Spentisi
gli effetti euforici della droga mediatica propinata a piene mani nel
corso della campagna elettorale da poco conclusasi, le criticità della
situazione economica italiana stanno venendo vigorosamente a galla, in
tutta la loro drammaticità.
Gli
ultimi giorni sono stati caratterizzati da una girandola di notizie
sull’evoluzione del quadro macroeconomico nazionale e sulle misure che
il vero dominus delle politiche economiche europee, la Bce, ha
annunciato per bocca del suo presidente Mario Draghi. Cerchiamo di fare
il punto, partendo dai fondamentali, ovvero dallo stato di salute del
nostro Paese.
Come ha confermato recentemente l’Istat[1],
il Pil italiano è diminuito nel 2013 dell’1,9%, ma non in modo omogeneo
da un capo all’altro della penisola. Si va da un -0,6% nel Nord-Ovest
ad un secco 4% nel Mezzogiorno. Italia sempre più duale, insomma. E
l’occupazione? Le cifre sono ormai da capogiro. Nel primo trimestre del
2014 il tasso di disoccupazione ha toccato il 13,9% (+ 0,8% rispetto
allo stesso periodo dello scorso anno), con quella giovanile al 46%. Al
Sud siamo più vicini alla Grecia che al resto del paese: tasso generale
al 21,7%, che sale fino al 60,9% tra i giovani.
E
le previsioni per il futuro? Per quanto riguarda il Pil, stante
l’arretramento dello 0,1% registrato nel primo trimestre di quest’anno e
le tiepidissime stime per il secondo (tra lo 0,1% e lo 0,4%), c’è da
giurare che le previsioni del Governo (+0,8%), già ammorbidite rispetto a
quelle di Letta, difficilmente potranno essere confermate. Peraltro su
questo punto si va da una previsione di crescita zero da parte
dell’Istat ad un misero 0,5% pronosticato dall’Ocse.
Ora
un po’ di attenzione. Fino a qualche mese fa in molti (Istat,
Bankitalia, Ue, Ocse) avevano parlato per il 2014 – 2015 di crescita
senza occupazione (Jobless recovery). Lascio a voi immaginare cosa potrà accadere, altrimenti, se la crescita prevista non ci sarà o sarà del tutto insignificante!
Intanto il Fiscal compact
incombe, sia per l’obiettivo del pareggio strutturale che per quello
dell’abbattimento delle eccedenze di debito sopra il 60%. Si è molto
dibattuto negli ultimi tempi sull’entità delle manovre atte a conseguire
nei tempi stabiliti questi risultati. Certo, sia nell’uno che
nell’altro caso ciò che farà la differenza sarà il dato della crescita,
ovvero del denominatore nel rapporto deficit/Pil e debito/Pil. Proprio
per questo, nondimeno, con i numeri che ci ha restituito il primo
trimestre 2014 e le previsioni che circolano per l’intero anno, c’è poco
da stare allegri: nelle condizioni date lo spettro di manovre da 40-50
miliardi all’anno, con effetti recessivi annessi, diventerebbe
immediatamente realtà.
Ma Renzi che fa?
Di nuovo in questi giorni è tornato sul tema dell’austerità,
criticandola, ma non ha spiegato come si possa uscire da quest’ultima
senza mettere in discussione gli impegni sottoscritti con l’Europa in
materia di finanza pubblica, peraltro tutti riconfermati nel Documento
di Economia e Finanza approvato nell’aprile scorso. Nel concreto, però,
ha concesso il bonus Irpef (gli 80 euro) ad una platea di circa 10
milioni di lavoratori dipendenti ed ha varato una nuova riforma del
mercato del lavoro.
Bonus Irpef.
Quale doveva (dovrebbe) essere l’obiettivo di questa misura? Rilanciare
i consumi, quindi stimolare la domanda interna, aiutare la crescita.
Quali sono le stime più realistiche su questo punto? L’Istat ha previsto
un impatto insignificante dell’intervento sull’economia, fissando ad un
misero +0,2% la crescita dei consumi per l’anno in corso. Un dato che
non è molto lontano da quello stimato da associazioni di consumatori
come Federconsumatori e Adusbef, che parlano di un +0,5% a fronte di un
calo dei consumi nel biennio 2012-2013 di oltre l’8%, pari a 70 miliardi
di euro.
Decreto Poletti.
Parliamo di un provvedimento che si basa sul seguente assioma: ad un
più livello di deregolamentazione del mercato del lavoro dovrebbero
corrispondere livelli meno elevati di disoccupazione. In questa
direzione vanno le misure che hanno allungato la vita dei contratti a
termine “acausali” e portato da uno a cinque il numero delle proroghe
degli stessi. E’ singolare che dopo oltre vent’anni di interventi in
questo campo, che hanno largamente precarizzato e flessibilizzato i
rapporti di lavoro, senza che ciò abbia determinato un incremento
sostanziale dei livelli occupazionali (semmai è vero il contrario), si
continui ancora a battere questa strada. L’Italia, da questo punto di
vista è stato uno dei paesi in Europa che più di altri ha “investito”
sulla flessibilità per creare nuova occupazione, ma i risultati sono
stati evidentemente asimmetrici rispetto agli obiettivi dichiarati[2].
Ricapitolando,
appare del tutto evidente che le strategie messe finora in campo del
nuovo governo per favorire la crescita e l’occupazione sono del tutto
insufficienti, perfino inutili e dannose se ci riferiamo alla nuova
disciplina dei contratti a termine.
Intanto a Francoforte,
sede della Banca centrale europea, c’è chi annuncia misure
straordinarie per rilanciare l’economia nell’eurozona. Vediamo di che si
tratta. Stando ai titoli di alcune testate giornalistiche, le parole di
Mario Draghi, pronunciate a margine del Consiglio direttivo della Bce
del 5 giugno scorso, sarebbero traducibili in questo modo: meno tassi,
più liquidità, ovvero riduzione ulteriore del costo del denaro e tassi
di interesse sotto zero sui depositi che le banche tengono sui conti
della Banca centrale europea[3] da un lato e iniezione
di nuova liquidità nel sistema bancario sul modello delle operazioni di
rifinanziamento Ltro del 2011-2012 dall’altro. La differenza, rispetto a
quest’ultime, risiederebbe nel carattere “mirato” (Targeted)
dei finanziamenti, di cui dovrebbero beneficiare essenzialmente famiglie
e imprese (con esclusione dei mutui immobiliari). Per la prima misura,
invece, l’idea è che le banche, qualora dovessero pagare anziché essere
remunerate per i propri depositi presso la Bce, avrebbero oggettivamente
interesse a far circolare la liquidità in loro possesso.
Non
prendiamoci in giro. Ma davvero si può pensare che le banche, nelle
condizioni date, possano allegramente dispensare prestiti ad imprese e
famiglie solamente per non pagare l’obolo del mantenimento dei propri
depositi presso la Bce? Il gioco non varrebbe la candela, stante
l’elevato rischio di insolvenza dei beneficiari dei finanziamenti[4].
Allo stesso modo appare del tutto irrealistico che le banche aderiscano
massicciamente al nuovo programma Ltro, con obbligo di esposizione
verso il settore privato per l’intero ammontare del denaro ricevuto
(Ecco perché il nuovo programma assumerà la denominazione di Tltro,
ovvero Targeted longer-term refinancing operations). Meglio finanziarsi sul mercato, senza impegni di sorta ed a tassi ormai ragionevoli. O no?
Da
Roma a Francoforte, passando per Bruxelles, insomma, si continua a
sottovalutare l’entità della crisi in atto. E tutte le misure che si
adottano non fuoriescono dal binario ideologico dell’”austerità
espansiva”. In Italia, quelle che vengono presentate come misure
“straordinarie” per la crescita e l’occupazione altro non sono che
mezze-misure adottate in un quadro di assoluta compatibilità con i
vincoli rigoristi di finanza pubblica oggi operanti o all’insegna della
continuità con le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni ed
oltre. Per quanto riguarda le misure “non convenzionali” di Draghi
siamo a metà strada tra la strategia dell’annuncio e la sostanziale
fedeltà alla mission della Bce.
Urge
perciò un cambio di passo. Senza immaginare rotture traumatiche
dell’Unione economica e monetaria, tre interventi, nell’immediato,
potrebbero dare respiro all’economia europea: un ambizioso programma di quantitative easing,
un piano straordinario per il lavoro finanziato direttamente
dell’Unione, la sospensione dei vincoli derivanti dal Patto di bilancio (Fiscal compact).
Dalle
elezioni del 25 maggio è venuto un monito molto chiaro: la fiducia dei
cittadini verso le istituzioni europee è ai minimi storici. Non
coglierne la portata significherebbe condannare l’Europa all’implosione.[5]
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