciando dallo spartito della patrimoniale». Ecco qui la demagogia fatta persona. Forse che Vendola non sa quali interessi rappresenta Monti? Forse non sa che «patrimoniale» può significare tante cose, anche solo il ripristino dell'Ici sulla prima casa?
In tempi appena un po' più seri si sarebbe analizzata la natura di classe del nuovo governo. Oggi no, oggi si guardano le facce, la «sobrietà». Il governo dell'UE, della Bce, della Goldman Sachs, della Trilateral e del Bilderberg ci viene presentato come il governo dei «migliori», che daranno il meglio di se per salvare l'Italia. Può il «narratore» abbassarsi a constatare simili contraddizioni? Ovviamente no. Ed allora deve far finta che la partita sia aperta. Chiede una patrimoniale che sa benissimo non potrà esservi, ma - soprattutto - per cosa la chiede, per invertire la rotta o per garantire i vampiri della finanza internazionale?
La «seconda che hai detto», ovviamente. Indorando i sacrifici con la paroletta «equità», che vedremo appiccicata alle labbra di Monti quando presenterà il conto alle classi popolari.
Sulla nascita del nuovo governo, e dunque sul rinvio delle ipotizzate elezioni, queste le parole di Vendola: «Io non sono insensibile agli appelli autorevoli del Capo dello Stato che in questa notte della Repubblica ha rappresentato un faro». Naturalmente, questa dichiarazione «politicamente corretta», deve essere tradotta in questo modo: «Mi girano tremendamente le scatole di essere stato fregato, ma starò al gioco, non perché mi importi qualcosa del futuro degli italiani, ma perché è l'unico modo per restare agganciati al carro vincente».
E qui arriviamo alla perla dell'intervista: «Io sono alleato con Pd e Idv, l'alleanza di Vasto, e quando i miei alleati, anche sulla base del richiamo del Quirinale, mi dicono che c'è bisogno di una fase di governo di emergenza, io dico va bene». Ma nell'esecutivo guidato da Mario Monti «c'è qualche ombra che danza».
Dunque: il governo di emergenza va bene, se poi lo chiedono gli alleati va benissimo. C'è, però, qualche ombra, ma guarda un po'!
Le persone normali forse non vedono le ombre, ma certo sanno scorgere i macigni. E sanno riconoscere i segni distintivi del dominio di classe. Quelli che è sconveniente «narrare». Altrimenti bisognerebbe parlare dei banchieri ai posti di comando, di un ammiraglio al ministero della difesa, dell'ambasciatore a Washington promosso ministro degli esteri, di un prefetto al Viminale, di un frequentatore di cda all'istruzione, e si potrebbe continuare.
Meglio non parlarne e limitarsi alle «ombre». Quella che inquieta Vendola si chiama Corrado Passera. Un'ombra, non perché espressione del mondo della finanza, piuttosto perché si dice che sarà il candidato di centrosinistra e terzo polo alle elezioni politiche. Elezioni al momento non proprio imminenti, con in mezzo sacrifici enormi per le classi popolari e forse il tracollo dell'euro. Dettagli per l'erede di Bertinotti. Convinto, come Monti, di poter essere lui il «salvatore della patria», non ha ancora deciso di rimettere i piedi per terra.
Ce li rimetterà? Non è detto. A volte quelli come lui atterranno più bruscamente. Quel che è certo è che non lo sentiremo mai esprimere una posizione chiara su euro, debito, Unione Europea, sovranità nazionale.
Poco male: delle sue prese di posizione faremo volentieri a meno, per non parlare delle sue «narrazioni». La foto di Vasto è ormai nel cestino, ed il Nostro appare assai deVastato. Forse, per resuscitare il quadretto si rivolgerà alla Madonna di Sovereto, patrona di Terlizzi, alla quale, secondo Wikipedia, egli è devoto. Auguri.
* Fonte: Campo Antimperialista
mercoledì 23 novembre 2011
La lezione spagnola di IU
È
impossibile capire il risultato delle elezioni spagnole sulla base
delle semplificazioni che i mass media italiani hanno usato per
descriverlo. Meglio soffermarsi, anche se sommariamente, sui dati reali.
Il Partito Popolare passa da 10 milioni 300 mila voti a 10 milioni 800 mila voti (dal 39,94 al 44,62 %) e da 154 a 186 seggi, ottenendo la maggioranza assoluta del Congresso.
Il Psoe da 11 milioni 300 mila voti precipita a 7 milioni di voti (dal 43,87 % al 28,73 %) e da 169 seggi a 110.
Izquierda Unida da 970 mila voti a 1 milione 700 mila voti (dal 3,77 % al 6,93 %) e da 2 a 11 seggi.
L’astensione cresce più di due punti e si attesta con le bianche e le nulle al 31 %.
Vale la pena di segnalare l’ottima affermazione del quarto partito che si è presentato in tutti i collegi dello stato spagnolo: l’Unione di Progresso e Democrazia (considerato in Spagna simile ai radicali italiani) che si attesta sul 4,69 % (aveva l’1,19) avendo quadruplicato i voti (da 300 mila a 1 milione 100 mila) e quintuplicato i seggi (da 1 a 5). Tengono o crescono tutti i partiti indipendentisti e nazionalisti catalani e baschi, sia di destra sia di sinistra. In particolare la coalizione della sinistra indipendentista Amaiur nei Paesi Baschi ottiene 333 mila voti, pari al 24 % (1,37 % in ambito statale) e 7 seggi.
Fallisce il progetto del partito verde Equo che, avendo rifiutato di coalizzarsi con Izquierda Unida, insieme ad altre tre liste minori di estrema sinistra disperde circa trecentomila voti.
Come si vede non è il Pp ad aver vinto le elezioni, sebbene abbia mobilitato tutti i propri elettori, al contrario del Psoe che con tutta evidenza li ha persi, nell’ordine, verso l’astensione, Izquierda Unida, Up y d, e verso diverse formazioni indipendentiste e locali. È il Psoe ad aver perso in modo clamoroso, con il peggior risultato della sua storia. A nulla è valso aver condotto una campagna elettorale molto di sinistra, soprattutto volta a denunciare le vere intenzioni del Pp circa i tagli ai servizi sociali e le privatizzazioni. Il Pp ha avuto buon gioco ad occultarle abilmente ricordando, per tutta la campagna elettorale, i tagli alle pensioni, ai servizi sociali e gli enormi favori alle banche e agli speculatori edilizi operati dal governo Zapatero. Del resto Psoe e Pp pochi mesi fa avevano insieme riformato la costituzione per introdurre il principio liberista del pareggio di bilancio, ed avevano insieme impedito in parlamento che gli oppositori potessero ottenere la convocazione di un referendum popolare sulla modifica costituzionale. Naturalmente è più che prevedibile che il Pp dal governo fornisca una versione più estremista e più ingiusta socialmente della politica economica neoliberista del Psoe, e che metta in discussione le poche buone cose prodotte dal Psoe sui diritti civili. La folla che festeggiava la vittoria del Pp la sera dello scrutinio, non per caso inalberava striscioni contro la legge sull’aborto e sui matrimoni gay.
Il risultato di Izquierda Unida è un grandissimo successo, soprattutto se si pensa all’effetto sulle scelte degli elettori del sistema elettorale spagnolo. Infatti, non essendoci un collegio unico nazionale per ripartire i seggi proporzionalmente, succede che nella stragrande maggioranza dei collegi locali gli elettori siano indotti a votare per i due partiti maggiori o per il partito locale più forte. Per il semplice motivo che sanno in partenza che Izquierda Unida non ha nessuna possibilità di raggiungere il quoziente pieno che è quasi sempre superiore al 10 % e spesso al 20 %. Un deputato di Izquierda Unida vale più di 150 mila voti, 230 mila uno di UP y D, 63 mila uno del Psoe, 58 mila uno del Pp, 48 mila uno di Amaiur.
Izquierda Unida si è riscattata da una lunga crisi dovuta a divisioni interne laceranti e a una direzione che aveva adottato una troppo morbida linea di opposizione alla prima legislatura del governo Zapatero. Negli ultimi tre anni, senza produrre scissioni e senza paralizzarsi in lotte intestine, ha saputo rilanciarsi come movimento politico sociale unitario ed ha riconquistato la credibilità di sempre nelle lotte operaie e sociali. A questa rinascita ha dato un contributo fondamentale il Partito comunista, che è e resta la forza largamente maggioritaria in Izquierda Unida, che comunque ultimamente si è notevolmente allargata nella sua composizione e che, bisogna ricordarlo, funziona sulla base del principio una testa un voto, senza alcuna spartizione interna fra i partiti nazionali o locali che la compongono.
Nei paesi del Sud Europa sotto attacco speculativo si combatterà, nei prossimi mesi ed anni, una battaglia decisiva contro la dittatura del mercato e per la democrazia. La Spagna ci dice che la sinistra quando sa essere coerente con i contenuti anticapitalisti, unita nel rispetto di tutte le identità e autonoma dai liberalsocialisti, può tornare a contare oggi per vincere domani.
Il Partito Popolare passa da 10 milioni 300 mila voti a 10 milioni 800 mila voti (dal 39,94 al 44,62 %) e da 154 a 186 seggi, ottenendo la maggioranza assoluta del Congresso.
Il Psoe da 11 milioni 300 mila voti precipita a 7 milioni di voti (dal 43,87 % al 28,73 %) e da 169 seggi a 110.
Izquierda Unida da 970 mila voti a 1 milione 700 mila voti (dal 3,77 % al 6,93 %) e da 2 a 11 seggi.
L’astensione cresce più di due punti e si attesta con le bianche e le nulle al 31 %.
Vale la pena di segnalare l’ottima affermazione del quarto partito che si è presentato in tutti i collegi dello stato spagnolo: l’Unione di Progresso e Democrazia (considerato in Spagna simile ai radicali italiani) che si attesta sul 4,69 % (aveva l’1,19) avendo quadruplicato i voti (da 300 mila a 1 milione 100 mila) e quintuplicato i seggi (da 1 a 5). Tengono o crescono tutti i partiti indipendentisti e nazionalisti catalani e baschi, sia di destra sia di sinistra. In particolare la coalizione della sinistra indipendentista Amaiur nei Paesi Baschi ottiene 333 mila voti, pari al 24 % (1,37 % in ambito statale) e 7 seggi.
Fallisce il progetto del partito verde Equo che, avendo rifiutato di coalizzarsi con Izquierda Unida, insieme ad altre tre liste minori di estrema sinistra disperde circa trecentomila voti.
Come si vede non è il Pp ad aver vinto le elezioni, sebbene abbia mobilitato tutti i propri elettori, al contrario del Psoe che con tutta evidenza li ha persi, nell’ordine, verso l’astensione, Izquierda Unida, Up y d, e verso diverse formazioni indipendentiste e locali. È il Psoe ad aver perso in modo clamoroso, con il peggior risultato della sua storia. A nulla è valso aver condotto una campagna elettorale molto di sinistra, soprattutto volta a denunciare le vere intenzioni del Pp circa i tagli ai servizi sociali e le privatizzazioni. Il Pp ha avuto buon gioco ad occultarle abilmente ricordando, per tutta la campagna elettorale, i tagli alle pensioni, ai servizi sociali e gli enormi favori alle banche e agli speculatori edilizi operati dal governo Zapatero. Del resto Psoe e Pp pochi mesi fa avevano insieme riformato la costituzione per introdurre il principio liberista del pareggio di bilancio, ed avevano insieme impedito in parlamento che gli oppositori potessero ottenere la convocazione di un referendum popolare sulla modifica costituzionale. Naturalmente è più che prevedibile che il Pp dal governo fornisca una versione più estremista e più ingiusta socialmente della politica economica neoliberista del Psoe, e che metta in discussione le poche buone cose prodotte dal Psoe sui diritti civili. La folla che festeggiava la vittoria del Pp la sera dello scrutinio, non per caso inalberava striscioni contro la legge sull’aborto e sui matrimoni gay.
Il risultato di Izquierda Unida è un grandissimo successo, soprattutto se si pensa all’effetto sulle scelte degli elettori del sistema elettorale spagnolo. Infatti, non essendoci un collegio unico nazionale per ripartire i seggi proporzionalmente, succede che nella stragrande maggioranza dei collegi locali gli elettori siano indotti a votare per i due partiti maggiori o per il partito locale più forte. Per il semplice motivo che sanno in partenza che Izquierda Unida non ha nessuna possibilità di raggiungere il quoziente pieno che è quasi sempre superiore al 10 % e spesso al 20 %. Un deputato di Izquierda Unida vale più di 150 mila voti, 230 mila uno di UP y D, 63 mila uno del Psoe, 58 mila uno del Pp, 48 mila uno di Amaiur.
Izquierda Unida si è riscattata da una lunga crisi dovuta a divisioni interne laceranti e a una direzione che aveva adottato una troppo morbida linea di opposizione alla prima legislatura del governo Zapatero. Negli ultimi tre anni, senza produrre scissioni e senza paralizzarsi in lotte intestine, ha saputo rilanciarsi come movimento politico sociale unitario ed ha riconquistato la credibilità di sempre nelle lotte operaie e sociali. A questa rinascita ha dato un contributo fondamentale il Partito comunista, che è e resta la forza largamente maggioritaria in Izquierda Unida, che comunque ultimamente si è notevolmente allargata nella sua composizione e che, bisogna ricordarlo, funziona sulla base del principio una testa un voto, senza alcuna spartizione interna fra i partiti nazionali o locali che la compongono.
Nei paesi del Sud Europa sotto attacco speculativo si combatterà, nei prossimi mesi ed anni, una battaglia decisiva contro la dittatura del mercato e per la democrazia. La Spagna ci dice che la sinistra quando sa essere coerente con i contenuti anticapitalisti, unita nel rispetto di tutte le identità e autonoma dai liberalsocialisti, può tornare a contare oggi per vincere domani.
Ramon Mantovani - Liberazione
lunedì 21 novembre 2011
No alla postdemocrazia di Giorgio Cremaschi
Dopo il postmoderno ed il postfordismo, è il momento
della postdemocrazia.
Tanti intellettuali di sinistra hanno accettato lo
stato di necessità alla base della costituzione del governo Monti.
Tutte le munizioni della critica si sono esaurite nella lotta contro
Berlusconi?
Mi è capitato di partecipare a uno di quei talk show televisivi ove
la confusione è programmata per fare audience. Lì ho sentito Massimo
Cacciari affermare con fastidio che, di fronte al fallimento della
democrazia degli stati, è persino ovvio accettare le necessità imposte
dall'economia globale. Tale terribile affermazione è scivolata via e
questo mi ha convinto che, dopo il postmoderno ed il postfordismo, è il
momento della postdemocrazia. Tanti intellettuali di sinistra hanno così
accettato lo stato di necessità alla base della costituzione del
governo Monti. Tutte le munizioni della critica si sono esaurite nella
lotta contro Berlusconi? (...)
La devastazione sociale e culturale di questi 20 anni è stata
terribile, così come lo è stato il logoramento della democrazia, ridotta
sempre più al pronunciamento popolare su un capo a cui affidare tutto.
Mentre azienda e politica, mercato e potere si intrecciavano sempre di
più. Berlusconi, che oggi lamenta una democrazia sospesa, è vittima dei
meccanismi che ha costruito: il degrado del paese alla fine si è
concentrato sulla figura del suo capo.
Pochi mesi fa Alberto Asor Rosa auspicò una deposizione dall'alto di Berlusconi. E questa alla fine c'è stata per opera di quella superiore autorità che è oggi il mercato finanziario internazionale. Non illudiamoci, non siamo stati noi che abbiamo tanto lottato alla fine a far cadere il governo, ma lo spread. Come è toccato alla Grecia, anche l'Italia è stata commissariata. Il ruolo del Presidente della Repubblica, la pacificazione nazionale vengono dopo questa presa di potere da parte mercati internazionali.
I partiti si erano già arresi da tempo. Lo si era capito già un anno e mezzo fa quando Sergio Marchionne impose agli operai di Pomigliano di rinunciare a tutti i diritti pur di lavorare. Marchionne, come Monti, si è presentato in veste austera e con la fama di borghese illuminato, e ha imposto le scelte più feroci come stato di necessità di fronte alla globalizzazione. E il 95% del Parlamento lo ha sostenuto.
Pochi mesi fa Alberto Asor Rosa auspicò una deposizione dall'alto di Berlusconi. E questa alla fine c'è stata per opera di quella superiore autorità che è oggi il mercato finanziario internazionale. Non illudiamoci, non siamo stati noi che abbiamo tanto lottato alla fine a far cadere il governo, ma lo spread. Come è toccato alla Grecia, anche l'Italia è stata commissariata. Il ruolo del Presidente della Repubblica, la pacificazione nazionale vengono dopo questa presa di potere da parte mercati internazionali.
I partiti si erano già arresi da tempo. Lo si era capito già un anno e mezzo fa quando Sergio Marchionne impose agli operai di Pomigliano di rinunciare a tutti i diritti pur di lavorare. Marchionne, come Monti, si è presentato in veste austera e con la fama di borghese illuminato, e ha imposto le scelte più feroci come stato di necessità di fronte alla globalizzazione. E il 95% del Parlamento lo ha sostenuto.
Allora Marco Revelli si scagliò con passione e intelligenza contro la
FIAT e chi l'appoggiava. Oggi si schiera a favore dell'inevitabile
necessità del governo Monti, che pure Marchionne ha sostenuto e difeso.
Certo il governo non è un amministratore delegato, anche se questo
governo tecnico è ciò che ci somiglia di più. Il punto è che il
programma di questo governo è esattamente la lettera della BCE, che a
sua volta è il programma unificato che viene imposto a tutti i governi
europei dal capitalismo internazionale.
Si sono utilizzati molti paragoni storici in questi giorni. Per me
l'unico davvero calzante è quello con il 1914, quando l'Europa e la
sinistra si suicidarono per fare la guerra. Oggi la guerra è la
schiavitù del debito, che impone lo stesso stato di necessità, lo stesso
appello all'unità di patria, la stessa ricerca di un consenso unanime.
Se guardiamo in questi giorni il telegiornale a reti unificate che viene
trasmesso dalle principali reti italiane, sembra già di essere in una
informazione di guerra.
Basta la caduta di Berlusconi a far accettare tutto questo? Per me no. Il governo Monti, con intellettuali di valore, è espressione diretta di quella ideologia neoliberale che ha guidato la politica economica degli ultimi trent'anni. La crisi economica attuale, la crisi della globalizzazione sono proprio il frutto di quelle politiche, eppure il programma economico e sociale del governo propone un rilancio di esse, giustificato da dichiarazioni di equità e da qualche taglio alla casta politica.
Il programma del governo Monti è un classico programma di destra economica liberale e per questo fallirà. Non eviterà il massacro sociale per la semplice ragione che il massacro è già in atto e le politiche liberali non lo fermeranno, quando non lo agevoleranno. E' il sistema che e' andato in crisi e non lo si salva certo con l' unita' nazionale attorno alle politiche di sempre. La guerra del debito va fermata e non invece combattuta fino al disastro. Occorre una radicale svolta nelle politiche economiche in italia e in europa,a favore del pubblico del sociale, ci vuole una drastica redistribuzione della ricchezza, altro che equità dei sacrifici per rassicurare i mercati.
Il governo Monti fallirà nel suo obiettivo di fondo, rilanciare la crescita, e la crisi si aggraverà . A quel punto cosa succederà della nostra democrazia già posta sotto il vincolo della necessità?
Michele Salvati sul Corriere della Sera paragona Monti a un dictator romano, ma afferma che il suo compito è più difficile perché camera e senato dovranno approvare ogni sua iniziativa... Quali poteri speciali verranno reclamati allora per il governo, se le cose dovessero peggiorare e se la logica politica resterà la stessa? Dove ci fermeremo se ci fermeremo?
Basta la caduta di Berlusconi a far accettare tutto questo? Per me no. Il governo Monti, con intellettuali di valore, è espressione diretta di quella ideologia neoliberale che ha guidato la politica economica degli ultimi trent'anni. La crisi economica attuale, la crisi della globalizzazione sono proprio il frutto di quelle politiche, eppure il programma economico e sociale del governo propone un rilancio di esse, giustificato da dichiarazioni di equità e da qualche taglio alla casta politica.
Il programma del governo Monti è un classico programma di destra economica liberale e per questo fallirà. Non eviterà il massacro sociale per la semplice ragione che il massacro è già in atto e le politiche liberali non lo fermeranno, quando non lo agevoleranno. E' il sistema che e' andato in crisi e non lo si salva certo con l' unita' nazionale attorno alle politiche di sempre. La guerra del debito va fermata e non invece combattuta fino al disastro. Occorre una radicale svolta nelle politiche economiche in italia e in europa,a favore del pubblico del sociale, ci vuole una drastica redistribuzione della ricchezza, altro che equità dei sacrifici per rassicurare i mercati.
Il governo Monti fallirà nel suo obiettivo di fondo, rilanciare la crescita, e la crisi si aggraverà . A quel punto cosa succederà della nostra democrazia già posta sotto il vincolo della necessità?
Michele Salvati sul Corriere della Sera paragona Monti a un dictator romano, ma afferma che il suo compito è più difficile perché camera e senato dovranno approvare ogni sua iniziativa... Quali poteri speciali verranno reclamati allora per il governo, se le cose dovessero peggiorare e se la logica politica resterà la stessa? Dove ci fermeremo se ci fermeremo?
Il capitalismo occidentale sta divorziando dalla democrazia, se si
vuole salvare la seconda bisogna mettere in discussione il primo.
Superato Berlusconi resta in piedi tutto il meccanismo ideologico e di
potere che l'ha portato al governo in questi anni.
Credo che questo sottovalutino alcuni amici intellettuali
profondamente impegnati. Io penso essi non abbiano colto la dimensione
della crisi e anche quella delle forze in campo. Essi sperano che il
governo Monti ci dia una tregua nella quale riorganizzare le forze per
una alternativa reale al berlusconismo. Ma si sbagliano, la tregua non
ci sarà, ci sarà invece l'attacco all'articolo 18 e alle pensioni, ai
bene comuni e alla scuola pubblica e non perché i nuovi governanti siano
cattivi o prepotenti, ma perché questo e' il loro mandato. No questa
tregua non ci sarà e per difendere la democrazia e cambiare davvero si
dovrà partire dall'opposizione a questo governo e non dal consenso,
seppure per necessità, ad esso.
da Liberazione del 20 novembre 2011
Franco Berardi Bifo: Buon lavoro a Mario Monti
Mi è molto difficile capire il generale
congratularsi per la sconfitta di Berlusconi. Se non ci fermiamo alle apparenze
e ragioniamo in termini strategici, direi che Berlusconi è il vero vincitore
della fase attuale.
- Senza avere perduto la maggioranza in Parlamento, il padrone di Mediaset ha passato le consegne a un banchiere della Goldman Sachs di nome Monti.
- Il governo che si è formato a tambur battente si dà come primo obiettivo la realizzazione del programma contenuto nella lettera di intenti che Berlusconi ha presentato alla Banca centrale europea poco prima di abbandonare Palazzo Chigi.
- Il nuovo Presidente del Consiglio, ancor prima di avere ottenuto la fiducia, dichiara le sue intenzioni in un articolo scritto per il Corriere della sera. In questo articolo parla di “due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili.” Le due azioni socialmente più violente e devastanti dell’era Berlusconi sono così assunte come linea direttrice del nuovo governo. I fari che illuminano la strada del nuovo governo sono dunque i tagli all’educazione e la cancellazione dei diritti di contrattazione, la riduzione dei salari e la totale sottomissione dei lavoratori industriali al padrone globalizzato.
Perché dovrei
dunque pensare che Berlusconi è stato sconfitto?
Il rancore
lungamente frustrato porta talvolta a soffrire di allucinazioni. Pur di
liberarci dalla frustrazione talvolta ci convinciamo che il nostro desiderio si
è realizzato, e qualcuno si taglia i capelli pubblicamente per ringraziare il
signore iddio (impersonato da Napolitano) per averci liberato di Berlusconi.
Molti cittadini
onesti (naturalmente lettori de La Repubblica) si sono sentiti sollevati per il
fatto che lo stile è mutato. Il nuovo governo è composto di persone competenti,
severe nel portamento e vestiti come dio comanda. Mica quella banda di cialtroni
dal turpiloquio facile che insozzavano il decoro e l’onore nazionale.
Un Ministro del
nuovo governo, il cattolico Mario Riccardi, ha sintetizzato il nuovo stile
dicendo che “dopo il Carnevale viene finalmente la Quaresima.” Contento
lui.
Forse non gli è
venuto in mente che in generale gli esseri umani preferiscono il Carnevale alla
Quaresima. Non senza buone ragioni. Perciò è facile prevedere che durante la
prossima Quaresima, fatta di tagli e privatizzazione dei servizi,
disoccupazione impoverimento e assistenza spirituale vaticana, molti
rimpiangeranno il Carnevale.
Tanto più che il
padrone di Mediaset, il suo alleato Bossi e i nazionalisti antieuropei,
liberati temporaneamente dal peso del governo, avranno il tempo, la
tranquillità e i mezzi per far montare un’ondata populista di proporzioni
colossali che preparerà le prossime elezioni se non tracimerà ancor prima della
fine della legislatura.
E’ questa la
sconfitta di Berlusconi?
Nel frattempo si
insedia un governo che promette di andare di corsa. Poniamo che, dalla città di
Bologna, io prenda l’auto per raggiungere degli amici che mi aspettano a Roma.
Mi precipito sull’autostrada del Sole e dopo mezz’ora mi trovo a Modena. Che
devo fare a questo punto? Premere il piede sull’acceleratore per raggiungere al
più presto la mia meta, oppure uscire al primo svincolo e invertire la marcia
dato che sono sulla strada sbagliata?
Se l’obiettivo è
quello di uscire dalla crisi ridurre il debito ed evitare la recessione, è
chiaro che le misure indicate dal governo Monti vanno nella direzione
sbagliata. Vanno nella direzione che la Banca centrale europea ha imposto alla Grecia
nell’aprile del 2010 coi risultati che sappiamo. In un anno e mezzo la Grecia ha registrato un
crollo del 7% del prodotto nazionale, e si ritrova una massa di disoccupati e
di poveri, e un debito inevitabilmente in salita.
D’altra parte
coloro che governano l’economia e adesso si impadroniscono anche delle leve
politiche nazionali sono banchieri e consulenti delle grandi agenzie
finanziarie. Cioè sono quelli che hanno provocato la situazione catastrofica in
cui si trova l’Unione europea. La classe finanziaria europea ha perseguito una
politica monetarista e ha rastrellato risorse sociali per operazioni
speculative che hanno arricchito enormemente l’1% e impoverito la larga
maggioranza della popolazione. Costoro non hanno affatto cambiato metodo di
lavoro, anzi ribadiscono la loro filosofia di tagli, privatizzazioni e
spostamento delle risorse pubbliche verso il sistema bancario.
Einstein disse
una volta che pazzi sono coloro che ripetono sempre la stessa azione, anche di
fronte ad evidenti fallimenti e catastrofi. Nonostante la sua cultura economica
(anzi proprio per quella) Mario Monti è pazzo. Siamo nelle mani di un pazzo
dogmatico incapace di ammettere che la terra gira intorno al sole e non
viceversa, perché sui suoi libri c’era scritto che il nemico principale è
l’inflazione, che la riduzione dei salari aiuta la crescita, e che la crescita
infinita è l’alfa e l’omega.
Ma in realtà
Mario Monti non è affatto pazzo. Serve gli interessi della sua azienda, che è la Goldman Sachs, e
della classe finanziaria europea. Pazzi siamo noi che crediamo che con lui le
cose andranno meglio.
Tanto più che
dietro l’angolo c’è il mammasantissima con il suo esercito di Minzolini e
Scilipoti, pronto a vincere le prossime elezioni come difensore del popolo
tartassato dalla demoplutocrazia tecnocratica.
Buon lavoro.
Fiat straccia tutti i contratti nazionali
Fiat Group Automobiles ha disdetto, dal primo gennaio
2012, tutti gli accordi sindacali vigenti e «ogni altro impegno
derivante da prassi collettive in atto» in tutti gli stabilimenti
automobilistici italiani.
Il testo completo della lettera. «In vista di un riassetto e di una
armonizzazione delle discipline contrattuali collettive aziendali e
territoriali che si sono succedute nel tempo e nell'ottica di renderle
coerenti e compatibili con condizioni di competitività ed efficienza vi
comunichiamo il recesso a far data dal 1 gennaio 2012 da tutti i
contratti applicati nel gruppo Fiat e da tutti gli altri contratti e
accordi collettivi aziendali e territoriali vigenti, compresi quelli che
comprendono una clausola di rinnovo alla scadenza - per i quali la
presente vale anche come espressa disdetta - nonchè da ogni altro
impegno derivante da prassi collettive in atto». «Al riguardo riportiamo
a titolo esemplificativo ma non esaustivo, in calce alla presente, gli
estremi delle principali intese sopra citate. Saranno promossi incontri
finalizzati a valutare le conseguenze del recesso ed eventualmente alla
predisposizione di nuove intese collettive aventi ad oggetto le
tematiche sindacali e del lavoro di rilievo aziendale con l'obiettivo di
assicurare trattamenti individuali complessivamente analoghi o
migliorativi rispetto alle precedenti normative».
In pratica, è l'annuncio della volontà di estendere il "modello
Pomigliano" dappertutto (ricordate che all'inizio doveva essere
"un'eccezione", perché in quello stabilimento c'era "troppo
assenteismo"?); l'iniziativa fa seguito all'uscita di Fiat da
Confindustria e Federmeccanica.
«Non è una sorpresa, almeno per noi operai». Lo ha detto Giovanni
Barozzino, l'ex operaio e sindacalista della Fiat di Melfi, licenziato
dall'azienda con altri due colleghi perchè falsamente accusato di aver
bloccato la produzione durante uno sciopero interno, licenziamento
contro il quale la Fiom ha fatto ricorso. A Macerata, dove si trova per
presentare il suo libro "Ci volevano con la terza media" nella facoltà
di Filosofia, invitato dal Movimento studenti, Barozzino aggiunge: «come
Fiom diciamo da troppo tempo che diritti e doveri dovrebbero andare di
pari passo, ma qualcuno arriva sempre tardi». Il nuovo Governo «prenda
atto che così non si può andare avanti, e apra un tavolo serio sulle
dinamiche del lavoro». «Chi aveva e ha la volontà di parlare di lavoro
viene definito estremista - conclude Barozzino - ma è esattamente il
contrario: estremista è chi non vuole parlare di lavoro».
Quella di Marchionne non è una decisione tecnica ma un atto politico
che ha il solo scopo di tolgiere le residue libertà ai lavoratori Fiat. È
un atto di fascismo aziendalistico». Così Giorgio Cremaschi, presidente
del Comitato centrale Fiom.
"La Fiat con un'azione eversiva si pone fuori dalla Costituzione
italiana». Lo sottolinea Paolo Ferrero, segretario nazionale di
Rifondazione comunista. «Fa bene la Fiom - dice - ad andare avanti con
le vertenze legali per ripristinare la legalità. Vogliamo sapere cosa ne
pensa il governo Monti perchè a noi risulta che chi tace acconsente. Se
continuasse questo assordante silenzio vorrebbe dire che questo non è
solo il governo dei banchieri ma anche quello della Fiat».
La Fiom nazionale ha convocato una conferenza stampa per domani, in
cui illustrerà le iniziative che intende prendere su tutti i piani; da
quello sindacale a quello legale.
domenica 20 novembre 2011
Nasce un nuovo progetto politico: la DC
Col
governo Monti si chiude probabilmente la seconda Repubblica. Così come
la prima era finita con i governi tecnici Amato e Ciampi, anche il
ventennio berlusconiano finisce sotto i colpi della scure del mercato.
Un sistema politico impaludato e sottosviluppato non riesce a
rigenerarsi senza un qualche shock esterno. Prima la fine dell’Urss e la
crisi dello Sme, ora il tracollo del capitalismo liberale ed il caos
finanziario che rischia di far scomparire l’Euro. Ma in Italia, come
nella Sicilia del Gattopardo, apparentemente, tutto cambia perché nulla
cambi davvero. D’altronde, appunto, questi cambiamenti di regime non
sono il risultato di una crisi organica, come avrebbe detto Gramsci.
Questi crolli non arrivano in momenti di avanzamento di un blocco
storico alternativo ma, anzi, durante la sua ritirata. Almeno la fine
della Dc e del Psi aveva portato a sperare in una nuova stagione
politica – ma il Pci era sparito, il sindacato firmava una resa quasi
incondizionata ed il liberismo avanzava trionfante. E nei fatti
l’emblema di questa fase è stato Berlusconi, non certo quello che in
molti sognavano quando si sperava di non morire democristiani.
Berlusconi si presentava come novello Cesare con l’intento evidente di
difendere interessi consolidati che rischiavano di scomparire dopo la
fine della guerra fredda, quel capitalismo all’amatriciana fatto di di
commesse pubbliche e corruzione di cui il Caimano era il miglior
esempio.
L’esperimento berlusconiano di modernizzazione si è rivelato però una barzelletta finita in una grottesca farsa, prolungatasi ben oltre la sua naturale scadenza, il 2006, perchè nuovamente, come nel caso mussoliniano, una borghesia troppo debole per essere egemonica si era fatta sfuggire di mano la situazione. Ora a mandare via il Biscione ci hanno pensato forze assai più vaste, quelle della speculazione. E le forze nostrane più tradizionali, la borghesia industrial-finanziaria ed il mondo cattolico si candidano con forza a tornare sulla plancia di comando, sotto la tutela europea.
La composizione del governo è inequivocabile. Passera a rappresentare la grande finanza, Gnudi l’industria, Ornaghi il mondo cattolico conservatore e Riccardi quello più progressista. Con Monti a gestire il tutto. Sembra quasi il governo del Terzo Polo (Bocchino, sfacciato ed ingenuo, se l’è pure lasciato scappare), non fosse che questo Terzo Polo è destinato a diventare il primo, riassorbendo l’elettorato in fuga dal coacervo berlusconiano proprio come Forza Italia era andata a raccattare i vecchi voti del pentapartito. Terzo Polo che si nasconde sotto le insegne del governo tecnico, contando molto sulla ventata fortissima di antipolitica che spira da diversi anni a questa parte. Ma è meglio non farsi illusioni, si tratta di un governo prettamente politico, che presenterà un programma economico forte e con un programma politico ancora più ambizioso.
L’obiettivo, in maniera lapalissiana, è il superamento dell’attuale assetto politico, a partire dalla scomposizione del Pd, una parte del quale verrà assorbita (basti pensare a Letta, Veltroni e all’astro nascente Renzi), mentre l’altra verrà marginalizzata, insieme alla sinistra extraparlamentare e l’Idv. A destra ritorneranno fuori dalle stanze del potere la Lega e le parti più impresentabili del berlusconismo. Mentre davvero non si capisce perchè il Pd si presti a questo gioco da cui non può che uscire perdente. La leadership del partito si è fatta cogliere, una volta di più, di sorpresa, con la linea dettata non tanto da Bersani, ma dal vero regista di tutta questa operazione, Giorgio Napolitano, che ha praticamente imposto a Pd e Pdl il nome di Monti e la svolta centrista.
Non illudiamoci, questo riallineamento è destinato a durare ben oltre la prossima scadenza elettorale ed oltre il gabinetto Monti. Il padronato italiano deve essere salvato (in primo luogo da se stesso e dalla sua storica incapacità), perchè ora a rischio c’è la sopravvivenza stessa dell’economia ed addirittura del paese. Addirittura dell’Europa. Alcuni (come Marchionne) hanno già abbandonato la barca, altri, che non possono fare altrettanto, si affidano ad un nuovo, ma vecchissimo progetto politico. Prima la sinistra (tutta) se ne accorge, meglio è.
L’esperimento berlusconiano di modernizzazione si è rivelato però una barzelletta finita in una grottesca farsa, prolungatasi ben oltre la sua naturale scadenza, il 2006, perchè nuovamente, come nel caso mussoliniano, una borghesia troppo debole per essere egemonica si era fatta sfuggire di mano la situazione. Ora a mandare via il Biscione ci hanno pensato forze assai più vaste, quelle della speculazione. E le forze nostrane più tradizionali, la borghesia industrial-finanziaria ed il mondo cattolico si candidano con forza a tornare sulla plancia di comando, sotto la tutela europea.
La composizione del governo è inequivocabile. Passera a rappresentare la grande finanza, Gnudi l’industria, Ornaghi il mondo cattolico conservatore e Riccardi quello più progressista. Con Monti a gestire il tutto. Sembra quasi il governo del Terzo Polo (Bocchino, sfacciato ed ingenuo, se l’è pure lasciato scappare), non fosse che questo Terzo Polo è destinato a diventare il primo, riassorbendo l’elettorato in fuga dal coacervo berlusconiano proprio come Forza Italia era andata a raccattare i vecchi voti del pentapartito. Terzo Polo che si nasconde sotto le insegne del governo tecnico, contando molto sulla ventata fortissima di antipolitica che spira da diversi anni a questa parte. Ma è meglio non farsi illusioni, si tratta di un governo prettamente politico, che presenterà un programma economico forte e con un programma politico ancora più ambizioso.
L’obiettivo, in maniera lapalissiana, è il superamento dell’attuale assetto politico, a partire dalla scomposizione del Pd, una parte del quale verrà assorbita (basti pensare a Letta, Veltroni e all’astro nascente Renzi), mentre l’altra verrà marginalizzata, insieme alla sinistra extraparlamentare e l’Idv. A destra ritorneranno fuori dalle stanze del potere la Lega e le parti più impresentabili del berlusconismo. Mentre davvero non si capisce perchè il Pd si presti a questo gioco da cui non può che uscire perdente. La leadership del partito si è fatta cogliere, una volta di più, di sorpresa, con la linea dettata non tanto da Bersani, ma dal vero regista di tutta questa operazione, Giorgio Napolitano, che ha praticamente imposto a Pd e Pdl il nome di Monti e la svolta centrista.
Non illudiamoci, questo riallineamento è destinato a durare ben oltre la prossima scadenza elettorale ed oltre il gabinetto Monti. Il padronato italiano deve essere salvato (in primo luogo da se stesso e dalla sua storica incapacità), perchè ora a rischio c’è la sopravvivenza stessa dell’economia ed addirittura del paese. Addirittura dell’Europa. Alcuni (come Marchionne) hanno già abbandonato la barca, altri, che non possono fare altrettanto, si affidano ad un nuovo, ma vecchissimo progetto politico. Prima la sinistra (tutta) se ne accorge, meglio è.
Nicola Melloni - Liberazione
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