1) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni);
2) Gli USA: un’economia “forte” che affonda tra debiti, disoccupati, sottoccupati, inattivi e scoraggiati;
3) Europa: sempre più in un vicolo cieco tra impotenza e ricette fallimentari
1) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni)
A) L’andamento del PIL mondiale.
Nel giugno del 2014 la Banca Mondiale prevede una crescita (in ribasso) del 2,8% per l’anno in corso, meglio il FMI che prevede per il mondo una crescita del 3,7% a marzo, del 3,4% a luglio e del 3,3% ad ottobre. Le tabelle che seguono illustrano le più recenti previsioni sull’andamento dell’economia mondiale.
Tabella n. 1: Stima OCSE 2014 (settembre)
Paesi | Crescita % PIL |
USA | 2,1% |
Eurozona | 0,4% |
Giappone | 0,9% |
Germania | 1,5% |
Francia | 0,4% |
Italia | -0,4% |
UK | 3,1% |
Cina | 7,4% |
India | 5,7% |
Brasile | 0,3% |
Tabella n. 2: Stima FMI 2014 (ottobre)
Paesi | Crescita % PIL |
USA | 2,1% |
Eurozona | 0,8% |
Giappone | 1% |
Germania | 1,4% |
Francia | 0,4% |
Italia | -0,2% |
UK | 3,2% |
Cina | 7,5% |
Il solito estimatore del capitalismo potrebbe sostenere che, comunque, si cresce e che la crisi è solo questione dell’Eurozona2, inoltre di recente il prof. Piketty ha osservato che con una crescita secolare dell’1% possono farsi miracoli3; questo però era vero prima della Seconda guerra mondiale, poiché in seguito è esploso il boom demografico dei paesi poveri che coinvolge anche alcuni paesi ricchi (gli USA hanno una crescita demografica vicino all’1%)4 ed i demografi ci avvertono che con una crescita dell’1% (70 milioni di persone l’anno a livello mondiale)5 occorre destinare il 3% del PIL ai costi di “allevamento” delle nuove generazioni6; ciò significa che una crescita demografica dell’1% “mangia” l’attuale crescita del PIL mondiale (attorno al 3%).
Ma non è tutto, il grosso della produzione mondiale è in mano a pochi paesi: nel 2011 solo 9 paesi (USA, Canada, Australia, Giappone, Francia, Italia, Germania, Spagna ed UK) raccoglievano 39.563 miliardi di dollari pari al 56,5% del PIL mondiale, mentre i 5 paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ne raccoglievano 11.935 pari al 19,9% del PIL mondiale, epperò i paesi ricchi avevano 806 milioni di abitanti (11,6% del totale) contro i 3.012 milioni dei BRICS (il 42% del totale) 7; la differenza nel PIL procapite è semplicemente abissale.
Ora, però, i paesi ricchi sono fermi a crescite modeste, mentre la Cina è al 7,5% (più o meno) e l’India oscilla tra il 5-6%8, ormai crescono solo i poveri o alcuni tra i più grandi di quel gruppo. Il fatto è, però, che per quei paesi anche il 7% è poco o nulla9: infatti la Cina con una crescita del 7,5% del PIL (e del 9% per l’industria) si trova frequentemente negli ultimi anni sotto il livello 50 dell’indice PMI, che misura il livello di sviluppo dell’industria e dei servizi, sopra 50 abbiamo la crescita, sotto 50 abbiamo il ristagno o la recessione10. Ancora: il superindice OCSE, in cui lo spartiacque è dato da 100, ha collocato spesso i paesi emergenti sotto quel livello: ad esempio nell’aprile del 2014 la Cina era a 98,6, (media OCSE 100,6), la Russia a 99,2, il Brasile a 98,5 e l’India a 97,9. In sintesi i paesi ricchi ristagnano ed i poveri (o gli emergenti) non sono da meno. Ciò è ulteriormente confermato da recenti calcoli compiuti sull’andamento delle economie sviluppate dal 2008 (anno di esplosione della crisi ) al 2013: gli USA, facendo base 100 il primo trimestre del 2008, sono a 105,5, la Germania è a 103,8, UK a 100,2, i G7 a 99,3 e l’Eurozona a 97,511. Il quadro non cambia se consideriamo anche il 2014: se tutto andrà bene gli USA cresceranno nel 2014 di un paio di punti o poco più, il che in un arco di 7 anni (2008-2014) significa una crescita media dell’1,1% l’anno, lo stesso per l’UK che, se crescerà del 3,2% quest’anno, totalizzerà una media settennale dello 0,5% circa, quanto alla Germania le cui stime si sono ridotte di recente all’1,2% per il 2014 (valutazione del governo tedesco) saremmo ad una media dello 0,7-0,8% nel periodo considerato; quanto alla Spagna è ferma, nel corso del 2014, a 92 e noi a 9112.
Si cresce poco e male con un andamento a dente di sega (alti e bassi) tipico degli USA, cui fa riscontro il ristagno stabile del Giappone o il lento affondare di Italia e Spagna. E i consumi seguono: nel 2014 si è notato che, facendo base 100 il periodo pre-crisi, si era a 95 nell’Eurozona e a 106 in USA13, il che significa una crescita vicino all’1% per quel paese, ciò che è una “performance” da ristagno di lungo periodo, e gli USA sono considerati l’economia che regge meglio alla crisi tra i paesi ricchi.
Ma non è tutto. Uno studio del CSC (il Centro studi della Confindustria) relativo al 2011 ha accertato che la crescita europea del 2011 (+ 1,4% di PIL nell’Eurozona) determina una perdita del 2,6% del PIL per la bassa utilizzazione degli impianti14; gli impianti, infatti, possono lavorare normalmente al 90% della loro capacità, ma quando l’economia rallenta si scende verso l’80% o meno, il che significa che una parte eccessiva dell’investimento rimane inutilizzata, sono cioè risorse buttate dalla finestra, di cui nel calcolo del PIL non si tiene conto adeguatamente, ed è questo uno dei tanti motivi per cui le stime fondate sul PIL lasciano insoddisfatti molti studiosi15. Ora se si paragonano i tassi di sviluppo delle principali economie ricche con lo sviluppo dell’Eurozona nel 2011 (1,4%) si scopre che essi sono mediamente inferiori, come si è visto. In altre parole questa asfittica ed inconsistente ripresa non basta neanche ad assicurare un adeguato utilizzo degli impianti, ciò che si perde in capitale sprecato è superiore al modesto incremento del PIL16 . Ciò posto che rimane della crescita del PIL mondiale? Assolutamente nulla.
B) La montagna del debito mondiale.
C’è, inoltre, un altro enorme peso che grava su questa asfittica e stagnante economia, il peso del debito nelle sue varie componenti (debito pubblico, delle famiglie, delle imprese, derivati). Il debito pubblico era stimato dal FMI al 58% del PIL mondiale nel 2002 divenuto il 120% nel 2009, il livello con cui gli USA uscirono dalla seconda guerra mondiale17. Ancora nel 2007 gli USA erano al 67,2% (rapporto debito-PIL) e nel 2013 erano al 104,3%18 con una crescita di 37 punti a fronte di uno sviluppo del PIL del 5,5% nel periodo 2008-2013, si tratta di un incremento del debito sette volte superiore alla crescita del PIL.
Gli altri paesi non stanno meglio: una recente ricerca coordinata da un noto manager italiano sul debito dei paesi avanzati, ha portato a questi risultati:
Tabella n. 3: Debito nei paesi avanzati nel 2013
Paesi | Rapp. % debito-PIL | Spesa interessi % PIL |
---|---|---|
USA | 104,3 % | 3,8% |
Giappone | 224,6% | 2,1% |
Eurozona | 92,7% | 2,9% |
UE | 86,9% | 2,8% |
Italia | 132,2% | 5,3% |
Francia | 93,5% | 3,4% |
Germania | 78,4% | 2,2% |
Spagna | 93,9% | 3,4% |
Come si vede un indebitamento enorme19, in particolare i 4 grandi dell’Eurozona (Italia, Francia, Germania e Spagna) vedono il loro debito globale passare da 2152 miliardi di euro nel 1992 a 7.130 miliardi nel 2013: il rapporto debito-PIL cresce di 28 punti in Italia, di 48 punti in Spagna, di 53 in Francia e di 38 in Germania20; ancora la Germania ha visto il suo debito evolvere negli anni più recenti dai 1650 miliardi del 2008 ai 2159 miliardi del 2013, in questo lasso di tempo il PIL tedesco è cresciuto, come si è visto del 3,8% e cioè di un centinaio di miliardi o poco più a fronte di una crescita del debito di 509 miliardi.
A questo indebitamento enorme delle economie avanzate corrisponde una spesa per interessi nettamente superiore alla crescita asfittica del PIL, se gli Stati fossero imprese sarebbero falliti da tempo; negli anni ’30 si diceva che la crescita del debito pubblico non era un peso per l’intera società, implicando solo un trasferimento di ricchezza all’interno della società tra debitori e creditori21. Ora, però, questa tesi, già allora discutibile, non appare più sostenibile poiché il debito è sottoscritto sui mercati internazionali, i bonds vanno cioè ad investitori stranieri e questo riguarda più o meno tutti come è noto. Inoltre, anche quando gli investitori sono locali, assai spesso fanno parte di centri finanziari o banche multinazionali, che operano con criteri per nulla nazionalistici, in altre parole costoro investono fin quando la cosa appare profittevole e abbandonano i singoli paesi quando i tassi di interesse proposti non sono considerati remunerativi. Già nel lontano 1971 Guido Carli, governatore della Banca d’Italia osservò che i capitali delle IM (una cifra immensa) si muovevano sui mercati internazionali in senso inverso alla politica monetaria dei singoli paesi mettendola in crisi22; a fine millennio il commissario europeo Monti osservò che le IM mettevano all’asta i loro investimenti collocandoli laddove la politica fiscale era più benevola, il che costringeva gli Stati a concedere sgravi crescenti in concorrenza gli uni con gli altri, per cui non rimaneva che aumentare le tasse sul lavoro23 con conseguenze negative sui consumi che si contraevano e sulla dinamica dell’economia.
Cedere, dunque, quote crescenti di PIL (la spesa per interessi) a centri di potere multinazionali (ci siano o meno presenze locali in essi) è quanto mai pericoloso, gli stati diventano sempre più subalterni a gruppi di potere che non ragionano in termini di sviluppo delle economie nazionali ma in termini del proprio profitto; ciò per i capitalisti è sempre accaduto, ma un tempo, quando il capitalismo era tendenzialmente nazionale, essi non avevano questi strumenti terribili di pressione sugli Stati, adesso possono far fallire qualunque politica monetaria, fiscale o di bilancio che sia sgradita, e più gli Stati si indebitano più cresce la loro situazione di dipendenza politica ed economica da questi grandi centri finanziari.
Né ciò riguarda solo i paesi industrializzati avanzati né solo il debito pubblico, poiché il debito globale (imprese, famiglie e debito pubblico) cresce enormemente24 e ciò contagia anche i paesi emergenti, prima tra tutti il più grande di essi, la Cina: una recente ricerca della Standard Chartered Bank ha attestato che il debito aggregato (debito pubblico e debito delle famiglie) è arrivato al 251% del PIL cinese nel giugno 2014 contro il 250% dell’Italia, il 260% degli USA ed il 415 % del Giappone25. Si noti che il debito aggregato, calcolato da questa banca, non è completo non comprendendo il debito delle imprese con il quale gli USA erano vicini al 400% nel 200926, comunque anche solo valutando il debito pubblico e quello delle famiglie, la Cina è a livelli simili a quelli dell’Italia.
Senza debito non cresci, e la crescita cinese è una crescita che maschera il ristagno27. La cosa è ancora più grave perché negli stessi decenni sono state attivate politiche di austerità pesanti, che però hanno colpito duramente lavoratori e pensionati ma hanno beneficiato il capitale sia attraverso gli sgravi fiscali e la tolleranza verso l’evasione fiscale (su cui torneremo)28, sia attraverso i salvataggi delle banche in ragione di 3.300 miliardi di dollari in USA e 4.500 miliardi di euro in Europa29. Austerità per gli uni e sgravi ed aiuti per gli altri col risultato del ristagno dei consumi cui segue uno sviluppo asfittico ed una crescita dell’indebitamento delle famiglie necessario a sostenere consumi stagnanti, mentre le entrate fiscali a causa della debolezza dell’economia e dei consumi sono calanti; ciò determina un crescente indebitamento dello Stato ed una sua sempre più elevata dipendenza dei centri della finanza internazionale che manovrano i cordoni della borsa.
Ma non è tutto purtroppo: l’indebitamento globale comprende anche un’altra voce sviluppatasi dopo il 2000: i titoli derivati. Si tratta di titoli a forte carattere speculativo, i futures sul petrolio e sul grano ne sono un esempio30, il cui sviluppo si collega al carattere asfittico della ripresa: la produzione stagnante non assorbe il capitale disponibile, che rifluisce verso manovre speculative, vere e proprie, scommesse sui prezzi o sul verificarsi di eventi, che non producono ricchezza e trasferiscono soldi da una tasca all’altra. Le valutazioni su quanti siano i derivati in circolazione variano da circa 650.000 miliardi di dollari ad 1,5 quadrilioni di dollari, il che significa da 9 a 21 volte il PIL mondiale del 201131.
La crescita inconsistente dell’economia mondiale naviga su un mare di debiti che in ogni momento potrebbero tradursi in crisi finanziarie, bancarie e monetarie dagli esiti imprevedibili, crisi che negli ultimi decenni si sono effettivamente moltiplicate32.
C) La disoccupazione mondiale, un cancro irreversibile.
Il basso utilizzo degli impianti e del capitale ha, come rovescio, il basso utilizzo della forza lavoro. La signora Lagarde, leader del FMI, osserva che la disoccupazione rimane inchiodata attorno a 200 milioni di unità (75 milioni di giovani) e che la crisi ha impedito la creazione di 65 milioni di nuovi posti di lavoro33; l’ILO nel suo recente rapporto sul mondo del lavoro osserva che nel 2014 esistono 800 milioni di lavoratori che vivono con meno di 2 dollari al giorno34; oltre alla disoccupazione esiste cioè il fenomeno della sottoccupazione, persone che lavorano con salari irrisori oppure ad orario limitato (o entrambe le cose). Sembrerebbe, però , che la situazione sia per certi versi migliorata rispetto al rapporto ILO del 2005 quando si segnalava la presenza di 1,2 miliardi di lavoratori (quasi il 50% della forza lavoro mondiale) che lavoravano con 1-2 dollari al giorno35. In realtà le cose non stanno così perché dal 2005 il livello dei prezzi è cresciuto considerevolmente come si evince dalla tabella che segue:
Tabella n. 4: evoluzione dei prezzi nel mondo36
Paesi | Media 2006/2011 | Anno 2006 | Anno 2007 | Anno 2008 | Anno 2009 | Anno 2010 | Anno 2011 | Anno 2012 |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|
India | 9,3% | 6,1% | 6,4% | 8,3% | 10,9% | 12% | 8,9% | 9,3 |
Cina | 3,75% | 1,5% | 4,8% | 5,9% | - 0,7% | 3,3% | 5% | 2,7% |
Pakistan | 13 ,4% | 7,9% | 7,6% | 20,3% | 13,6% | 13,9% | 11,9% | 9,7% |
Indonesia | 6,3% | 13% | 6,4% | 10,3% | 4,6% | 7% | 5,4% | 4,3% |
Bangladesh | 7,9% | 6,3% | 9,1% | 8,9% | 5,4% | 8,1% | 8,1% | 8,7% |
Nigeria | 10,6% | 5,4% | 11,6% | 12,4% | 12,45% | 13,7% | 10,8% | 12,25 |
Brasile | 5,2% | 4,2% | 3,6% | 5,7% | 4,9% | 5% | 6,6% | 5,4% |
Messico | 4,4% | 3,6% | 4% | 5,1% | 5,3% | 4,2% | 3,4% | 4,1% |
USA | 2,2% | 3,2% | 2,9% | 3,8% | - 0,4% | 1,6% | 3,2% | 2,1% |
Germania | 1,2% | 1,8% | 2,1% | 2,6% | 0,3% | 1,1% | 2,3% | 2% |
Francia | 1,6% | 1,9% | 1,5% | 2,8% | 0,1% | 1,5% | 2,1% | 2% |
UK | 3,2% | 2,3% | 4,3% | 4% | - 0,6% | 4,4% | 4,5% | 2,8% |
Giappone | -0,4% | 0,2% | 0,1% | 1,4% | -1,4% | -0,7% | -0,3% | 0% |
Italia | 2,3% | 2,2% | 1,8% | 3,3% | 0,8% | 1,5% | 2,7% | 3% |
Mondo | 3,9% | 3,5% | 3,8% | 5,7% | 2,2% | 3,45% | 4,4% | 3,6% |
Come si vede un’evoluzione chiaramente inflattiva, per cui chi in termini reali guadagnava 1-2 dollari al giorno nel 2005 (lavoratori dei paesi emergenti) ha subito un drastico impoverimento. In Cina, colosso dei paesi emergenti, con i miracoli della matematica composta37, tenendo conto che, stando alle statistiche ufficiali anche nel 2013 i prezzi sono cresciuti del 2,6%, abbiamo che dal 2006 al 2013 i prezzi sono cresciuti di un 35% circa, il che significa che chi guadagnava 2 dollari nel 2005 ha dovuto crescere fino a 2,7 dollari per mantenere il vecchio potere d’acquisto; ora un salario di 80 dollari mensili in Cina non è per nulla basso38. Secondo le statistiche cinesi 82 milioni di cinesi vivono oggi con un reddito giornaliero fino ad un dollaro e 200 con un reddito inferiore a 1,25 dollari, limite statistico della povertà estrema stabilito dalla Banca Mondiale39. Sotto 2, 7 dollari si colloca una massa enorme di lavoratori cinesi a cui andrebbero aggiunti altri 200 milioni di cinesi che vivono nascosti a causa della legge sul figlio unico e che sono formalmente inesistenti, impossibilitati cioè ad avere un reddito ufficiale e che vivono alle spalle degli altri e/o di lavori saltuari e in nero. Di gran lunga peggiore è, però, la situazione di paesi come India, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Indonesia dove vivono circa 2 miliardi di persone con un reddito inferiore a quello della Cina e dove l’incremento dei prezzi è stato brutale come si evince dalla tabella n. 4. In altre parole la situazione dei dannati della terra dal 2005 in poi è peggiorata.
Al sottosalario dei paesi emergenti, spesso unito a lavori massacranti e senza alcun sistema di tutela o di welfare, corrisponde nei paesi ricchi l’esplosione del lavoro parziario o precario. Il fenomeno diventa evidente dopo la Grande Crisi del 1973-75: l’Europa diventa un Europa a tempo parziale40 né dopo la situazione è mutata, sicché di recente la prof.ssa Reichelin, una dei big della BCE, ha auspicata che l’era buia dei “mezzi lavori” debba finire41, nel frattempo i lavoratori precari o parziari erano diventati quasi la metà degli occupati in Italia42, e per le nuove assunzioni ormai il tempo indeterminato e pieno è una rarità43, mentre in Germania la riforma di Shoroeder (inizio terzo millennio) ha prodotto 8 milioni di minijobbers pari a circa ¼ della forza lavoro tedesca44. Di recente una grande multinazionale, la Nestlè, ha asserito che in futuro assumerà solo lavoratori parziari45.
Dall’altro lato dell’Oceano il fenomeno si manifesta in modo consistente a partire dalla crisi del 1973-75 quando il 14,6% dei lavoratori è a tempo parziario46; in seguito il fenomeno crescerà ulteriormente come attestano le ricerche del prof. Rifkin47, mentre di recente il Nobel Krugman ha riferito valutazioni che stimano i lavoratori parziari al 40% degli occupati americani48.
Ma non è tutto, le cifre sulla disoccupazione sono spaventosamente sottostimate e non solo perché se un lavoratore parziario equivale ad 1/2 o ad 1/3 di un lavoratore ordinario non può essere assimilato a questo nelle statistiche, ma anche perché negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine a chiamare i disoccupati con un altro nome (scoraggiati, inoccupati, inattivi, missing men)49; il fatto è che a fine 2011 l’inchiesta ILO – OCSE ha accertato che il tasso di attività mondiale è del 60% cioè le persone in età di lavoro che sono occupate sono solo 3 su 550. La verità è che nel mondo, a cominciare dai paesi ricchi, la forza lavoro in maggioranza è formata da disoccupati, scoraggiati, inattivi, sottoccupati o sottosalariati.
Perché questo? Il perché, e lo scrivo da quasi 35 anni, sta nel carattere sempre più capital intensive e labour saving della produzione capitalistica. Di recente l’istituto Bruegel ha evidenziato che nei prossimi anni la diffusione della tecnologia metterà a rischio il 47% dei posti di lavoro in USA e ancor più in Europa (51% Germania, 56% Italia, 62% Romania)51. Ora nel dettaglio queste cifre possono essere discusse ma il trend in atto pare essere inconfutabile tranne che per gli struzzi che preferiscono guardare altrove. In USA nel settore manifatturiero, cresce la produzione e la produttività negli ultimi anni ma in compenso saltano 5 milioni di posti di lavoro, quasi 1/3 del totale52; sempre in USA nell’high tech dal 1970 ad oggi la produttività è cresciuta enormemente i posti di lavoro si sono dimezzati53: niente di nuovo già negli anni ’80 (quando internet muoveva i primi passi) era possibile raddoppiare la produzione ogni 5 anni, nei settori avanzati dell’economia, mantenendo stagnante o addirittura riducendo l’occupazione54. A tal proposito fu emblematico il piano ventennale giapponese 1966-85 che prevedeva un incremento del PIL di 5 volte nel corso del ventennio, ipotesi poi abbandonata perché troppo pessimistica, nella seconda versione il PIL doveva crescere di 9 volte (il 900%); ebbene nella prima ipotesi l’occupazione avrebbe dovuto crescere ad un ritmo pari ad 1/27 del PIL, nella seconda ipotesi di 1/35, concretamente + 4% di occupazione e + 108% di PIL (prima ipotesi), + 3% occupazione e + 105% PIL (seconda ipotesi)55. Pazzesco, peccato che la grave crisi del 1973-75 fece saltare tutto.
Non meraviglia, dunque, se di recente i fast food hanno ipotizzato la soppressione (non fisica beninteso) dei commessi, sostituiti da schermi cui il cliente con un tocco può richiedere il prodotto scelto che gli verrà recapitato in modo automatico56.
Un tempo la disoccupazione tecnologica57 trovava il suo sbocco nel terziario pubblico e privato, oggi non è più possibile perché il terziario privato tende ad automatizzarsi come l’industria, mentre il terziario pubblico è travolto dalla crisi fiscale dello Stato alimentato da una evasione incontenibile che impedisce ai governi di usare la PA come spugna della disoccupazione come è avvenuto in passato fino alla crisi del 1973-75.
Nè ciò basta: l’US Labour Statistic Boureau ha asserito qualche anno fa che le professioni del futuro in America sono badanti, baristi, collaboratori domestici, muratori e così via; in particolare l’economia USA nei prossimi anni assorbirà solo 300.000 ingegneri informatici contro 500.000 baristi58. In altre parole le università americane potranno sfornare anche un milione di informatici ad elevatissima preparazione che finiranno per la maggior parte a fare i commessi nei fast food o i disoccupati. Il problema non è nuovo è dagli anni ’80 che osservo come l’industria avanzata assorbe pochi tecnici e molti lavoratori con bassa qualifica59.
Tocchiamo qui quello che è il nodo centrale di tutte le contraddizioni del capitalismo: se la forza lavoro è utilizzata poco e male i salari saranno bassi, come denunciano OCSE, FMI e BRI che rilevano una perdita da 7 a 10 punti di PIL nei redditi da lavoro dipendente a partire dagli anni ’7060 fino all’inizio del nuovo millennio, in maniera pressoché ininterrotta; ciò determinerà il ristagno dei consumi , la debolezza dello sviluppo economico, l’indebitamento delle famiglie, il carattere inadeguato delle entrate fiscali etc, esattamente la realtà che stiamo vivendo. Ormai lo ammettono tutti: l’occupazione deve crescere assolutamente, ma nessuno sa come farla crescere.
D) Il problema delle riforme impossibili.
Davanti a questo quadro disastroso un coro di politici, economisti e giornalisti di servizio lancia la parola d’ordine delle riforme, occorre farle per uscire dalla crisi. In particolare ci vorrebbe più flessibilità sul mercato del lavoro, più liberalizzazioni e crescita della competitività. Tali proposte assai generiche le ho confutate qualche anno fa61, rilevando che la competitività nel capitalismo significhi crescita della produttività e quindi significhi produrre di più con meno addetti che è proprio il nodo scorsoio che soffoca il sistema, quanto alle liberalizzazioni farle in un sistema di mercato dominato da poche centinaia di colossi multinazionali in grado di ricattare gli Stati è pura utopia, a parte la considerazione che anche il capitalismo ottocentesco mirava a produrre di più con meno addetti62; la concorrenza, poi, non potrebbe che acuire queste tendenze che sono strutturali nel capitalismo e che sono il problema di oggi, poiché come dicevo i meccanismi di recupero della forza lavoro espulsa dalla tecnologia non operano più.
Di recente, però, si è aggiunta un’altra voce al capitolo “riforme” quella della riforma fiscale: si dice, infatti, che il peso delle tasse è elevato e soffoca impresa e lavoro (investimenti e consumi) per cui occorrerebbe ridurle. Si dà il caso però che l’evasione fiscale da parte dei redditi di capitale sia enorme63 e le imprese hanno ottenuto notevoli sgravi negli ultimi decenni come osserva il commissario europeo Monti. Inoltre nella classifica sui primi 26 paesi per pressione fiscale redatta dall’”Economist” non figurano né il Giappone né gli USA (anno 2011) e la situazione economica di quei paesi non è certo brillante, il Giappone oscilla tra ristagno e recessione e gli USA hanno una crescita modestissima ed oscillante fondata su una montagna di debiti. Ancora Spagna e Grecia hanno una pressione fiscale pari al 31,6% e al 31,2% del PIL, ma non reggono la crisi come la Svezia (44,5% del PIL) o la Norvegia (43,2% del PIL); del resto la tassazione sui redditi alti raggiunse in USA il 91% nel 1957 e l’America allora correva, oggi siamo a poco più del 40% e l’America è ferma ed annega nei debiti. Con ciò vogliamo dire che la politica fiscale è solo un momento della politica economica più generale: le tasse riscosse possono tradursi in sostengo ai consumi (welfare) ed in commesse alle industrie sostenendo l’economia e gli investimenti; la politica fiscale in sé non è decisiva, intesa come mero volume delle imposte sul PIL, come è evidente dagli esempi fatti, ciò che è fondamentale non è solo il volume del peso fiscale ma soprattutto come esso viene usato. Ci vuole, in altre parole, una politica globale che non si vede quale possa essere in questo sistema e nell’attuale fase di depressione che sta vivendo.
Del tutto opposto in materia fiscale è il riformismo proposto da Piketty, che riprendendo implicitamente Keynes, propone di tassare per ridistribuire istituendo una tassazione sul capitale64. Tale ipotesi è impraticabile a livello mondiale per la mancanza di un potere ad hoc, ma sarebbe comunque bene incominciare a discuterne, per l’intanto potrebbe farsi a livello europeo65.
Il fatto è che anche a livello europeo manca un potere in grado di realizzare l’idea di Piketty ed i singoli paesi europei sono in concorrenza feroce tra loro per aggiudicarsi gli investimenti delle IM; Francia, UK, Spagna ospitano sul loro territorio paradisi fiscali, l’Irlanda e il Lussemburgo sono paradisi fiscali etc. Si potrebbe obiettare che, di recente, il G 20 australiano dei ministri finanziari ha accettato il principio sostenuto dall’OCSE, che le tasse si paghino dove si svolge l’attività e non dove si metta la sede per meri fini fiscali, inoltre un numero rilevante di paesi ha deciso di cooperare ad uno scambio di informazioni fiscali a partire del 2017.
Chi, come me, si occupa da quasi 40 anni del problema, sorride, in questo lungo periodo più volte (anche in data recente), si sono evocate crociate finali contro l’evasione fiscale che si sono concluse in un flop, e questo sarà un ennesimo flop. Il perché risulta evidente già dalla data di partenza della nuova collaborazione, il 2017: la situazione dei bilanci statali è talmente positiva per cui possiamo attendere altri due anni per iniziare la lotta all’evasione fiscale, l’unica cosa che accomuna questi governi è la voglia di rimandare il problema. Inoltre se molti paesi decidono che intendono collaborare, altri non sottoscrivono gli accordi proposti ed è bene ricordare che uno dei più famosi paradisi fiscali, il piccolo Stato USA del Deleware gode di una sostanziale autonomia in campo fiscale garantita dalla costituzione americana che nessuno ha osato scalfire, ed è dubbio che questo possa accadere ora in una situazione di debolezza dei governi centrali, sempre più condizionati dal fatto che se i mercati non sottoscrivono i bonds salta tutto66. Del resto, come disse qualche anno fa un dirigente bancario svizzero pentito (Hervé Falciani), il volume dei movimenti del capitale è enorme, ogni giorno si fanno milioni di operazioni e di trasferimenti premendo un bottone, per intervenire e richiedere informazioni devi sapere cosa cerchi in anticipo e ciò avviene solo se le autorità finanziarie hanno ottenuto una soffiata altrimenti tutto avverrà alle loro spalle67. Non occorre, poi, alcun scambio di informazioni per sapere che le IM mettono le loro sedi dove si pagano meno tasse, è cosa che si sa da tempo con casi clamorosi denunciati dalla stampa che non hanno avuto seguito alcuno.
Chiedere a questi governi subalterni alle IM di diventare paladini della lotta all’evasione è come chiedere ad un cannibale di diventare vegano68.
E) Un problema inventato: la deflazione.
Un nuovo spettro o mostro si aggira per il mondo: la deflazione, che minaccia l’economia e che mina alla base una ripresa fragile ed insufficiente. Eppure il fatto che i prezzi possano flettere era visto da Draghi come un aiuto all’economia, perché prezzi in ribasso possono sostenere consumi troppo stagnanti69; qualche mese dopo, tuttavia, Draghi si converte alla tesi al pericolo deflazione70, anche se si precisa che il problema non è tanto la deflazione ma una bassa inflazione, di cui si auspica una crescita attorno al 2%. La tabella n. 3 è chiara: i prezzi crescono come tendenza mondiale in modo indubbio e i segni meno sono un’eccezione assoluta, e anche quando ci sono potrebbero nascondere l’inflazione. Qualche decennio fa un economista liberale francese evidenziò, in una ricerca pregevole, che vi può essere inflazione anche quando i prezzi sono rigidi (non calano o calano poco) e potrebbero ridursi notevolmente71. Si pensi all’Italia: da noi ad agosto e settembre 2014 i prezzi flettono dello 0,1% su base annua, non accadeva dal 1959. Ora, però, i prezzi sono stabilmente saliti in Italia da allora e questo è avvenuto anche negli ultimi anni in una situazione di calo permanente dei consumi: in una economia concorrenziale e ottocentesca avremmo dovuto avere una drastica flessione e la lieve limatura della tarda estate 2014 non cambia questo quadro, da noi i prezzi, ragionando in termini ottocenteschi, sono eccezionalmente elevati.
Non si vede, inoltre, perché, quando il prezzo di barile di petrolio era a 100 dollari e cresceva ad ogni minimo accenno di ripresa, ci si dovesse preoccupare perché questa crescita stroncava la ripresa, ed adesso dovremmo preoccuparci perché staziona su 80-82 dollari al barile (ottobre 2014), non vedo molta coerenza in un simile atteggiamento: la spiegazione logica (si fa per dire) di questa posizione è che i consumatori, sapendo che i prezzi scenderanno, rinviano gli acquisti in attesa della discesa e questo renderebbe i consumi ancor più asfittici. Si potrebbe obiettare che il consumatore, reduce da decenni di inflazione stabile e consolidata, potrebbe precipitarsi ad acquistare (qualora i prezzi scendessero) sapendo che il calo è un fenomeno eccezionale e non duraturo. Naturalmente questa ipotesi come quella criticata, è un’ipotesi sulla psicologia del consumatore, ma sta di fatto che il consumatore spende poco sia quando i prezzi crescono, sia quando , eccezionalmente, calano sia pure di poco, come è accaduto nei rari casi in cui la tabella n. 3 segnala un segno meno. Il perché ciò avvenga è molto semplice, nelle tasche dei consumatori ci sono pochi soldi e molti debiti, per cui comunque è difficile fare la spesa.
Inoltre da un punto di vista storico la tesi in questione (la deflazione blocca l’economia) contrasta con lo sviluppo del capitalismo: il XIX secolo, osserva Landes, è stato un secolo deflattivo72, ed il capitalismo in esso si è sviluppato. In particolare negli USA facendo base 100 i prezzi del 1823 si è a 75 nel 1848, a 134 nel 1875 e a 74 nel 1898; poi fatta base 100 i prezzi di quell’anno siamo a 208 nel 1923, a 331 nel 1948, a 530 nel 197373. Il capitalismo americano si sviluppa sia con la deflazione che con l’inflazione ed è proprio nel XIX che gli USA superano l’Inghilterra e diventano il n. 1 dell’economia mondiale.
La deflazione, dunque, è un falso problema, ma perché viene agitato? I motivi, a mio avviso, sono due: il primo, ammesso a mezza bocca, è che l’inflazione riduce il peso reale del debito pubblico, se i prezzi crescono attorno al 2% l’anno al momento del rimborso un’obbligazione trentennale costerà al governo in termini reali molto meno della sua emissione. Verissimo, epperò l’inflazione potrebbe far aumentare l’attesa dei mercati per tassi più alti: se l’inflazione sale , salgono pure i tassi di interesse delle nuove emissioni e questo per i governi è un pessimo affare per cui essi arriverebbero al rimborso dei bonds di lungo periodo letteralmente dissanguati. Un altro motivo non detto è quello di lasciare alle imprese un mezzo per recuperare i costi di una situazione bloccata dove i consumi ristagnano e il capitale investito non è adeguatamente utilizzato, il che implica perdite enormi74. Ora il capitale può recuperare i costi e le perdite in vario modo: può aumentare la produttività del lavoro, ma questo significa licenziamenti o quanto meno blocco del turn over75 con i costi economici e sociali conseguenti; le imprese inoltre possono aumentare le loro pressioni sui governi per ottenere ulteriori agevolazioni fiscali ma la situazione dei bilanci pubblici è disastrosa.
La soluzione, dunque, potrebbe essere quella di permettere alle imprese di usare il vecchio collaudato mezzo del recupero attraverso la crescita dei prezzi, ciò che deprimerebbe consumi già poco dinamici ed esporrebbe a rischio di un aumento dei tassi di interesse sulle nuove emissioni del debito pubblico. Più che una soluzione, un disastro, espressione di quanto siano ormai incontrollabili le contraddizioni del capitale e di come le ricette siano finite.
Le vie del signore sono infinite, ha detto qualcuno, le soluzioni economiche non lo sono.
2) Gli USA: un’economia “forte” che affonda tra debiti, disoccupati, sottoccupati, inattivi e scoraggiati.
L’andamento del PIL in USA a partire dal 2008 (anno di inizio della crisi) è questo, confrontato con la media dei periodi precedenti.
Tabella n. 5: PIL USA dal 199076
Anni | Crescita % PIL |
---|---|
1990-98 (media) | 3,2% |
1992-2002 “ | 3,3% |
2002-2007 “ | 2,9% |
2005-2010 “ | 0,7% |
2006-2011 “ | 0,5% |
2008 | -0,3% |
2009 | -3,1% |
2010 | 2,4% |
2011 | 1,8% |
2012 | 2,8% |
2013 | 1,9% |
2014 (I trim.) | -2,1% |
2014 (II trim.) | 4,6% |
Come si vede nel periodo 2008-13 la crescita del PIL è stata attorno al 5,5% in totale, nettamente al di sotto dei periodi precedenti, meno dell’1% l’anno, se si realizzerà una discreta performance nel 2014 potremo arrivare ad 1,1% per il periodo 2008-2014, il tutto pagato con una crescita spaventosa del debito pubblico e di quello globale77, e con un costo del debito pubblico che nel 2013 ha doppiatola percentuale di crescita del PIL 3,8% contro 1,9%. È evidente che se gli USA avessero perseguito la politica di Hoover del 1929 (chiudere i cordoni della borsa e aspettare la ripresa dell’economia) sarebbe crollato tutto. È evidente, altresì, che se gli USA fossero un’impresa sarebbero fallita da tempo, perché la dinamica del debito e dei suoi costi è un mare in tempesta e la crescita del PIL un fiumiciattolo. Si è osservato, inoltre, che assai spesso la crescita del PIL non è dovuta alla crescita dei consumi, ma al rinnovo delle scorte da parte delle imprese78, che una volta espletato lascia l’economia in uno stato di languore, come dicono i francesi, per cui si nota spesso un andamento a dente di sega o a sbalzi dell’economia americana, cosa evidente anche nel 2014. Osserva a tal proposito Stephen Roach che ci vuole ben altro di due buoni trimestri consecutivi per riassettare l’economia USA nella quale i consumi sono scarsamente dinamici, e per sostenerli si deve erodere il risparmio precedente ed indebitarsi pesantemente: nel 2013 il debito del consumatore è stato inferiore di 10 punti rispetto al livello del 2007 (segno che ormai è difficile anche indebitarsi) ma superiore di 35 punti alla media degli ultimi decenni, assestandosi al 109% del PIL79. Si consuma poco rosicchiando i risparmi ed indebitandosi. Il motivo per cui questo avviene è presto detto: i salari sono bassi ed in caduta libera da decenni80. Il tentativo di Obama di ottenere un salario minimo per le imprese che lavorano per conto dell’amministrazione federale è fallito per l’opposizione del Congresso condizionato dai repubblicani, la cui forza e aggressività è uscita rafforzata dalle ultime elezioni di medio termine che ha dato ad essi anche il controllo della camera alta. Nel frattempo circa 50 milioni di americani vivono con i buoni pasto del governo (ben 4,45 dollari al giorno) e decine di milioni di americani negli ultimi anni vivono in coabitazione.
Tocchiamo qui il vero punto dolente dell’economia americana (e mondiale) la disoccupazione che calmiera i salari verso il basso e azzera o quasi il potere dei sindacati. Più volte negli ultimi anni sia la Fed che la Yellen hanno ammonito sul fatto che la disoccupazione reale non è quella delle statistiche81, scrive in proposito Marcello De Cecco: “Il mercato del lavoro USA si è ristretto per l’uscita di milioni di disoccupati che hanno smesso di cercare lavoro mentre altri milioni lo cercano senza trovarlo. La disoccupazione di lungo periodo ed i lavori precari e mal pagati sono aumentati anche durante la ripresa”82.
Ma le statistiche USA macinano successi dopo successi e a settembre la disoccupazione ufficiale cala al 5,9%, ma osserva Massimo Gaggi:
“… il calo della disoccupazione arriva in un contesto di ridotta partecipazione degli americani al mondo del lavoro. I cittadini attivi sono scesi ulteriormente al 62,7% (lo 0,1% in meno rispetto al mese precedente), rispetto al 66-67% del periodo precrisi. Non solo: i nuovi impieghi oltre ad essere mediamente meno remunerativi di quelli che sono stati soppressi, spesso sono anche a tempo parziale. Il tasso di disoccupazione allargando, quello che comprende anche i lavoratori che hanno accettato un lavoro part-time ma ne cercano uno a tempo pieno, è molto più alto anche se qui si registra un miglioramento, l’11,8% contro il 12% di agosto”83.
Ora è bene dire che nel biennio 2012-13 in media sono stati creati 182-183mila posti di lavoro al mese, oltre 4 milioni in due anni84. Molti si dirà , ma riandando ai miei vecchi lavori scopro che nel febbraio 2005 sono stati creati in USA 260.000 nuovi posti di lavoro e la disoccupazione è cresciuta dello 0,2%85; in altre parole in un paese enorme come gli USA, con un incremento della popolazione vicino all’1% annuo e con la conseguente crescita della forza lavoro, non bastano neanche 200.000 posti di lavoro mensili perché la disoccupazione si riduca. Il calo, dunque, è un mero giochetto statistico: la disoccupazione cala perché si riducono gli americani che cercano lavoro, molti disoccupati si ritirano dal mercato del lavoro e non cercano più un’occupazione, sicché la disoccupazione si riduce non perché i disoccupati siano assorbiti ma perché gettano la spugna. Il tasso di partecipazione degli americani al mercato del lavoro è ai minimi negli ultimi trent’anni ed è il 62,7% cifra che indica le persone che sono attive ed hanno un lavoro ed i disoccupati che lo cercano attivamente, se togliamo a questa cifra i disoccupati attivi (che cioè cercano lavoro) i lavoratori occupati scendono a meno del 60% delle persone in età di lavoro. Gli scoraggiati sono una marea che quasi raddoppia il dato ufficiale della disoccupazione86; a metà 2010 la disoccupazione cala ma solo perché si sono ritirati dal mercato del lavoro 652.000 americani, a gennaio 2011 la disoccupazione cala rispetto a dicembre 2013 al 9% dal 9,4% questo perché i disoccupati si riducono di 600.000 unità a fronte della creazione di soli 36.000 posti di lavoro87, un risultato così non lo avrebbe mai ottenuto nemmeno il celebre personaggio di Eduardo De Filippo “Sik Sik l’artefice magico”; infatti eliminare 600.000 disoccupati con soli 36.000 nuovi posti di lavoro è impresa da Sik Sik. La disoccupazione è enorme ma anche la sottoccupazione non è da meno: il Nobel Krugman la stima al 40% degli occupati88; implicitamente il Dipartimento del lavoro americano gli dà ragione riferendo che la durata della settimana lavorativa in USA nel 2013 supera di poco in media le 34 ore89; ciò significa che moltissimi lavoratori sono parziari, infatti in USA si può lavorare normalmente 44 ore (limite stabilito negli anni ’30), come del resto negli altri paesi di capitalismo avanzato, 34 ore medie significa un utilizzo della forza lavoro al 78% delle proprie capacità, una sottoutilizzazione enorme. Naturalmente questo non basta per gli struzzi che esistono e incredibilmente voltano lo sguardo dall’altra parte: così di recente un signore ha osservato, su un grande quotidiano italiano, che la situazione occupazionale in USA è rosea in quanto nel periodo 2004-2013 l’occupazione non agricola passa da 132,6 milioni a 137,4 milioni90 a riprova che i posti distrutti in un settore sono stati recuperati in altri settori. Se questo è vero sono stati creati in 9 anni 4,8 milioni di nuovi posti di lavoro e cioè 45.000 al mese una cifra che, per un colosso come l’America, con la sua dinamica demografica, è del tutto irrisoria, una tale cifra sarebbe in grado di assorbire solo una piccola minoranza delle nuove leve che si presentano sul mercato del lavoro (ma abbiamo visto che non lo fanno più perché sarebbe tempo perso). Tutto questo indipendentemente dalle considerazioni fatte sull’espansione violenta del lavoro parziario, precario e sottopagato.
Il quadro complessivo dell’economia USA non è per nulla esaltante e ciò spiega l’interesse di Obama per il trattato per la liberalizzazione del commercio con l’Europa che dovrebbe, secondo calcoli correnti, giovare al PIL USA per uno 0,31,3% a partire dal 2018 mentre per l’Europa il beneficio calcolato sarebbe dello 0,5-0,7%91.
Le cose non vanno bene e si punta al vecchio cavallo di battaglia delle liberalizzazioni da cui però si attendono vantaggi da decimale di punto e tutti da dimostrare, troppe volte in passato ci si attendeva miracoli che non sono venuti e l’esperienza della UE è sotto gli occhi di tutti, le merci circolano molto più liberalmente del passato e l’economia è a terra. Le liberalizzazioni degli scambi commerciali non producono automaticamente nuovi posti di lavoro, anzi la caduta delle barriere doganali (dirette o indirette), avvantaggerà presumibilmente le imprese più forti e cioè più capital intensive, il che, con la situazione occupazionale sopra descritta non sarebbe un grande risultato. Il Congresso, peraltro, non ha dato ancora via libera ad Obama convertito al liberismo commerciale ed uscito ancor più azzoppato dalle elezioni di medio termine.
3) Europa. Sempre più in un vicolo cieco tra impotenza e ricette fallimentari.
La situazione dell’Europa si può evincere da quanto scritto in precedenza: PIL quasi fermo ai livelli del 2008 (in alcuni paesi al di sotto), consumi bloccati, debito pubblico (e non solo) alle stelle con i costi del servizio del debito nettamente superiori agli incrementi asfittici del PIL, non a caso l’OCSE di recente ha espresso il timore di una stagnazione secolare per UE e Giappone. Non meno pesante è la situazione occupazionale: a settembre 2014 l’Eurostat certifica una disoccupazione all’11,5% (12% settembre 2013) che nella UE a 28 è al 10,1% (10,8 % nel settembre 2013) una lieve limatura sui livelli dell’anno precedente in un quadro comunque molto grave; anche qui, poi, occorre considerare che la disoccupazione reale è ben più elevata, basti pensare che gli 8 milioni di mini-jobbers tedeschi che solo con un notevole sforzo di fantasia possono essere considerati occupati.
In questo contesto si collocano le elezioni europee che vedono la sconfitta delle forze favorevoli all’austerità: in Germania la Merkel ottiene il peggior risultato della propria carriera politica e le forze che criticano l’austerità (socialdemocratici, verdi, Linke) ottengono nel complesso il 44-45% dei voti espressi, una larga maggioranza relativa del paese; in Francia ed Inghilterra sfondano le forze decisamente anti-europee, in Italia avanza la Lega, si riconferma la forza del movimento 5 stelle e il PD, critico nei confronti della Merkel, supera il 40% dei voti (dato comunque assai meno trionfalistico di quanto si dica per la scarsa affluenza dell’elettorato).
La nuova Commissione europea è un compromesso tra austeri e sviluppisti, ma quando la Francia afferma che non rispetterà i limite del 3% nel rapporto deficit-PIL, sarà il francese Moscovici (nuovo Commissario europeo) a richiamare all’ordine il suo stesso paese, egli che un tempo era contro l’austerità. La verità è che nella nuova commissione e nel nuovo Parlamento europeo coabitano, assediati da crescenti forze eurocritiche o euroscettiche, gli esponenti di due politiche fallite: quella austera che pensa ai conti e non all’economia che affonda (riedizione di Hoover 1929) e quella che vorrebbe spendere di più senza indicare però come tradurre gli investimenti da fare in deficit in nuovi posti di lavoro. Il nodo per entrambe le politiche è sconfiggere le tendenze labour saving del capitalismo, cosa che è semplicemente impossibile: se un AD dicesse ai suoi azionisti che i licenziamenti tecnologici sono un disastro perché in prospettiva porteranno una crisi, sarebbe licenziato in tronco poiché se l’azienda (quali che siano le sue dimensioni) non si liberasse dei lavoratori esuberanti vedrebbe salire i suoi costi con le conseguenze inimmaginabili (fallimento o acquisizione da parte dei concorrenti). In questo sistema concorrenziale non esiste altro criterio di successo se non il profitto aziendale e per fare profitti devi produrre di più con meno addetti con le conseguenze che si vedono, dal momento che i meccanismi di riassorbimento della forza lavoro in esubero si sono completamente usurati negli ultimi decenni.
Sperare che con qualche investimento in più riparta l’economia è una pia illusione, se gli investimenti sono fatti con la logica labour saving, che è naturale nel capitalismo, non si ripartirà ma si andrà verso il baratro (anzi nel baratro già ci siamo).
Così si ipotizzano 300 miliardi di investimenti a livello europeo nei prossimi anni che solo in parte verranno dal bilancio della UE, che copre appena l’1% del PIL europeo92, tanto è vero che a settembre sono finiti i soldi del bilancio anche per pagare le borse Erasmus (e non è la prima volta). I 300 miliardi in questione verranno in larga misura da banche e privati, la UE in altre parole fa assegnamento sui soldi degli altri piuttosto che sui propri, ma ammesso che gli altri rispondano positivamente all’appello della UE ci sono due tipi di limiti l’uno quantitativo e l’altro qualitativo. Dal punto di vista quantitativo 300 miliardi spalmati su vari anni ed in 28 paesi sono pochissima cosa: l’Italia nel 2011 ha investito il 20% del proprio PIL (316 miliardi di euro più o meno); la cifra in questione è quanto mai misera, più rilevante è la cifra messa a disposizione dalla BCE alle banche perché finanziano famiglie e imprese: 1000 miliardi al tasso dell’1%.
È accaduto tuttavia, che malgrado il bassissimo tasso di interesse richiesto la prima tranche di 150 miliardi è stata sottoscritta per poco più di 82 miliardi, un flop evidentissimo. Ciò perché, si nota da varie parti, l’economia non è in grado di assorbire positivamente questa iniezione di liquidità , le banche , infatti, non sono enti di beneficenza ma devono prestare i capitali di cui dispongono a clienti, siano essi imprese o famiglie, che siano solvibili; ora le famiglie sono indebitate e le imprese sono in gravi difficoltà, per cui prestare soldi a pioggia o con bassissime garanzie sarebbe assurdo, chi oggi rimprovera alle banche di essere poco coraggiose ieri criticava le banche americane ed inglesi perché prestavano soldi con bassissime garanzie favorendo la crescita di una bolla speculativa che poi è scoppiata. In altre parole occorre che prima l’economia riparta e poi sarà possibile per questa di riassorbire i capitali disponibili.
Davanti a questa situazione disastrosa si reagisce inventandosi miracoli e riprese che non ci sono: così si dice che la Spagna è ripartita perché nei primi due trimestri del 2014 il Pil è cresciuto di qualche decimale (ma siamo lontanissimi dal 2008) mentre la disoccupazione, su base annua, cala di circa 1 punto dal 25% al 24% a metà anno. Da ridere.
Lo stesso per l’Inghilterra che nel 2014 crescerà di un 3% o poco più, peccato che nel 2013 quel paese, come si è visto, era solo a 100,2 rispetto alla base di partenza del 2008, un ribalzino nel ristagno; quanto all’OCSE segnala che la disoccupazione inglese di lungo periodo permane elevata ed il calo dei livelli di disoccupazione è dovuto essenzialmente all’aumento dei lavoratori parziari93. Inoltre nel linguaggio comune sorge una nuova parola “boomeranger” che si riferisce ai giovani che dopo aver lasciato la casa dei genitori per cercare lavoro tornano indietro perché il lavoro non l’hanno trovato, e sarebbero alcuni milioni; ovviamente il solito imbecille di passaggio dirà che si tratta di mammoni o di schizzinosi.
Rimane ovviamente la grande Germania che, però, non ha avuto dal 2008 una crescita degna di questo nome e a metà del 2014 rallenta ulteriormente: ad agosto gli ordini dell’industria tedesca calano del 5,7% su luglio, il più forte calo dall’agosto 2009 (anno nero), nello stesso mese l’export cala del 5,8% su base annua anche qui il dato più basso dal 200994. Il governo tedesco abbassa le previsioni di sviluppo per il 2014 all’1,2% meno di quanto stimato da OCSE ed FMI.
La verità è che l’Europa annaspa o affonda (a seconda dei paesi) e naturalmente quando questo accade si cerca il capro espiatorio e quindi si accusa l’Italia di essere responsabile del 50% della corruzione che avvelena il continente95. Ora quando si raccontano balle occorrerebbe ricordare quello che si è detto in precedenza ed a fine 2012 la Commissione europea pubblica una valutazione del peso della corruzione (in percentuale del PIL) nei 4 grandi paesi dell’Eurozona e (udite udite!) noi siamo all’ultimo posto con un peso della corruzione pari al 4,1% del nostro PIL (appunto 60 miliardi) ma la Spagna è al 5% , la Francia al 5,6% e la Germania al 5,9%96. Noi facciamo la nostra bella figura ma gli altri ci battono; lo stesso discorso vale per l’evasione fiscale che secondo valutazioni elastiche oscilla da noi tra i 120, i 180 e i 250 miliardi annui di tasse evase97, in Europa però il volume globale delle tasse evase ogni anno si aggira sui 1000 miliardi di euro, cifra fornita dal Commissario Bailly e confermata dal presidente Barroso al cospetto del Parlamento europeo98. Esemplare è quello che è accaduto per la Tobin tax: noi l’abbiamo istituita ma è stato un flop nel senso che ne era esentato il 98% delle transazioni finanziarie99, un bell’esempio di arrendevolezza, ma gli altri non hanno fatto meglio di noi e spesso non ci hanno neanche provato. Sommersa da impotenza politica strutturale100, debiti, disoccupati, corruzione ed evasione fiscale, l’Europa sta morendo101, sia chiaro però che l’Europa non muore perché sono arrivati Farage e la signora Le Pen, al contrario siccome l’Europa sta morendo arrivano Farage e Le Pen.
1 Questo lavoro riprende i temi sulla crisi del capitalismo che tratto da circa 40 anni. Tra i miei lavori più recenti, cui questo si ricollega, cito: A. CARLO, Capitalismo 2008: nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it, 2009; ID, Capitalismo 2009: la via verso il crollo, in www.countdown.info, 2010 e in www.sinistrainrete.info, 2010; ID, Capitalismo 2010, uomo morto che cammina, ivi, 2011; ID, Capitalismo 2011, decomposizione in atto, ivi, 2012 e in http://connessioni-connessioni.blogspot.it 2012; ID, La putrescenza del Capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo, pubblicato nei due ultimi siti prima indicati a fine 2012; ID, Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945-2013); b) la depressione mondiale e i funerali dell’autonomia del politico, in www.sinistrainrete.info, 2013.
2 Vedi in tal senso M. BALDASSARRI, in AA. VV., Uscire dalla crisi, riprendere la crescita.Come? Quando?, Ed. “Il Sole 24 ore”, 2013, pp. 15 e sgg, a p. 26 tabella sull’andamento del PIL mondiale.
3 Vedi TH. PIKETTY, Il capitalismo nel XXI secolo, Bompiami, Milano, 2014, pp. 152 e sgg.
4 Su ciò v. A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, III edizione, 2011 (prima edizione 1980), pp. 85 e sgg.
5 Sono queste le cifre correnti e si ritiene anche che siano sottostimate, poiché nei paesi poveri la registrazione dei nuovi nati viene realizzata con anni di ritardo, sicchè si pensa che in quei paesi la popolazione è sottostimata di un 5-10%; c’è poi, il caso della Cina dove la famigerata legge sul figlio unico ha portato all’occultamento di 200 milioni di persone (si stima) nelle campagne cinesi.
6 Vedi il lavoro citato alla nota 4.
7 Fonte nostre elaborazioni su dati “Economist”
8 Il fenomeno dura dall’inizio della crisi, v. i lavori citati alla nota 1.
9 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 4; ID, Anatomia cit., par. 8.
10 Ibidem.
11 Vedi G. SARCINA, Ripresa lenta ma solo l’Italia non dimentica la Grande Crisi, ne“Il Corriere della Sera”, 27/7/14, p. 4, dove si riprendono i dati diffusi dall’Agenzia “Thomson Reuters”, dati basati su quelli ufficiali diffusi dai singoli governi; anche chi scrive aveva elaborato una tabella sugli USA (v. infra par. 2) che arrivava a conclusioni simili in base ai dati del Dipartimento del Commercio USA.
12 Vedi A. ALESINA, F. GIAVAZZI, Una terapia coraggiosa, ne “Il Corriere della Sera”, 17/8/14, p. 1, che prendono come base 100 il secondo trimestre 2008 quando l’Europa è investita dalla crisi proveniente dagli USA.
13 Vedi D. MANCA, Non arrendetevi al mal di testa della depressione, ne “Il Corriere della Sera”,13/10/14, p. 1.
14 Vedi A. CARLO, La putrescenza, cit., par. 1, lett. B).
15 Vedi ad esempio J.P. FITOUSSI, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013, pp. 185-6.
16 E per ottenere questo risultato occorre indebitarsi a rotta di collo (v. infra nel testo).
17 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010, par. 1, lett. B).
18 Fonte Tesoro USA per il 2007 e la tabella che segue per il 2013.
19 La fonte della tabella che precede, redatta sulla base dei dati dei singoli governi, è una ricerca coordinata da Roberto Poli, per 9 anni ala presidenza dell’ENI, e pubblicata con tabelle di sintesi su uno dei più grandi quotidiani italiani, v. F. TAMBURRINO, Gli interessi record del debito. Spesi sinora 1650 miliardi, ne “Il Corriere della Sera”, 4/8/14, pp. 2 e 3. Una lieve differenza con dati da me forniti nelle mie precedenti ricerche c’è per il Giappone, che nel 2013, secondo altre fonti, era già al 240% contro il 224,6% stimato da Poli, ma si tratta di lievi divergenze dovute alla valutazione nel perimetro del debito pubblico e delle somme in esse incluse, cosa pochissimo rilevante dato il livello comunque abnorme delle cifre in questione.
20 Ibidem.
21 Vedi A. CARLO, Il leviatano morente, Liguori, Napoli, III edizione 2001 (prima edizione 1981), p. 82 dove cito il dibattito teorico tra gli economisti negli anni ’30.
22 Vedi C.H. LEVINSON, Capitale, inflazione ed imprese multinazionali, Etas Kompass, Milano, 1973, p. 61 ove riportata la dichiarazione di Carli che rilevava, altresì, come le banche di emissione erano del tutto prive di strumenti per contrastare il fenomeno.
23 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 70-71 nota 238.
24 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1, tabella n. 2.
25 Vedi M. SABELLA, Pechino, scala la classifica del debito, raggiunti gli USA, ne“Il Corriere della Sera”, 22/7/14, p. 7.
26 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 3, tabella n. 2.
27 Vedi infra par. 5 e A. CARLO, La putrescenza cit. par. 4, ID., Anatomia cit.,par. 8.
28 Vedi infra, par. 3 e 4, ma nei lavori citati nella nota 1 ho fornito una mole enorme di dati sul problema.
29 Vedi A. CARLO,La putrescenza cit. par. 2.
30 In pratica si scommette sul rialzo o sul ribasso sul prezzo del barile di petrolio e del sacco di grano a 2,3 o 6 mesi. L’equivalente di una puntata di corsa di cavalli ed in borsa come all’ippodromo, c’è chi cerca di truccare la competizione.
31 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 1 lett. B).
32 Ivi, par. 11.
33 Vedi TELEVIDEO RAI, 27/1/14, p. 131.
34 Vedi R. SORRENTINO, La ripresa debole non farà calare la disoccupazione, ne “Il Sole 24 ore”, 21/1/14, p. 15.
35 Su ciò v. A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, in www.crisieconfilitti.it, 2005-2006, par. 4.
36 Fonte“Economist”.
37 Con la matematica composta qualunque base a tasso di crescita del 2,5% l’anno raddoppia dopo 29 anni e 4 mesi. In altre parole se il primo anno (quello base) si passa da 100 a 102,5, il secondoanno l’aumento si commisurerà su 102,5 e così via.
38 Vedi F. RAMPINI, Il secolo cinese, Mondadori, Milano, IV ed., 2005, pp. 201 e sgg.; ID, L’impero di Cindia, Mondadori, Milano, III ed. , 2006, pp. 128-52. In Cina nel 2011 si sono venduti 13 milioni di auto e 490 milioni di biciclette (v. A. CARLO, La putrescenza cit., par. 1, lett. B), il che significa che per la grande massa dei consumatori cinesi (operai e contadini) il sogno non è neanche la moto ma la bicicletta, mentre c’è una minoranza della popolazione del 10% o poco più che iperconsuma.
39 Vedi G. SANT. , La Cina affronta la nuova frenata ed il partito torna sotto pressione, ne“Il Corriere della Sera”, 22/10/14 , p. 15.
40 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p.. 188-89.
41 Vedi L. REICHLIN, L’epoca buia dei mezzi lavori, ne “Il Corriere della Sera”,24/8/14, pp. 1 e 33, che nota la crescita a livello europeo della sottoccupazione e la riduzione del tasso di partecipazione al mercato del lavoro (gli scoraggiati che si ritirano da esso). Altro che ripresina, sia pure fragile, viviamo in un’epoca buia e questo detto da una tecnocrate dell’Eurotower è molto significativo.
42 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
43 Vedi infra par. 4.
44 Vedi, L’eccezione tedesca?, in “Aspenia”, n. 62, 2013, p. 6 (editoriale) dove si rivela che dal 2005 grazie alle riforme di Shoroeder il 22,5% dei lavoratori tedeschi è scarsamente retribuito (notoriamente con 450 euro mensili). La cosa incredibile è che questo numero della rivista esalta il pragmatismo del modello tedesco. Né questi sono gli unici casi di lavori parziari o precari in Germania: in una delle sue celebri inchieste GUENTER WALRAFF (Germania anni ’10, ed. L’orma, Roma, 2013) ha documentato l’inferno del sottolavoro nella Germani degli anni ’10 del XXI sec. La cosa però non è nuova in una sua precedente inchiesta risalente agli anni ’80 Walraff aveva denunciato la piaga del lavoro spazzatura soprattutto a danno degli immigrati (v. G. WALRAFF, Faccia da turco, Pironti, Napoli, 2001). Nel primo di questi due lavori citati Walraff accenna al fatto che una grande impresa, che risente molto di fattori stagionali, lascia gli operai a casa senza stipendio nei periodi di stanca e nei periodi ad alta intensità li fa lavorare per 420 ore mensili (v. Germania cit. p. 17); nell’altro lavoro si parla di operai assunti per 15 giorni e che devono esporsi al rischio di contaminazione radioattiva, dopo 15 giorni, avendo raggiunto il massimo di contaminazione prevista, vengono licenziati perché sono diventati radioattivi (v. Faccia di turco cit. , p. 192 inchiesta risalente alla prima metà degli anni ’80).
45 Vedi Shock di Nestlè, addio ai dipendenti stabili in azienda, solo part-time, in “La Repubblica”,
9/4/14, p. 22
9/4/14, p. 22
46 Vedi H. J. SHERMAN, Stagflation , Harper & Row, New York, 1976, che riferisce il dato di 13,5 milioni di parziari su 92,5 milioni di occupati (il 14,6% nel 1975).
47 Vedi J. RIFKIN , La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano, V ed., 1995, pp. 309-12.
48 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 3.
49 Cosa che da anni sottolineo continuamente fin dai miei lavori negli anni ’80. L’inconsistenza delle statistiche in tema di lavoro si evidenzia con alcuni raffronti: in USA la disoccupazione al fine 2013 è di poco al di sotto del 7% ma il tasso di attività (persone in età di lavoro che effettivamente lavorano), è al 58,5%, in Spagna il tasso di attività è inferiore di circa 4 punti a quello americano ma la disoccupazione si aggira intorno al 25%: è evidente che in Spagna i disoccupati sono chiamati con il loro nome ed in USA sono occultati, come osservano vari studiosi da Krugman, a Phelps (altro Nobel), a Rifkin. Analogo discorso per il Giappone, dove la disoccupazione si aggira sul 4% ma il tasso di attività delle donne giapponesi è tra i più bassi al mondo, inferiore anche al nostro, che è sottomarino, evidentemente le donne giapponesi non sono disoccupate ma semplicemente “inattive” o “inoccupate”.
50 Vedi A. CARLO,La putrescenza cit. , par. 1, lett. A).
51 Vedi F. BASSO, Tecnologie“mangialavoro” i rischi maggiori nella periferia UE, ne “Il Corriere della Sera”, 19/8/14, p. 7, per quel che concerne in particolare l’automazione dei fast food, cui accenniamo nel testo, v. C. DE CESARE, il Big Mac si ordina sul touch screen, ne “Il Corriere della Sera”, 23/10/14, p. 39.
52 Vedi G. SACCO, La crisi e il mondo reale, in “Limes”, n. 2, 2012, pp. 39 e sgg. 46-47. Il quaderno di “Limes” si intitola ironicamente “A che serve la democrazia?”,domanda legittima davanti a dati come questo.
53 Vedi MCKINSEY GLOBAL INSTITUTE, Tecnologie dirompenti: l’automazione del lavoro, in“Aspenia”, n. 62, 2013, pp. 11 e sgg. a pp. 17 sgg.
54 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p. 170 e sgg., da allora (anni ’80), lo sviluppo tecnologico ha fatto passi da gigante.
55 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p. 62-63.
56 Vedi retro nota 51. Nei miei lavori citati alla nota 1 ed alla nota precedente, rilevo, altresì, che il fenomeno, nato nel settore manifatturiero, è emigrato nel terziario a gestione capitalistica.
57 Il fenomeno esisteva già nell’800 ed era segnalato da Marx nella sua opera massima quando evidenzia l’enorme aumento della produttività del lavoro nell’industria tessile inglese, che in un secolo aumentò di 200 volte cioè del 20.000%, creando moltissimi disoccupati, v. K. MARX, Il Capitale, I, Ed. Riuniti, Roma, 1964, pp. 434-5 e 473; lo stesso avviene in altri paesi come in Francia, scrive Latouche: “in Francia nell’arco di due secoli la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata individuale del lavoro si è ridotta della metà e l’occupazione è aumentato soltanto di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte”, v. S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Borenghieri, Torino, 2008, p. 85.
58 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 1 dove menziono le posizioni del prof. De Rita che invita i giovani a smetterla con l’università ed andare in fabbrica, posizioni assunte anche dal miliardario Bloomberg, già sindaco di New York, peccato che entrambi ignorino che le fabbriche licenziano e non assumono più.
59 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 170 e sgg. C’è una ristretta pattuglia di studiosi che dagli anni ’50 sostiene che lo sviluppo tecnologico comporta non una elevazione del lavoro ma una sua degradazione: cominciò negli anni ’50 Pollock, seguì negli anni ’70 Bravermann, poi negli anni ’80 comparve il mio lavoro citato ad inizio nota, negli anni ’90 comparve la ricerca del prof. Rifkin , ed infine a cavallo dei due millenni la ricerca del tedesco Beck. Amo chiamare questa pattuglia di cinque studiosi (di cui io sono il n. 3) come la banda dei 5 fessi che parlarono per decenni al deserto del tutto inascoltati, i saggi erano gli altri quelli che dalle cattedre diffondevano sciocchezze sul futuro di massa delle professioni tecnologiche. L’ufficio di statistiche del lavoro americano ci dà finalmente ragione, il futuro è dei baristi e delle badanti anche nei paesi più avanzati. È accaduto, per ironia della sorte, che il sistema ha realizzato il programma di un pensatore “sessantottino” come André Gorz il quale sosteneva che l’università andasse distrutta. In realtà è stato il sistema che l’ha distrutta poiché attualmente l’università non serve a niente , tranne un limitato numero di università quanto mai elitarie e costose che dovrebbero servire per l’addestramento di un numero di quadri minimo che serve al sistema.
60 Vedi A. CARLO,Capitalismo 2008 cit., par. 2.
61 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1.
62 Vedi retro nota 57.
63 Di ciò mi sono occupato varie volte negli ultimi anni (vedi lavori citati alla nota 1), con una mole di dati enorme che riguarda l’economia mondiale; per quel che concerne in particolare l’evasione e l’Italia v. infra par. 3 e 4.
64Vedi TH. PIKETTY, op. cit., pp. 814 e 837-38.
65 Ibidem.
66 Abbiamo visto che IM mettono in concorrenza tra loro gli Stati collocando gli investimenti dove il regime fiscale è più favorevole, ecco perché anche un grande paese come gli USA ospita sul proprio territorio paradisi fiscali come il Deleware, il Nevada o Portorico mentre la Francia e l’Inghilterra hanno le isole della Manica e territori d’oltremare, la Cina ha Hong Kong, Panama e i Caraibi gravitano nell’orbita USA (tranne le Antille francesi ed inglesi), Monaco è un protettorato di fatto francese, l’Andorra è un protettorato franco-spagnolo, etc..
67 Vedi A. CARLO,Capitalismo 2010 cit., par. 1.
68 Le sole riforme che potrebbero salvare il capitale sono entrambe impraticabili. La prima è la riforma del modello economico che non sia più labour saving, ma, come rilevo da anni e ribadirò da breve (v. infra par. 3), una simile riforma è irrealizzabile poiché il solo criterio di successo per le imprese capitalistiche (siano esse una IM o una PMI) è il profitto aziendale. Un amministratore che dicesse ai suoi azionisti che non è possibile ridurre la forza lavoro divenuta esuberante, pena una crisi futura, sarebbe cacciato a calci: se l’impresa non liquida gli esuberi l’investimento non produrrà profitti, i costi saliranno e l’impresa diventerà vulnerabile, fallirà o sarà scalata. La seconda riforma sarebbe la lotta all’evasione fiscale impraticabile per quanto detto.
69 Vedi E. POLIDORI, Draghi: “la domanda interna si rianima, i prezzi bassi aiutano la domanda”, in “La Repubblica”, 23/2/14, p. 9.
70 Vedi F. FUBINI,Deflazione, Draghi pronto alla svolta, in “La Repubblica”, 4/4/14, pp. 1 e 10.
71 Il lavoro cui alludo è opera di J. P. MOCKERS, , L’inflation en France 1945-75, Cujas, Paris, 1975, pp. 33-34.
72 Vedi D. S. LANDES, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 1978, pp. 304-305.
73 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 105-6 dove riprendo i dati di Magdoff; anche per la Francia J. P. MOCKERS, op. cit., p. 20, fornisce una tabella analoga. È inutile dire che dopo il 1973 la tendenza inflattiva continua ed anzi si accelera drammaticamente con la crisi del petrolio.
74 Vedi retro nel testo.
75 Non sempre le imprese ricorrono ai licenziamenti di massa, basta bloccare la sostituzione dei lavoratori che vanno in pensione o si dimettono, ed in modo strisciante e continuo si contrae l’occupazione.
76 Per i periodi di cui si indica la media la fonte è l’ “Economist” per gli anni e i trimestri la fonte è il Dipartimento del Commercio USA.
77 Sull’esplosione del debito globale nei paesi avanzati, v. A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1 , tabella n. 2.
78 Vedi S. ROACH, Per curare gli USA non bastano due trimestri, ne “Il Sole 24 ore”, 29/1/14, p. 9; G. FERRAINO, Yellen, Wall Street all’angolo con i banchieri centrali, il focus è la disoccupazione, ne “Il Corriere della Sera”, 17/8/14, p. 6 dove è riportata una dichiarazione in tal senso di Bob Rubin già ministro del tesoro con Clinton.
79 Vedi S. ROACH, op. cit.
80 La cosa è stata rilevata da più parti in particolare da studiosi come Rifkin e Krugman per ciò che attiene gli USA, ma come ho detto più volte la tendenza è generale negli ultimi decenni ed è stata documentata da OCSE, FMI e BRI.
81 Vedi l’articolo di G. Ferraino citato alla nota 78, dove è riportata una dichiarazione di Bob Rubin (ministro del tesoro sotto Clinton) rilasciata al “Corriere della Sera”,dove si dice testualmente “nessuno crede al dato ufficiale della disoccupazione” il tasso reale è “significativamente più alto di quello riportato” e ciò rende i salari stagnanti.
82 Vedi M. DE CECCO, Quel fantasma della deflazione, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 7/4/14, pp. 1 e 3.
83 Vedi M. GAGGI, Stati Uniti, disoccupati sotto il 6%. Mai così pochi dall’inizio della crisi, ne“Il Corriere della Sera”, 4/10/14, p. 17 come si vede il contenuto dell’articolo contrasta con il tono trionfalistico del titolo; in seguito, ad ottobre, ulteriore calo al 5,8% ma l quadro globale rimane lo stesso.
84 Fonte: Dipartimento del lavoro USA come per gli altri dati sul lavoro.
85 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit., par. 2.
86 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2.
87 Ibidem.
88 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 2, dove riferisco anche la stima di Krugman sulla disoccupazione reale comprensiva anche degli “scoraggiati”: 24 milioni.
89 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 8.
90 Vedi F. MORGANTI, Quanti profeti di sventura sul lavoro, una storia diversa dei dati americani, ne “Il Corriere della sera”, 24/7/14, p. 37.
91 Vedi D. TAINO, Obama e quell’idea di Nato economica per imbrigliare la Cina, ne “Il Corriere della Sera”, 23/7/14, p. 13. Nell’articolo si accenna al fatto che nei primi anni della sua gestione Obama non era minimamente interessato al problema del libero scambio atlantico.
92 Vedi L. BINI SMAGHI, Morire di austerità, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 21.
93 Vedi Études économiques de l’OCDE, Royaume-uni, OCDE, Paris, 2013, pp. 18 e sgg.
94 Fonte Ministero dell’economia e Ufficio federale tedesco di statistica.
95 Vedi L. MILELLA, L’UE mette in guardia l’Italia “la corruzione ci costa 60 miliardi”,in “La Repubblica”, 4/2/14, p. 6.
96 Questa tabella venne pubblicata dal giornale della Confindustria ed in seguito da me v. A. CARLO, Anatomia cit., par. 8.
97 Vedi infra par. seguente.
98 Vedi A. CARLO, op. loc. ult. cit. Per ironia della sorte mentre concludo questo lavoro compare un’inchiesta bomba sugli accordi segreti tra il governo del Lussemburgo e le IM per frodare i sistemi fiscali nazionali, eminenza grigia dell’operazione sarebbe il signor Juncker numero uno della politica lussemburghese ed attuale numero uno della Commissione europea, che dovrebbe lottare contro corruzione ed evasione fiscale, v. P. BIONDANI, V. MALAGUTTI, L. SISTI, Il buco nero delle tasse, ne “L’Espresso”, 13/11/14, pp. 40 e sgg. Spuntano fuori ben 28.000 pagine di dossiers confidenziali che buttano una pessima luce sul granducato e su Juncker , anche se, è bene dirlo, che il granducato sia un paradiso fiscale è il segreto di Pulcinella da almeno cinquant’anni. Se, però, i dossiers escono fuori adesso qualcuno ha brigato per procurarseli e siccome Juncker e la Merkel sono i capofila del partito dell’austerità è evidente che lo scandalo fa il gioco degli sviluppisti.
99 Vedi M. PANARA,Tobin tax flop da 900 milioni, gli speculatori non la pagano, in “La Repubblica, 14/12/13, p. 28.
100 Si tratta di un’impotenza strutturale nel senso che politiche di uscita dalla crisi non ce ne sono, né in Europa né altrove, tuttavia la mediocrità delle dirigenze politiche mondiali è evidente e dà un contributo alla ingovernabilità dell’economia mondiale, nell’ottobre dl 2013 il supplemento de “Il Sole 24 ore”che si denomina “IL” pubblica un numero sull’ingovernabilità del mondo che si apre così (p. 59): “Il mondo è ingovernabile. I poteri sono deboli. I leaderssi nascondono. L’impossibilità di decidere è diventata cronica e si è diffusa a livello nazionale”.
101 In questo quadro desolante l’Eurostat, al fine di rivitalizzare un PIL anemico, include in esso, a partire dal 2013, anche le attività criminali (servizi resi dalle prostitute e commercio di droga) mentre le spese per la ricerca che erano un costo di produzione del PIL diventano PIL. Assurdo. Le spese in ricerca si traducono in PIL se le scoperte fatte sono concretamente utilizzate, se queste non ci sono oppure vengono messe in frigorifero non si vede perché il costo debba essere contabilizzato nel PIL. Quando alle attività criminali qualcuno ha detto che il PIL così diventerà il prodotto interno lurido. Ma il problema non è moralistico: è difficile considerare i servizi a pagamento forniti dalle escort come ricchezza reale, mentre per le attività connesse alla droga si potrebbe dire che siamo in presenza ad un settore dell’industria chimica. Da un punto di vista formale potrebbe essere corretto, tuttavia il volume di affari dell’industria della droga è elevatissimo perché i prezzi di produzione sono artificiosamente gonfiati a causa delle proibizioni di legge, se la droga fosse prodotta legalmente il fatturato di questa attività crollerebbe, ed è noto che questo è l’argomento principe degli antiproibizionisti i quali osservano che il divieto di legge produce affari d’oro per i narcotrafficanti. Stando così le cose il fatturato dell’industria della droga è un enorme falso ed è una tassa che sottrae risorse al resto dell’economia danneggiandola. In realtà questo gioco di prestigio dell’Eurostat serve concretamente a creare un minimo spazio di manovra nell’ambito dell’esecuzione dei trattati europei: in Italia grazie alla revisione del PIL fatta nel 2013 il rapporto deficit-PIL è calato dal 3% al 2,8% e il debito pubblico è diventato pari al 127,9% del PIL. Inezie, ma ormai la politica europea è diventata un gioco sulle inezie non potendo affrontare i problemi di fondo si fanno giochi di prestigio sulle inezie, ottenendo scostamenti assolutamente irrilevanti.
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