Le questioni politiche sollevate dal dibattito sull’eventuale chiusura di Ilva, e trattate nella prima parte della nostra analisi,
non possono, pur nella loro indubbia rilevanza, essere discusse
appropriatamente se non alla luce di alcune considerazioni circa
l’impatto economico che un simile avvenimento porterebbe con sé.
Chi scrive è pienamente consapevole del
fatto che gli aspetti economici non sono gli unici ad essere parte del
contendere. In particolare, è senza ombra di dubbio centrale la
questione collegata alla tutela dell’ambiente e, soprattutto, della
salute dei cittadini di Taranto. Tuttavia, a premessa dell’analisi che
stiamo per svolgere, è necessario sottolineare che la produzione di
acciaio non comporta automaticamente le esternalità negative che sono
state in questi anni prodotte dalla gestione della famiglia Riva. Tali
esternalità, infatti, sono state il risultato diretto della carenza di
investimenti volti ad allineare Ilva agli standard europei. Ciò ci
impone una ulteriore osservazione: le stime che stiamo per fornire si
basano su una proiezione della situazione attuale. In realtà, in
presenza degli investimenti su menzionati, non solo la produzione di
acciaio potrebbe essere conservata, con tutti i conseguenti benefici di
carattere economico, ma questi ultimi potrebbero essere ben maggiori di
quelli qui stimati, proprio grazie agli effetti moltiplicativi degli
investimenti stessi. In altre parole, tali investimenti
rappresenterebbero una ulteriore fonte di domanda, in grado di generare
benefici sia diretti che indiretti, attraverso lo stimolo dell’indotto
ad essi collegato.
In relazione a quanto detto in
precedenza, va osservato che chiudere Ilva significherebbe non solo
mettere le imprese che da essa acquistano input produttivi nella
condizione di doverli importare, ma anche ridurre l’attività di quelle
che ne costituiscono l’indotto.
Se è impossibile quantificare
esattamente i due effetti – che ovviamente dipendono anche da una
quantità di elementi aggiuntivi – è però possibile stimarne l’ordine di
grandezza, sulla base della struttura produttiva, e quindi delle
relazioni inter-industriali, esistente.
Prima di entrare nel dettaglio, è utile fornire alcune premesse.
In primo luogo, occorre precisare che l’analisi che segue si basa sulle tavole Input-Output[1] relative al 2010 – le più recenti messe a disposizione dall’Istat[2] – e su una serie di dati aggiuntivi, tra cui i dati di bilancio di Ilva relativi allo stesso anno.[3]
Da questi ultimi si evince, osservando
le figure relative a fatturato, valore aggiunto e consumi intermedi, che
Ilva rappresenta circa l’8% dell’intero settore metallurgico nazionale;[4]
poiché il prodotto interno lordo di quest’ultimo ammonta allo 0.59% del
totale – cioè oltre 9,5 miliardi di euro – si può stimare che Ilva
partecipa alla produzione del reddito nazionale nella misura dello 0.05%
circa, cioè oltre 750 milioni di euro.
Questi numeri – di per sé già rilevanti,
se consideriamo le ultime stime di crescita del PIL italiano per il
2015 – non sono però sufficienti a fornire una misura dell’effetto che
una eventuale chiusura di Ilva potrebbe avere sul sistema produttivo
italiano. Infatti, come già sottolineato in precedenza, non solo Ilva
produce acciaio che viene utilizzato come input da altre industrie
manifatturiere – le quali quindi dovrebbero importarlo – ma è a sua
volta a capo di un indotto che inevitabilmente si contrarrebbe, con
evidenti conseguenze in termini di occupazione e redditi. Una stima di
massima degli effetti di una eventuale chiusura di Ilva deve quindi
tenere conto anche di questi fattori.
Considerando il peso di Ilva sulla
produzione totale del settore metallurgico (come abbiamo detto, l’8%) e
il fatto che il 16% della sua produzione è destinato all’esportazione
(contro una media del 37% per l’intero comparto), possiamo concludere
che Ilva contribuisce per il 10.35% alla produzione intermedia (cioè del
capitale circolante venduto ad altre imprese come input produttivi), e
per il 5,18% alle esportazioni – quindi per il 4.67% alla produzione
della domanda finale – dell’intero comparto.[5]
Con queste cifre, e mantenendo ferma la struttura produttiva (vale a
dire i coefficienti tecnici) del 2010, possiamo concludere che la
chiusura di Ilva causerebbe, nel complesso, una perdita di Pil pari allo
0.24%, equivalente, prendendo a riferimento il Pil del 2013, a quasi 4
miliardi di euro (va sottolineato che tale figura comprende anche le
minori importazioni derivanti dalla contrazione dell’indotto).
In termini di occupazione – facendo una stima basata sui dati Istat relativi all’occupazione per branca in ore di lavoro[6] e sulle proporzioni su menzionate – lo stabilimento di Taranto occupa circa 9000 unità full time equivalent.[7]
Oltre all’occupazione diretta, è ovviamente necessario considerare
anche l’indotto. Tuttavia, la definizione di indotto normalmente
utilizzata considera unicamente le imprese direttamente
connesse a quella in questione. Quello che utilizzeremo qui, invece, è
un concetto più ampio: quello di subsistema, vale a dire l’insieme di
tutte le relazioni inter-industriali dirette e indirette. In altre
parole, in questa accezione l’indotto include Ilva, le imprese che ad
essa forniscono input produttivi, quelle che a loro volta li forniscono a
queste ultime, e così via. Calcolando quindi le unità di lavoro totali,
alle circa 9000 direttamente impiegate in Ilva se ne devono aggiungere
altre 16000 circa. Per il dettaglio circa la composizione per branca di
tale figura si veda la tabella allegata. Basti qui menzionare che 2200 circa interessano il comparto Commercio all’ingrosso, escluso quello di autoveicoli e di motocicli (V46); oltre 1600 il settore del Trasporto terrestre e trasporto mediante condotte (V49); quasi 1300 le Attività legali e contabilità; attività di sedi centrali; consulenza gestionale (V69_70); quasi 1200 il comparto Servizi di investigazione e vigilanza; attività di servizi per edifici e per paesaggio; attività amministrative e di supporto per le funzioni d’ufficio e altri servizi di supporto alle imprese (V80_82); oltre 1000 l’industria Fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari e attrezzature (V25).
Come si vede, la considerazione del solo
indotto così come viene comunemente definito (che viene quantificato in
circa 3000 dipendenti[8]) induce a sottostimare fortemente l’impatto occupazionale causato da una eventuale chiusura di Ilva.
Per essere precisi, tuttavia, occorre
sottolineare che i numeri sopra riportati descrivono la situazione
attuale, ovvero sono stati calcolati tenendo fermi i coefficienti
tecnici che descrivono le relazioni inter-industriali in essere. Che
cosa accadrebbe a questi coefficienti se Ilva dovesse chiudere, e come
muterebbero di conseguenza i risultati sopra ottenuti?
Sebbene in maniera approssimativa, è
possibile rispondere a questa domanda attraverso una stima della nuova
tavola delle relazioni inter-industriali così come potrebbe emergere a
seguito della chiusura di Ilva.[9] In particolare, una simile eventualità condurrebbe a una perdita di prodotto interno lordo nell’ordine dello 0.24% circa, cifra che corrisponde, in termini del Pil del 2013, a quasi 4 miliardi di euro. Per quanto riguarda l’occupazione, la perdita di posti di lavoro ammonta a circa 50.000 unità full time equivalent, oltre 5 volte l’occupazione diretta dello stabilimento di Taranto.
Veniamo infine alla bilancia
commerciale. In base alla stima sopra riportata, supponendo che le
importazioni finali – cioè le importazioni di beni di consumo e di
investimento – rimangano costanti, quelle intermedie – vale a dire le
importazioni di input produttivi da parte delle imprese italiane –
aumenterebbero di circa 2 miliardi e 385 mila euro. Le esportazioni, per
contro, diminuirebbero di poco più di un miliardo di euro. A conti
fatti, quindi – immaginando che l’acciaio importato abbia lo stesso
prezzo di quello prodotto da Ilva, cosa niente affatto scontata – una
chiusura dello stabilimento condurrebbe ad un deterioramento della bilancia commerciale pari a circa 3,5 miliardi di euro.
Nell’ultima parte della nostra analisi
dedicata all’auspicabile nazionalizzazione dell’ILVA, studieremo gli
“effetti moltiplicativi” degli investimenti pubblici in economia e
perché è opportuno invocare lo sforamento dei vincoli europei, piuttosto
che adeguarci alla ineluttabilità della loro cogenza.
Nadia Garbellini
Roberto Polidori
Note
[1] Le
tavole input-output si compongono della matrice delle transazioni
inter-industriali, che ne compongono il blocco centrale, il quadro degli
impieghi finali, e il quadro dei fattori primari. La matrice delle
transazioni inter-industriali registra tutti gli scambi avvenuti nel
periodo contabile in questione tra le diverse branche, vale a dire
settori produttivi, del sistema economica. La prima riga, dunque,
riporterà il totale delle vendite di imprese appartenenti alla prima
branca a altre imprese della stessa, il totale delle vendite delle
imprese della prima branca a quelle della seconda, e così via. Allo
stesso modo, la prima colonna indicherà gli acquisti della prima branca
da imprese della branca stessa, i suoi acquisti da imprese della
seconda, e così via.
Il quadro degli impieghi finali indica le vendite di ogni branca a ogni elemento, appunto, della domanda finale (consumi, investimenti, esportazioni). Infine, il quadro dei fattori primari indica, per ogni branca, il valore a prezzi correnti di valore aggiunto, importazioni, costi del lavoro, ecc.
La matrice delle transazioni inter-industriali permette di calcolare, dividendo ogni colonna per il totale della produzione della branca corrispondente, la cosiddetta matrice dei coefficienti tecnici: il primo elemento della prima riga indicherà, ad esempio, la quantità di input provenienti da imprese della prima branca (valutati a prezzi correnti) che sono stati necessari per produrre una unità di output della branca stessa. Allo stesso modo, il secondo elemento della prima riga indicherà la quantità di beni provenienti dalla prima branca che sono stati necessari per produrre una unità dell’output della seconda branca, e così via.
Per la definizione ufficiale, si veda il glossario statistico di Istat.
Il quadro degli impieghi finali indica le vendite di ogni branca a ogni elemento, appunto, della domanda finale (consumi, investimenti, esportazioni). Infine, il quadro dei fattori primari indica, per ogni branca, il valore a prezzi correnti di valore aggiunto, importazioni, costi del lavoro, ecc.
La matrice delle transazioni inter-industriali permette di calcolare, dividendo ogni colonna per il totale della produzione della branca corrispondente, la cosiddetta matrice dei coefficienti tecnici: il primo elemento della prima riga indicherà, ad esempio, la quantità di input provenienti da imprese della prima branca (valutati a prezzi correnti) che sono stati necessari per produrre una unità di output della branca stessa. Allo stesso modo, il secondo elemento della prima riga indicherà la quantità di beni provenienti dalla prima branca che sono stati necessari per produrre una unità dell’output della seconda branca, e così via.
Per la definizione ufficiale, si veda il glossario statistico di Istat.
[2] Le tavole IO relative al 2011 dovrebbero essere pubblicate da Istat il mese prossimo.
[3] Tratti da Ranieri (2013), La vicenda di Ilva e i rischi per il sistema industriale italiano, Economia e Politica Industriale – Journal of Industrial and Business Economics, 40(3), 117-140.
[4] Il settore metallurgico, corrispondente alla branca V24, Attività metallurgiche
secondo la classificazione Ateco 2007, non include solo la produzione
di acciaio, ma anche una serie di altre attività. L’elenco completo
delle attività incluse è fornito da Istat.
[5] Dato
il valore della produzione intermedia dell’intero comparto
metallurgico, il valore delle sue esportazioni, e assumendo che
verosimilmente Ilva non produca beni di consumo o capitale fisso
(producendo essenzialmente acciaio grezzo, che quindi è trattabile come
capitale circolante), e dato che Ilva produce circa l’8% del prodotto
totale del settore, le due percentuali menzionate nel testo possono
essere calcolate per mezzo di una semplice equazione.
[6] Scaricabili dal sito di Istat.
[7] Le unità di lavoro full time equivalent
si ottengono prendendo il dato relativo alle ore totali lavorate nel
corso dell’anno nella branca in questione, dividendolo per il numero dei
giorni lavorativi (tipicamente, 250 all’anno), e dividendolo
ulteriormente per il numero di ore lavorate in un contratto a tempo
pieno, vale a dire 8. In sostanza, si risponde alla seguente domanda:
date le ore di lavoro utilizzate nel corso di tutto l’anno, e se tutti i
lavoratori impiegati avessero un contratto a tempo pieno, a quanti
lavoratori corrisponderebbe tale monte ore? Le unità occupate, stimate
in questo modo, risultano sottostimare l’occupazione effettiva, che
include anche contratti a tempo parziale. Tuttavia, tale misurazione
consente di effettuare confronti tra grandezze omogenee. In ogni caso, e
indipendentemente da questo tipo di considerazioni, è sempre opportuno
procedere a stime prudenti.
[8] Si veda, per esempio, http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/27/ilva-bufala-dei-40-mila-posti-a-rischio/607025/.
[9] Non
è questa la sede più appropriata per una descrizione della metodologia
impiegata. Tuttavia, per chi fosse interessato, tutti i dettagli e i
dati utilizzati possono essere forniti su richiesta. In sintesi, la
chiusura di un’impresa implica una riduzione corrispondente della branca
di appartenenza, proporzionale al peso che l’impresa stessa ha
all’interno del comparto produttivo. Tutte le branche coinvolte, cioè le
branche con cui quella di partenza effettua degli scambi, vedranno una
riduzione dei propri scambi, che a loro volta ridurranno quelli delle
branche toccate, e così via. Una procedura iterativa consente di
calcolare i nuovi scambi inter-industriali, la nuova produzione totale, e
quindi i nuovi coefficienti tecnici. Sempre al fine di effettuare delle
stime prudenti, e quindi di approssimare per difetto piuttosto che per
eccesso, nella presente analisi si è scelto di considerare soltanto le
variazioni intervenute nelle vendite del settore metallurgico, e non
anche nei suoi acquisti, come se Ilva importasse la totalità degli input
che utilizza. Chiaramente, se si fosse proceduto in modo diverso, i
risultati sarebbero stati quantitativamente più rilevanti.
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