«Non è un sondaggio sul governo, non è un referendum sul governo, non c’è nesso tra il voto per le europee e il governo, non cambierà nulla per il governo». Tutto questo diceva in tv Matteo Renzi prima delle elezioni. Ma il voto è andato bene, molto bene, e tanti saluti alla prudenza. Ora un brutto riflesso autoritario incombe sulle riforme costituzionali. Diversi renziani — antemarcia o convertiti — declinano lo stesso precetto: Matteo ha vinto le elezioni, guai a chi si mette di traverso sulla riforma-abolizione del senato.
Il Pd che per tanti anni si è sentito ripetere da Berlusconi che «chi prende i voti ha sempre ragione» alla fine ha preso i voti e si è convinto. I suoi dirigenti ci spiegano adesso che il 25 maggio si è votato sul governo. E sulle riforme costituzionali. In fondo, argomentano, sono la stessa cosa.
La discussione sul testo del governo — adottato in senato come riferimento, malgrado fosse stato smentito dalla volontà della commissione — comincia ufficialmente oggi. Ma potrebbe finire subito, secondo gli infervorati renziani che attaccano chi si ostina a proporre modifiche. «Ma non è successo niente il 25 maggio?» chiede un senatore ai venti colleghi che tengono fermi gli emendamenti per l’elezione diretta. Altroché: «Chi ha votato Pd vuole le riforme di Renzi», avverte minacciosa un’altra senatrice democratica. E il capogruppo, già troppo svelto nell’abbracciare l’idea di far scegliere «a ogni regione il modo in cui eleggere i suoi senatori» (ma Renzi scherzava, e lui l’ha capito tardi), impartisce istruzioni alla truppa: «Gli elettori hanno dato credito al governo, i senatori del Pd devono lavorare compatti per consolidare il consenso conquistato».
Al mattino, d’abitudine, i parlamentari Pd si dedicano a sfottere via agenzia i colleghi 5 stelle, costretti a obbedire a Grillo. Ieri cambio di programma e collettivo richiamo all’ordine dei dissidenti interni. Con la raffinatezza di argomenti della vicepresidente della camera: «Basta obiezioni di principio». In fondo la minoranza della minoranza Pd — così come Sel, i grillini e gli ex grillini — propone di diminuire non solo il numero dei senatori ma anche quello dei deputati. Di fare del senato un ente non inutile. Di eleggere i senatori assieme ai consigli regionali. Ma il confronto nel merito è escluso, la risposta della maggioranza è uno slogan: «Facciamo come in Francia». Dietro lo slogan c’è una proposta assai diversa dal sistema francese; farlo notare però è sabotaggio. In Francia i grandi elettori scelgono i senatori tra tutti i cittadini sopra i 24 anni. In Italia potrebbero essere eletti solo sindaci e consiglieri regionali. In Francia la formula ha fallito ed è stata riformata, al punto che né i presidenti dei consigli regionali né i sindaci potranno più essere eletti, in Francia l’altra camera si forma in base a una legge elettorale presentabile; in Italia si immagina l’opposto. La «mediazione» metterebbe il nuovo senato nelle mani dei consiglieri comunali. Assomiglia molto alla prima proposta Renzi-Delrio (il sottosegretario già leader dell’associazione dei comuni), poi ritirata per eccesso di zelo.
Ma al racconto del vincitore manca sempre un pezzo. Non sono i dissidenti a rallentare la marcia verso le riforme. Il frenatore ora è Berlusconi, l’alleato scelto da Renzi per evitare il confronto a sinistra e nel suo partito. A Berlusconi tutti quei sindaci non piacciono. Gli piace invece l’idea di rimettere mano alla legge elettorale già approvata alla camera. L’ottimo risultato del Pd alle europee, e quello mediocre dei centristi, suggeriscono di alzare la soglia sotto la quale si può vincere al primo turno, e di abbassare gli sbarramenti. L’errore è sempre quello di stabilire le regole del gioco inseguendo le convenienze del momento (tra un anno chissà). Ma in questo caso si andrebbe incontro, almeno in parte, ai suggerimenti di molti costituzionalisti. Due mesi fa il presidente del Consiglio li aveva rumorosamente irrisi. Adesso si adegua. L’importante è che gli si dia ragione. «Compatti».
ANDREA FABOZZIda il manifesto
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