mercoledì 11 giugno 2014

Trent'anni fa: Berlinguer di Paolo Ferrero

Trent'anni fa moriva Enrico Berlinguer.


Berlinguer è stato tra coloro che hanno saputo meglio incarnare, nel corso della propria esistenza e della militanza, l'idea della diversità dei comunisti. Egli pose per primo, nel nostro Paese, il tema della "questione morale". Lo pose con un'accezione diversa da quella poi diventata popolare in questi anni, secondo cui il problema sarebbe rappresentato unicamente dai tanti politici che rubano. Berlinguer leggeva la corruzione della cosa pubblica, allora come oggi radicata e strutturata, come il sintomo e il tassello di un modello di crescita e di sviluppo distorto, di un capitalismo malato che - per potersi alimentare e riprodurre - doveva necessariamente incubare un'economia illegale e criminale crescente, distruggere l'ambiente e i diritti conquistati dal movimento operaio. Una corruzione che riguardava l'intera classe dirigente del nostro Paese: gli esponenti dei partiti di governo, ma anche gli imprenditori e i grandi manager. Una corruzione che poteva e può essere sconfitta non solo con l'onestà e con la trasparenza, ma mettendo in discussione quelle politiche che oggi chiamiamo neo-liberiste.
Berlinguer, dopo la stagione del compromesso storico e dell'unità nazionale, a partire dalla fine degli anni Settanta, si convinse giustamente che l'unica strada da percorrere era la costruzione di un'alternativa di sinistra: cominciò così una politica di opposizione alle politiche di ristrutturazione capitalistica e al tentativo di cancellare le grandi conquiste maturale dal movimento operaio. Quel Berlinguer era spesso isolato all'interno dello stesso Pci: quando, ad esempio, andò davanti ai cancelli della Fiat nel 1980 e disse che i comunisti dovevano stare dalla parte degli operai nei momenti migliori ma anche e soprattutto nelle fasi peggiori; quando - nel 1984-85 - scelse la strada dell'opposizione al decreto di San Valentino emanato dal governo Craxi per tagliare la scala mobile, fino ad arrivare al referendum contro quel provvedimento.
In fondo Berlinguer, negli ultimi anni della sua vita, ci diceva che era meglio una sconfitta stando dalla parte giusta che una vittoria basata sul tradimento dei propri ideali e della propria storia. Anche perché le sconfitte di oggi possono essere i semi che rendono possibile la vittoria domani. Una lezione che la maggioranza del Pci - solo pochi anni dopo la sua morte - ha totalmente capovolto. Berlinguer, anche quando ha commesso errori politici, come nel caso del compromesso storico, non ha perso in alcun modo quella levatura politica e morale che i Renzi e i Grillo, che hanno provato a strumentalizzarlo durante la campagna elettorale, non si sognano neanche da lontano. L'impegno politico di Berlinguer - dalle scelte giuste ai suoi errori - si colloca nella storia centenaria della lotta delle classi subalterne per ottenere il riscatto sociale, la libertà e la giustizia. Si colloca nella storia del paese, non nell'attimo effimero di un successo ottenuto attraverso una performance teatrale. In questo la distanza con i Renzi e i Grillo non è solo politica: è culturale e morale. Berlinguer era un compagno non un imbonitore.
Nella rivalutazione che la figura di Berlinguer sta avendo in occasione del trentennale della sua morte assistiamo ad una operazione politica e culturale sottile quanto disgustosa. Ci viene suggerito che prima di Berlinguer il comunismo era solo stalinismo e che con Berlinguer il comunismo finisce.
La vita di Berlinguer diventa così una parentesi storica in cui ingabbiare il comunismo, un comodo modo per spiegare, da parte dei voltagabbana di oggi, che era giusto essere comunisti da giovani, con Berlinguer, ed è giusto essere liberali oggi. Berlinguer viene quindi usato in funzione anticomunista, mitizzandone la figura al fine di svuotarne il senso profondo della militanza. Contro questo ennesimo attacco a Berlinguer da parte di chi ha militato nel suo partito, rispondiamo con le parole di Berlinguer stesso, che nel corso di una bellissimo tribuna elettorale del 7 luglio 1982, rispondendo alla domanda di un giornalista, affermava:
"Affascinante no. Non ha mai pensato di esserlo e mi guardo bene dal pensarlo. Forse l'hanno detto gli altri, ma qui ci sono delle mode per cui quando un partito ha dei risultati brillanti, allora i suoi leader vengono definiti carismatici, affascinanti, belli e così via dicendo. E poi naturalmente invece quando - come accade nella vita dei partiti - ci sono dei periodi di stasi o di difficoltà, allora naturalmente poi diventano vecchi, superati, stanchi. Io non mi sento stanco, sento in me, se vuole - non credo di fare della retorica - la stessa passione che ho avuto quando ho cominciato la mia milizia comunista nel 1943. Da questo punto di vista non mi è accaduto - e questa la considero la più grande fortuna della mia vita - di seguire quella famosa legge per cui si è rivoluzionari a 18 anni, a vent'anni, poi si diventa via via liberali, conservatori, reazionari. Io conservo i miei ideali di allora".

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