A
partire da un recente libro di Marco Bertorello, una riflessione sulla
moneta unica dove non vi è alcuna simpatia per i fautori dogmatici
dell’euro ma, nello stesso momento, non si tessono le lodi dei “no
euro”. La soluzione potrebbe essere una nuova “Bretton Woods”, anche
senza la Germania.
“Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne” è il titolo di un interessante libro di Marco Bertorello edito da Alegre, nel quale l’autore si cimenta in una serrata critica “da sinistra” alle tesi dei più noti economisti e divulgatori favorevoli all’uscita dalla moneta unica. Il libro ha molti pregi, tra cui quello di svelare la paradossale coincidenza di vedute tra alcuni di costoro e i pasdaran dell’euro. La coincidenza “politica” tra le due visioni, a volte palesata, altre volte occultata (inconsapevolmente o meno poco importa), è riassumibile nel dogma della competitività.
Quella che segue, più che una tradizionale recensione del lavoro di Bertorello, è il tentativo di collegare le tesi del libro con alcuni fatti, spesso sottaciuti, che tendono a confermarle. Purtroppo per ragioni di spazio non è possibile approfondire tutti gli argomenti. Chi volesse farlo trova alcuni link in fondo all’articolo. In premessa però è bene chiarire che chi scrive non ha alcuna simpatia per le tesi pro-euro. Ma i torti dell’euro non fanno le ragioni dei no euro. E uscire dall’euro non è la stessa cosa di non esserci mai entrati.
SVALUTARE LA MONETA PER SVALUTARE IL SALARIO
Come dicevamo, il tema fondamentale che accomuna pro- e anti-euro è la competitività. Competitività di prezzo, si intende, perché parliamo di moneta. Il tema è centrale perché l’analisi delle vicende che hanno portato alla crisi dell’euro sembra dare ragione a coloro che la inquadrano come una (seppur particolare) crisi da bilancia dei pagamenti. Questa sarebbe stata causata dai crescenti deficit con l’estero dei paesi “periferici”, finanziati dall’afflusso di capitali del “centro”.
Ciò sarebbe da attribuirsi al comportamento non cooperativo e coordinato all’interno dell’eurozona. Da un lato la Germania ha conquistato competitività tenendo basso il costo del lavoro, che è cresciuto meno della produttività, attraverso le “riforme strutturali”. Dall’altro i “fannulloni” meridionali che hanno fatto l’esatto opposto. In mezzo la Francia. Molti tuttavia ritengono che si tratti di un’analisi non errata, ma parziale. Qui richiamiamo solo le analisi di Annamaria Simonazzi e altri sul rapporto tra Germania e paesi dell’Est Europa, e quelle di J. L. Diaz Sanchez e A. Varoudakis sulla scarsa incidenza del tasso di cambio reale nella determinazione degli squilibri.
Ma assumiamo il punto di vista più comune e preoccupiamoci delle sue implicazioni. Dicevamo della competitività. Da un lato i pasdaran dell’euro pretendono che i paesi meridionali della zona euro si facciano carico degli squilibri “facendo le riforme”. Vale a dire, svalutando il lavoro, abbassando i salari, al fine di recuperare competitività e, il prima possibile, ripagare i debiti con il “centro”. Dall’altra i no euro dicono che ciò che occorre riallineare non è il prezzo del lavoro, ma quello della moneta. L’uscita dall’euro e la conseguente svalutazione, quindi, sono un piccolo prezzo da pagare per permettere ai lavoratori di non vedere ridotti i propri salari. Detta così, pare davvero una “cosa di sinistra”. Stefano Fassina ha forse riassunto meglio di tutti questa (apparente) dicotomia sostenendo che “se non si può svalutare la moneta si svaluta il lavoro”.
Le cose stanno un po’ diversamente. Basta ad esempio guardare alla vicenda italiana per rendersene conto. La svalutazione conseguente all’uscita dell’Italia dallo SME nel 1992 coincise con una caduta della quota salari sul Pil e del salario reale. Ma non è l’unico caso. Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini hanno mostrato che si tratta di un fenomeno comune. Anche recentemente, se guardiamo ad esempio al Regno Unito o all’Islanda, notiamo una significativa contrazione dei salari reali dopo le rispettive svalutazioni. A spiegare perché ciò accade ci pensa Roger Bootle, vincitore del premio Wolfson 2012 per il suo piano di uscita dall’euro, in cui prende ad esempio la Grecia:
Il deprezzamento della nuova moneta avrebbe quindi profonde implicazioni per i salari reali, e per il valore reale di tutti gli importi nominali fissati in dracme. Per far funzionare il deprezzamento, cioè garantire che il cambio reale scenda così come il tasso nominale, sarebbe indispensabile che il salario non salisse a compensare.
La logica è disarmante e semplicissima. Se svaluti per recuperare competitività, ebbene non puoi far salire i salari nominali che si rimangerebbero in fretta l’effetto competitivo della svalutazione. Detta in altri termini: “si svaluta la moneta e si svaluta il lavoro”.
L'USCITA DALL'EURO E IL PRESUNTO MIRACOLO DEL 1992
La tesi di Bertorello è che è inutile uscire dall’euro se non si esce dal liberismo. Da questo punto di vista l’Italia è stata una campionessa dopo l’uscita dallo SME (1992): privatizzazioni, austerità, riduzione del welfare. A volte i no euro sostengono che ciò fu dovuto all’impegno di entrare nell’euro sottoscritto con il Trattato di Maastricht, ma in realtà le politiche liberiste furono attuate ovunque, dentro e fuori l'area euro. Basti ricordare Bill Clinton che abolisce lo Glass-
Steagall Act, deregolamenta i derivati, spinge per creare la bolla immobiliare e riporta dopo decenni il bilancio federale in attivo.
Sul “miracolo” del 1992 si sono accumulati dei falsi ricordi che è bene ridimensionare. A tale proposito vale la pena ricordare che lo stesso Alberto Bagnai, uno dei più noti economisti favorevoli all’uscita dall’euro, sul suo blog descrive quegli anni in questi termini:
Nel 1992 riallineammo il cambio all'interno dello Sme, le esportazioni decollarono, le importazioni diminuirono per poi riprendere. Furono usati due strumenti: la politica valutaria, in senso espansivo, e quella fiscale, in senso restrittivo. La diminuzione iniziale delle importazioni fu dovuta non solo a un effetto di sostituzione (la gente comprava meno all'estero, perché era diventato meno conveniente a causa dell'indebolimento della lira), ma, in parte, anche alle note manovre lacrime e sangue.
E conclude: “Il 1992 è un esempio di politica economica corretta”. Si possono nutrire molti dubbi su questa affermazione, ma il punto è che anche i no euro devono riconoscere che la svalutazione non fu l'unica causa del miglioramento dei conti con l'estero dopo il 1992. Il riallineamento del cambio non regalò spazi fiscali importanti. Ed è il caso di ricordare che la “ripresa competitiva”, pagata dai lavoratori con le manovre “lacrime e sangue”, si accompagnò ad un aumento della disoccupazione, che dall’8,8% nel 1992 arrivò all’11,2% nel 1995, per poi calare solo a partire dal 1999.
Si provi ad immaginare cosa potrebbe accadere il giorno dopo la nostra (e/o altrui) uscita dall’euro all'insegna del “riconquistiamo la competitività perduta”. Nel 1992 la Germania era in deficit di bilancio, ora è in attivo. Non vi è alcuna ragione per ritenere che gli altri paesi europei, dopo la nostra uscita, metterebbero da parte l'austerità (vi sono semmai ragioni per ipotizzare che il grado di chiusura aumenterebbe con il collasso dell'euro). Ma quando tutti fanno austerità, la domanda globale si riduce, o al più non cresce, e l'aggiustamento tramite i prezzi non funziona più. È ciò che il mondo sta sperimentando (per colpa dell'Europa): nonostante le svalutazioni, infatti, molti paesi, dopo il 2011, hanno ottenuto risultati contraddittori in termini di bilancia con l'estero. Quello di cui abbiamo bisogno è quindi un aggiustamento basato principalmente sulle quantità, non sui prezzi. Ciò che ci serve è un nuovo e più intelligente sistema monetario che favorisca tale aggiustamento (si vedano su questi argomenti i link riportati nell'ultimo paragrafo).
UN’ALTRA EUROPA È POSSIBILE?
Arriviamo quindi alla questione fondamentale contenuta nel libro di Bertorello. È possibile un’altra Europa, non liberista, e uscire “da sinistra” da questa crisi? Con molta sincerità, fino a poco tempo fa chi scrive lo riteneva improbabile, se non una vera e propria illusione. Oggi la situazione però è in rapido movimento. Due paesi meridionali, Grecia e Spagna, vedono in testa nei sondaggi due forze della sinistra “radicale”, Podemos e Syriza (sebbene la prima dica di essere “oltre” destra e sinistra, ha aderito al gruppo della GUE di cui fa parte proprio Syriza). Due forze ostili all’austerità, ma non all’Europa. E che non propongono come primo punto del loro programma l’uscita dall’euro, ma appunto l’uscita dal liberismo, e una ristrutturazione controllata del debito. In particolare Syriza, che addirittura esclude esplicitamente l'abbandono dell'euro, è affiancata da economisti di alto profilo, come Yanis Varoufakis che ha elaborato una “modesta proposta” per riformare l’eurozona e il gruppo di economisti post keynesiani che fa capo al Levy Institute di New York.
Joska Fischer, l’ex ministro degli esteri di Schroeder, considera Syriza “pericolosa”. Ma ha pubblicamente rivelato che il governo tedesco è pronto a trattare con Tsipras, per quanto la Merkel lo ritenga una controparte indesiderabile. E allora forse è il caso di dare un po’ di credito a questa “uscita da sinistra” dalla crisi. Se la Germania è disposta a trattare con il piccolo debitore Grecia, allora l’Italia, che è “too big to fail”, potrebbe fare la differenza, se solo volesse. Senza neppure aver bisogno di agitare l'arma spuntata dell'uscita dall'euro.
ULTERIORI APPROFONDIMENTI
Riguardo l’efficacia delle svalutazioni, va notato che buona parte dei paesi che hanno svalutato negli ultimi anni hanno fallito l’obiettivo di riequilibrare i conti con l’estero
Sarebbe sbagliato dare per scontato che si possa “uscire” dall’euro senza creare un disastro finanziario. Al di là della propaganda che ascoltiamo in Italia, molti degli stessi economisti che propongono il superamento dell’euro ritengono che un’uscita unilaterale sia sostanzialmente impraticabile e che la rottura dell’euro non avrebbe alcun precedente paragonabile, a causa delle dimensioni dell’area euro e della sua integrazione finanziaria (interna ed esterna). Ne parla un articolo su Next Quotidiano e in termini simili si è espresso Salvatore Biasco su Idee Controluce.
Una soluzione possibile sarebbe riformare l’Unione monetaria nel senso prefigurato da Keynes a Bretton Woods, eventualmente anche senza la Germania. In una direzione non troppo diversa si muove anche un un recente appello per una “nuova Bretton Woods” di importanti economisti italiani.
“Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne” è il titolo di un interessante libro di Marco Bertorello edito da Alegre, nel quale l’autore si cimenta in una serrata critica “da sinistra” alle tesi dei più noti economisti e divulgatori favorevoli all’uscita dalla moneta unica. Il libro ha molti pregi, tra cui quello di svelare la paradossale coincidenza di vedute tra alcuni di costoro e i pasdaran dell’euro. La coincidenza “politica” tra le due visioni, a volte palesata, altre volte occultata (inconsapevolmente o meno poco importa), è riassumibile nel dogma della competitività.
Quella che segue, più che una tradizionale recensione del lavoro di Bertorello, è il tentativo di collegare le tesi del libro con alcuni fatti, spesso sottaciuti, che tendono a confermarle. Purtroppo per ragioni di spazio non è possibile approfondire tutti gli argomenti. Chi volesse farlo trova alcuni link in fondo all’articolo. In premessa però è bene chiarire che chi scrive non ha alcuna simpatia per le tesi pro-euro. Ma i torti dell’euro non fanno le ragioni dei no euro. E uscire dall’euro non è la stessa cosa di non esserci mai entrati.
SVALUTARE LA MONETA PER SVALUTARE IL SALARIO
Come dicevamo, il tema fondamentale che accomuna pro- e anti-euro è la competitività. Competitività di prezzo, si intende, perché parliamo di moneta. Il tema è centrale perché l’analisi delle vicende che hanno portato alla crisi dell’euro sembra dare ragione a coloro che la inquadrano come una (seppur particolare) crisi da bilancia dei pagamenti. Questa sarebbe stata causata dai crescenti deficit con l’estero dei paesi “periferici”, finanziati dall’afflusso di capitali del “centro”.
Ciò sarebbe da attribuirsi al comportamento non cooperativo e coordinato all’interno dell’eurozona. Da un lato la Germania ha conquistato competitività tenendo basso il costo del lavoro, che è cresciuto meno della produttività, attraverso le “riforme strutturali”. Dall’altro i “fannulloni” meridionali che hanno fatto l’esatto opposto. In mezzo la Francia. Molti tuttavia ritengono che si tratti di un’analisi non errata, ma parziale. Qui richiamiamo solo le analisi di Annamaria Simonazzi e altri sul rapporto tra Germania e paesi dell’Est Europa, e quelle di J. L. Diaz Sanchez e A. Varoudakis sulla scarsa incidenza del tasso di cambio reale nella determinazione degli squilibri.
Ma assumiamo il punto di vista più comune e preoccupiamoci delle sue implicazioni. Dicevamo della competitività. Da un lato i pasdaran dell’euro pretendono che i paesi meridionali della zona euro si facciano carico degli squilibri “facendo le riforme”. Vale a dire, svalutando il lavoro, abbassando i salari, al fine di recuperare competitività e, il prima possibile, ripagare i debiti con il “centro”. Dall’altra i no euro dicono che ciò che occorre riallineare non è il prezzo del lavoro, ma quello della moneta. L’uscita dall’euro e la conseguente svalutazione, quindi, sono un piccolo prezzo da pagare per permettere ai lavoratori di non vedere ridotti i propri salari. Detta così, pare davvero una “cosa di sinistra”. Stefano Fassina ha forse riassunto meglio di tutti questa (apparente) dicotomia sostenendo che “se non si può svalutare la moneta si svaluta il lavoro”.
Le cose stanno un po’ diversamente. Basta ad esempio guardare alla vicenda italiana per rendersene conto. La svalutazione conseguente all’uscita dell’Italia dallo SME nel 1992 coincise con una caduta della quota salari sul Pil e del salario reale. Ma non è l’unico caso. Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini hanno mostrato che si tratta di un fenomeno comune. Anche recentemente, se guardiamo ad esempio al Regno Unito o all’Islanda, notiamo una significativa contrazione dei salari reali dopo le rispettive svalutazioni. A spiegare perché ciò accade ci pensa Roger Bootle, vincitore del premio Wolfson 2012 per il suo piano di uscita dall’euro, in cui prende ad esempio la Grecia:
Il deprezzamento della nuova moneta avrebbe quindi profonde implicazioni per i salari reali, e per il valore reale di tutti gli importi nominali fissati in dracme. Per far funzionare il deprezzamento, cioè garantire che il cambio reale scenda così come il tasso nominale, sarebbe indispensabile che il salario non salisse a compensare.
La logica è disarmante e semplicissima. Se svaluti per recuperare competitività, ebbene non puoi far salire i salari nominali che si rimangerebbero in fretta l’effetto competitivo della svalutazione. Detta in altri termini: “si svaluta la moneta e si svaluta il lavoro”.
L'USCITA DALL'EURO E IL PRESUNTO MIRACOLO DEL 1992
La tesi di Bertorello è che è inutile uscire dall’euro se non si esce dal liberismo. Da questo punto di vista l’Italia è stata una campionessa dopo l’uscita dallo SME (1992): privatizzazioni, austerità, riduzione del welfare. A volte i no euro sostengono che ciò fu dovuto all’impegno di entrare nell’euro sottoscritto con il Trattato di Maastricht, ma in realtà le politiche liberiste furono attuate ovunque, dentro e fuori l'area euro. Basti ricordare Bill Clinton che abolisce lo Glass-
Steagall Act, deregolamenta i derivati, spinge per creare la bolla immobiliare e riporta dopo decenni il bilancio federale in attivo.
Sul “miracolo” del 1992 si sono accumulati dei falsi ricordi che è bene ridimensionare. A tale proposito vale la pena ricordare che lo stesso Alberto Bagnai, uno dei più noti economisti favorevoli all’uscita dall’euro, sul suo blog descrive quegli anni in questi termini:
Nel 1992 riallineammo il cambio all'interno dello Sme, le esportazioni decollarono, le importazioni diminuirono per poi riprendere. Furono usati due strumenti: la politica valutaria, in senso espansivo, e quella fiscale, in senso restrittivo. La diminuzione iniziale delle importazioni fu dovuta non solo a un effetto di sostituzione (la gente comprava meno all'estero, perché era diventato meno conveniente a causa dell'indebolimento della lira), ma, in parte, anche alle note manovre lacrime e sangue.
E conclude: “Il 1992 è un esempio di politica economica corretta”. Si possono nutrire molti dubbi su questa affermazione, ma il punto è che anche i no euro devono riconoscere che la svalutazione non fu l'unica causa del miglioramento dei conti con l'estero dopo il 1992. Il riallineamento del cambio non regalò spazi fiscali importanti. Ed è il caso di ricordare che la “ripresa competitiva”, pagata dai lavoratori con le manovre “lacrime e sangue”, si accompagnò ad un aumento della disoccupazione, che dall’8,8% nel 1992 arrivò all’11,2% nel 1995, per poi calare solo a partire dal 1999.
Si provi ad immaginare cosa potrebbe accadere il giorno dopo la nostra (e/o altrui) uscita dall’euro all'insegna del “riconquistiamo la competitività perduta”. Nel 1992 la Germania era in deficit di bilancio, ora è in attivo. Non vi è alcuna ragione per ritenere che gli altri paesi europei, dopo la nostra uscita, metterebbero da parte l'austerità (vi sono semmai ragioni per ipotizzare che il grado di chiusura aumenterebbe con il collasso dell'euro). Ma quando tutti fanno austerità, la domanda globale si riduce, o al più non cresce, e l'aggiustamento tramite i prezzi non funziona più. È ciò che il mondo sta sperimentando (per colpa dell'Europa): nonostante le svalutazioni, infatti, molti paesi, dopo il 2011, hanno ottenuto risultati contraddittori in termini di bilancia con l'estero. Quello di cui abbiamo bisogno è quindi un aggiustamento basato principalmente sulle quantità, non sui prezzi. Ciò che ci serve è un nuovo e più intelligente sistema monetario che favorisca tale aggiustamento (si vedano su questi argomenti i link riportati nell'ultimo paragrafo).
UN’ALTRA EUROPA È POSSIBILE?
Arriviamo quindi alla questione fondamentale contenuta nel libro di Bertorello. È possibile un’altra Europa, non liberista, e uscire “da sinistra” da questa crisi? Con molta sincerità, fino a poco tempo fa chi scrive lo riteneva improbabile, se non una vera e propria illusione. Oggi la situazione però è in rapido movimento. Due paesi meridionali, Grecia e Spagna, vedono in testa nei sondaggi due forze della sinistra “radicale”, Podemos e Syriza (sebbene la prima dica di essere “oltre” destra e sinistra, ha aderito al gruppo della GUE di cui fa parte proprio Syriza). Due forze ostili all’austerità, ma non all’Europa. E che non propongono come primo punto del loro programma l’uscita dall’euro, ma appunto l’uscita dal liberismo, e una ristrutturazione controllata del debito. In particolare Syriza, che addirittura esclude esplicitamente l'abbandono dell'euro, è affiancata da economisti di alto profilo, come Yanis Varoufakis che ha elaborato una “modesta proposta” per riformare l’eurozona e il gruppo di economisti post keynesiani che fa capo al Levy Institute di New York.
Joska Fischer, l’ex ministro degli esteri di Schroeder, considera Syriza “pericolosa”. Ma ha pubblicamente rivelato che il governo tedesco è pronto a trattare con Tsipras, per quanto la Merkel lo ritenga una controparte indesiderabile. E allora forse è il caso di dare un po’ di credito a questa “uscita da sinistra” dalla crisi. Se la Germania è disposta a trattare con il piccolo debitore Grecia, allora l’Italia, che è “too big to fail”, potrebbe fare la differenza, se solo volesse. Senza neppure aver bisogno di agitare l'arma spuntata dell'uscita dall'euro.
ULTERIORI APPROFONDIMENTI
Riguardo l’efficacia delle svalutazioni, va notato che buona parte dei paesi che hanno svalutato negli ultimi anni hanno fallito l’obiettivo di riequilibrare i conti con l’estero
Sarebbe sbagliato dare per scontato che si possa “uscire” dall’euro senza creare un disastro finanziario. Al di là della propaganda che ascoltiamo in Italia, molti degli stessi economisti che propongono il superamento dell’euro ritengono che un’uscita unilaterale sia sostanzialmente impraticabile e che la rottura dell’euro non avrebbe alcun precedente paragonabile, a causa delle dimensioni dell’area euro e della sua integrazione finanziaria (interna ed esterna). Ne parla un articolo su Next Quotidiano e in termini simili si è espresso Salvatore Biasco su Idee Controluce.
Una soluzione possibile sarebbe riformare l’Unione monetaria nel senso prefigurato da Keynes a Bretton Woods, eventualmente anche senza la Germania. In una direzione non troppo diversa si muove anche un un recente appello per una “nuova Bretton Woods” di importanti economisti italiani.
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