Nichi Vendola ha avuto in questi anni di leadership incontrastata dentro Sel,
fino agli abbandoni degli ultimi giorni, alcune felici intuizioni
riassumibili in due concetti da lui ripetutamente espressi: “Sel come
ingrediente additivo di una sinistra più grande” e “non m’interessa il
partito ma la partita”.
Frasi paradigmatiche, di un progetto di lungo respiro costituente della compagine nata dall’aggregazione di alcune aree politiche, una di provenienza Ds, Pds, Pci, la cosiddetta sinistra storica, anch’essa nient’affatto omogenea al suo interno (come si conviene a tutte le famiglie che si rispettino della martoriata sinistra), composta sostanzialmente da un’area di provenienza e un’altra con radici molto forti nel sindacato Cgil e in parte Fiom.
La seconda componente, proveniente dalla scissione di Rifondazione, di stretta osservanza vendoliana, con un “cerchio magico” costituito essenzialmente dal trio Migliore, Ferrara e Giordano poi più defilato.
Una terza piccola componente molto fluttuante, tra i verdi movimentisti di Paolo Cento e una quarta numerosissima, almeno inizialmente, di giovani e giovanissimi, senza etichette, affascinati dalla “narrazione” del “loro” Nichi, intruppati come un esercito di riserva, pronto alla mobilitazione, nelle cosiddette “Fabbriche di Nichi”, poi misteriosamente abbandonate al loro destino.
Penso che la contraddizione tra le attese del progetto iniziale e il risultato di oggi, sia nel non aver mai neanche provato a creare un vero amalgama in questo rassemblemant che non è riuscito a conquistare una soggettività politica effettiva.
Gli unici momenti partecipativi sono stati circoscritti alle primarie oppure a consultazioni elettorali, dove le diverse componenti con le loro strutturazioni interne hanno pesato in modo preponderante.
Cosicché la “partita” si è persa proprio perché è mancato un “partito”, in altre parole un soggetto organizzato sulla base di un sistema di valori, regole e programmi in grado di fornire una struttura chiara e prospettica all’azione politica.
Tutte le decisioni più importanti si sono assunte con modalità organizzative e gestionali tipiche della cultura più tradizionale (asfittica) degli “apparati”. Far prevalere il gruppo più forte nei rapporti interni a ogni singola realtà, sulla base di equilibri predeterminati, eludere ogni discussione reale. Nessuna vera innovazione, poca attività nel territorio, poca promozione, scarsa attenzione alla società.
Tante persone valide che hanno partecipato nel corso del tempo alle diverse fasi e moltissime che si sono allontanate deluse, perché sostanzialmente ignorate da una struttura dirigenziale centrale e periferica, interessata prevalentemente al “palazzo”. Ovviamente con le debite eccezioni che però non hanno mai mutato il tratto complessivo dell’esperienza.
Ci sono ragioni “antropologiche” per questo insuccesso? Cattiverie ed egoismi dei gruppi dirigenti? Forse ma non si spiega solo così: indubbiamente ha pesato l’interminabile crisi della politica in senso molto più generale e il declino del Paese, l’offuscarsi nel ventennio berlusconiano, di ogni sostanziale differenza culturale nel sistema dell’informazione che ha costruito una società mediatizzata, un contenitore dove tutto è controllato, è ancora così, dalla ricerca del consenso e nessuno spazio è lasciato al pensiero critico.
Il liberismo all’italiana è stato instillato chirurgicamente nei circuiti mentali dei telespettatori e dei figuranti che con le loro comparsate hanno fornito attendibilità e oggettività alla straordinaria operazione di restaurazione di un pensiero-non pensiero unico e unificante, dove le sole differenze ammesse, erano nel timbro di voce di chi urlava di più per non dire niente.
Sel e il suo leader sono stati un guscio di noce in mezzo a una tempesta perfetta che ha travolto anche strutture più forti, ora il rischio d’inabissarsi definitivamente è più che probabile. Le ricette non sono a portata di mano, non c’è niente di facile. L’esperienza di Tsipras può essere un approdo, in cui tentare di ricostruire una trama, una scommessa tutta da verificare, però ora non ci sono altre strade.
Chi pensa che sia il Pd di Renzi l’interlocutore principale, non ha capito o finge di non comprendere che da quella parte non viene fuori niente, che occorre lavorare invece perché le tante contraddizioni, depositate sotto il tappeto dalla vittoria delle Europee del leader democratico, riemergano per sapere cosa diventerà questa macchina onnivora creata solo per gestire il potere. La tempesta non è ancora terminata bisogna rinforzare gli ormeggi.
Frasi paradigmatiche, di un progetto di lungo respiro costituente della compagine nata dall’aggregazione di alcune aree politiche, una di provenienza Ds, Pds, Pci, la cosiddetta sinistra storica, anch’essa nient’affatto omogenea al suo interno (come si conviene a tutte le famiglie che si rispettino della martoriata sinistra), composta sostanzialmente da un’area di provenienza e un’altra con radici molto forti nel sindacato Cgil e in parte Fiom.
La seconda componente, proveniente dalla scissione di Rifondazione, di stretta osservanza vendoliana, con un “cerchio magico” costituito essenzialmente dal trio Migliore, Ferrara e Giordano poi più defilato.
Una terza piccola componente molto fluttuante, tra i verdi movimentisti di Paolo Cento e una quarta numerosissima, almeno inizialmente, di giovani e giovanissimi, senza etichette, affascinati dalla “narrazione” del “loro” Nichi, intruppati come un esercito di riserva, pronto alla mobilitazione, nelle cosiddette “Fabbriche di Nichi”, poi misteriosamente abbandonate al loro destino.
Penso che la contraddizione tra le attese del progetto iniziale e il risultato di oggi, sia nel non aver mai neanche provato a creare un vero amalgama in questo rassemblemant che non è riuscito a conquistare una soggettività politica effettiva.
Gli unici momenti partecipativi sono stati circoscritti alle primarie oppure a consultazioni elettorali, dove le diverse componenti con le loro strutturazioni interne hanno pesato in modo preponderante.
Cosicché la “partita” si è persa proprio perché è mancato un “partito”, in altre parole un soggetto organizzato sulla base di un sistema di valori, regole e programmi in grado di fornire una struttura chiara e prospettica all’azione politica.
Tutte le decisioni più importanti si sono assunte con modalità organizzative e gestionali tipiche della cultura più tradizionale (asfittica) degli “apparati”. Far prevalere il gruppo più forte nei rapporti interni a ogni singola realtà, sulla base di equilibri predeterminati, eludere ogni discussione reale. Nessuna vera innovazione, poca attività nel territorio, poca promozione, scarsa attenzione alla società.
Tante persone valide che hanno partecipato nel corso del tempo alle diverse fasi e moltissime che si sono allontanate deluse, perché sostanzialmente ignorate da una struttura dirigenziale centrale e periferica, interessata prevalentemente al “palazzo”. Ovviamente con le debite eccezioni che però non hanno mai mutato il tratto complessivo dell’esperienza.
Ci sono ragioni “antropologiche” per questo insuccesso? Cattiverie ed egoismi dei gruppi dirigenti? Forse ma non si spiega solo così: indubbiamente ha pesato l’interminabile crisi della politica in senso molto più generale e il declino del Paese, l’offuscarsi nel ventennio berlusconiano, di ogni sostanziale differenza culturale nel sistema dell’informazione che ha costruito una società mediatizzata, un contenitore dove tutto è controllato, è ancora così, dalla ricerca del consenso e nessuno spazio è lasciato al pensiero critico.
Il liberismo all’italiana è stato instillato chirurgicamente nei circuiti mentali dei telespettatori e dei figuranti che con le loro comparsate hanno fornito attendibilità e oggettività alla straordinaria operazione di restaurazione di un pensiero-non pensiero unico e unificante, dove le sole differenze ammesse, erano nel timbro di voce di chi urlava di più per non dire niente.
Sel e il suo leader sono stati un guscio di noce in mezzo a una tempesta perfetta che ha travolto anche strutture più forti, ora il rischio d’inabissarsi definitivamente è più che probabile. Le ricette non sono a portata di mano, non c’è niente di facile. L’esperienza di Tsipras può essere un approdo, in cui tentare di ricostruire una trama, una scommessa tutta da verificare, però ora non ci sono altre strade.
Chi pensa che sia il Pd di Renzi l’interlocutore principale, non ha capito o finge di non comprendere che da quella parte non viene fuori niente, che occorre lavorare invece perché le tante contraddizioni, depositate sotto il tappeto dalla vittoria delle Europee del leader democratico, riemergano per sapere cosa diventerà questa macchina onnivora creata solo per gestire il potere. La tempesta non è ancora terminata bisogna rinforzare gli ormeggi.
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