“Non ci amano più”: questo il lamento di un formidabile articolo dell’Economist.
A dire il vero il titolo recita, parafrasando quello di un famoso
successo dei Beatles, “All it needs is love”. Ma dietro
quell’impersonale it (riferito al capitalismo) si nasconde il noi di una
intera classe, ben rappresentata dalla prestigiosa testata. Ma chi non
lo (li) ama più? Secondo un sondaggio del 2013, solo una maggioranza di
misura (il 53%) dei cittadini americani si è espressa a favore del
libero mercato, mentre la percentuale scende seccamente sotto il 50% in
analoghi sondaggi condotti in Grecia, Spagna e Giappone. Ma soprattutto
il 56% dei cittadini dei Paesi ricchi ha identificato nella crescente
disuguaglianza il problema più grave.
Di chi la colpa? Della finanziarizzazione dell’economia, scrive l’Economist:
alla gente non è piaciuto che, per salvare i grandi speculatori, gli
stati abbiano riversato nelle loro tasche i soldi prelevati da quelle
delle classi medie e inferiori (quel che si chiama privatizzazione dei
profitti e socializzazione delle perdite).
La crisi ha fatto dimenticare i “vantaggi” che due secoli di
capitalismo avevano regalato al mondo e riesumato l’antica diffidenza
cristiana nei confronti dei ricchi (un’allusione a Papa Francesco?) e le
velleità delle sinistre antagoniste, che tornano a contendere
l’egemonia sulle classi subordinate a una “sinistra” che, dagli anni 80,
si era finalmente convinta delle virtù del libero mercato.
Quale il rimedio? Per fortuna, argomenta l’autore dell’articolo, si
può ancora contare sulla “dissonanza cognitiva”, cioè sul fatto che
buona parte di coloro che manifestano diffidenza nei confronti del
capitalismo, in quanto proprietari della propria casa e in quanto
consumatori, si sarebbero dichiarati senza riserve a favore della
proprietà privata e dei benefici della concorrenza.
Per ricucire la dissonanza occorrono due cose: 1) rilanciare il mito
secondo cui tutti noi, nella misura in cui abbiamo a che fare con il
mercato e ci assumiamo dei rischi, siamo capitalisti; 2) dissociare il
più possibile l’immagine del capitale produttivo da quello del capitale
finanziario. Insomma: la questione è sempre quella dell’egemonia
culturale, ovvero: come controllare il modo in cui si chiamano le cose
per occultarne la realtà.
Una pratica in cui si distingue – fra i tanti, compresi i nostri
leader di “sinistra” – il conservatore David Cameron, il quale,
intervenendo nel dibattito
sulla trattativa per gli accordi di libero scambio fra Usa e UE (TTIP),
ha rintuzzato l’argomento dei sindacati inglesi, secondo i quali tali
accordi sarebbero l’anticamera della privatizzazione del Servizio
Sanitario Nazionale (NHS).
Cameron ha ribadito che Stati Uniti ed Europa non potranno che trarre
benefici da una ulteriore liberalizzazione dei commerci che genererà
investimenti e posti di lavoro, oltre a uniformare gli standard
alimentari e ambientali.
È vero che tutte le precedenti liberalizzazioni hanno al contrario
provocato contrazione dei posti di lavoro e caduta dei salari; ed è vero
che, come spiega Paolo Ferrero nel suo ultimo libro, l’approvazione del
TTIP implicherebbe l’allineamento dell’Europa su standard americani che
consentono l’introduzione negli alimenti di sostanze proibite dalle
nostre leggi e una drastica riduzione delle garanzie ambientali, ma poco
male: tanto i contenuti delle trattative sono tenuti accuratamente
riservati (quindi non accessibili al pubblico), mentre i media e i
politici delle due sponde dell’Atlantico, invece di chiamare le cose con
il loro nome, li battezzano con nomi rassicuranti.
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