Sinistra. A
Bruxelles, come nelle elezioni locali, le liste di Altra Europa si
presentano agli elettori come alternativa a chi propone di "amministrare
bene" l’austerità
L’Altra Europa è nata mettendo in campo alcune idee: la
centralità dell’Europa per qualsiasi processo di trasformazione
politica, il rifiuto dell’austerità e la necessità di ripudiare il
debito, l’inclusione nei confronti di migranti e minoranze di ogni
genere, la conversione ecologica come unica prospettiva per
affrontare la crisi ambientale e quella economica
e occupazionale, il carattere apartitico della lista (confermato
dall’esclusione della candidatura di rappresentanti già eletti
o persone con ruoli di spicco nei partiti); poi raccogliendo
adesioni intorno a questa piattaforma e immergendosi nella società
– nelle piazze, nelle assemblee, nei luoghi di lavoro — per
raccogliere le firme e farsi conoscere; infine gestendo senza mezzi
una campagna elettorale affidata quasi solo a incontri diretti
e al passaparola.
Dopo il 25 maggio, con il modesto successo ottenuto, occorreva
valorizzare i legami messi a disposizione dal suo ingresso nel
Parlamento europeo e nel GUE e, anche grazie ad essi, mettere
quella piattaforma alla prova sia dei problemi, nazionali e locali,
posti all’ordine del giorno dallo sviluppo degli avvenimenti, sia dei
rapporti con le organizzazioni, di base e non, locali e nazionali,
che non avevano preso parte, o avevano guardato con diffidenza,
a quel percorso. Entrambe queste cose sono state fatte poco e male,
incagliando l’organizzazione in una vana contrapposizione tra
l’impegno a mantener vivo l’orizzonte europeo del progetto e la
necessità di misurarsi con le emergenze, anche e soprattutto locali,
del “fare politica” giorno per giorno. Di questo contrasto la
disputa sull’opportunità di presentare liste regionali che si
richiamano esplicitamente all’Altra Europa è stata forse il centro.
L’Altra Europa non si è presentata in Europa, né si presenterà in
Italia, o si presenta in qualche Regione o in qualche Comune, per
“amministrare bene” l’austerity: cioè la miseria che politiche
decise altrove ci impongono (questo è l’approccio che ha affondato
l’esperienza dei sindaci arancioni); bensì perché i parlamentari,
i consiglieri ed eventualmente i sindaci eletti si facciano
strumento di aggregazione per le mobilitazioni contro di essa.
Per questo le liste regionali che si rifanno all’Altra Europa, oggi in
Emilia Romagna e in Calabria, sono parte integrante del processo
di promozione di un soggetto politico nuovo, indipendentemente
dai risultati che conseguiranno, e a cui occorrerebbe lavorare
perché siano positivi. Quelle liste sono una componente della
costruzione di un programma generale; che non è solo enunciazione
di obiettivi, ma anche ricerca e verifica della loro efficacia nel
promuovere mobilitazione e radicamento sociale.
Oggi il discrimine tra chi governa e chi ne combatte modi
e obiettivi attraversa il nesso tra crisi ambientale ed economica:
è la conversione ecologica come combinazione irrinunciabile
delle risposte a entrambe quelle crisi. L’establishment europeo
e italiano, ma anche la governance globale, si trovano da tempo
senza una strategia di ampio respiro, limitandosi a rappezzare
giorno per giorno i guasti che essi stessi producono. Puntano
a comprimere redditi e diritti della popolazione al limite della
sussistenza (e anche oltre), a distruggere lo stato sociale e a
privatizzare tutto l’esistente, a partire da quanto resta di natura,
patrimonio storico, beni comuni e servizi pubblici. Ma questi
obiettivi non configurano un assetto sociale stabile; sono la
sommatoria di spinte e interessi discordanti che mal si combinano
insieme, tanto da suscitare stati di caos e di belligeranza armata
permanente, ormai evidenti tanto nell’economia europea che nei nuovi
teatri di guerra. Un caos che è stato sì provocato da soggetti
e interessi ben identificati; ma che è da loro sempre di più subìto
e non agìto. Che cosa possono promettere alle popolazioni di cui
devono comunque ottenere il consenso, per lo meno passivo? Solo il
ritornello di una “crescita” che né arriva né risolverebbe
alcunché. E che cosa possiamo invece prospettare noi, con la
conversione ecologica? Una strada sensata per affrontare i nodi
della nostra epoca, da percorrere combinando partecipazione
e conflitto “passo dopo passo”, sostenendo occupazione, reddito,
inclusione, sostenibilità, salute, convivenza e salvaguardia
del patrimonio professionale e impiantistico del tessuto
produttivo. E’ innanzitutto un confronto culturale — da condurre
giorno per giorno, misurandosi con i problemi della vita di
ciascuno — che va tradotto in parole semplici, che devono tornare
a circolare come buon senso diffuso.
Per questo occorre aprirsi di più alle variegate componenti del
tessuto sociale. La società italiana è contrassegnata da una
molteplicità di iniziative che non ha il pari in Europa: a parte
i partitini (solo quelli comunisti sono più di dieci, molti dei
quali divisi in correnti e frazioni. Troppa grazia!) e i sindacati
di base (anch’essi in serrata competizione tra loro, ma con un
proprio radicamento sociale) ecco ovunque comitati e associazioni
ambientaliste, civiche, culturali, organizzazioni di migranti,
circoli ricreativi e sportivi socialmente impegnati, movimenti
per la casa e occupazioni di edifici pubblici e privati, reti di
studenti, di insegnanti, di ricercatori, di precari, di medici
e infermieri, di contadini, liste civiche, Rsu e la loro rete
contro la legge Fornero, amministrazioni di comuni virtuosi, Gas
e Des, cooperative sociali, comunità cristiane di base e persino
parrocchie, centri sociali, riviste ed emittenti libere,
associazioni femministe, ecc. Non c’è un “prato verde”, ma una
miriade di entità che hanno identità, storie ed elaborazioni
proprie: spesso molto sviluppate. Come rapportarsi nei confronti
di tutte queste realtà per formare con esse una “coalizione
sociale”? Si possono ignorare? Certamente no. Si possono
inglobare? Neanche. Si pensa forse di reclutarne i membri senza fare
i conti con differenze e divergenze che le hanno tenute lontane
dall’Altra Europa? Sarebbe vano e arrogante. Con ciascuna di queste
entità — per lo più organizzazioni locali, diverse da un luogo
all’altro — occorre affrontare un confronto alla pari, che metta in
discussione convinzioni, elaborazioni e pratiche di entrambe le
parti, puntando a promuovere iniziative comuni sui temi che già ci
uniscono. La piazza del 25 ottobre ha certamente messo in evidenza
un popolo alla ricerca di una propria rappresentanza politica; ma
è una ruolo che non si conquista esibendo solo programmi generali,
bensì pezzo per pezzo, attraverso iniziative comuni con ciascuna
delle sue articolazioni: un lavorìo che ha poco a che fare con le
dispute o gli accordi – senza niente togliere alla loro importanza —
con le dirigenze dei partiti che hanno sostenuto o che ancora
sostengono il progetto dell’Altra Europa.
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