4) Italia. Arriva il nuovo salvatore della patria e siamo alla catastrofe
A) la situazione economica del paese nel 2014.
Del PIL crollato a 91 (base 100 nel 2008) si è detto, ma l’Istat stima che il nostro PIL sia a livello di quello del 2000, inoltre a fine 2014 registriamo 13 trimestri consecutivi di calo; sempre secondo l’Istat il reddito disponibile delle famiglie italiane è sceso ai livelli del 1995 ed i consumi ai livelli di 30 anni or sono. Ancora nel campo dei consumi, gli acquisti del bene casa (un simbolo per noi italiani) sono in caduta libera: 807 mila appartamenti venduti nel 2007 contro i 403 mila del 2013102; Bankitalia riferisce (giugno 2014) che su base annua le sofferenze bancarie, già elevate, sono cresciute del 20% mentre i finanziamenti a famiglie e imprese (già in calo) sono calati ulteriormente del 2,5% su base annua. La disoccupazione a settembre è al 12,6%, quella giovanile veleggia verso il 44%, mentre l’OCSE ci avverte che vi sono 3,3 milioni di italiani che vorrebbero lavorare ma non cercano lavoro perché è inutile, lo stesso istituto ci informa che il 52,5% dei giovani lavora in maniera precaria, sempre i giovani hanno pagato il prezzo più elevato della crisi, poiché nell’area degli under 35 sono stati distrutti oltre 2 milioni di posti di lavoro dall’inizio della crisi (Istat). Il tasso di attività (persone in età di lavoro che hanno un lavoro) si aggira sul 55%, ma chi lavora è spesso precario e non solo tra i giovani, infatti quasi la metà dei lavoratori italiani hanno un lavoro precario o parziario103. Il trend, però, si acuisce nell’ultimo periodo: nel 2013 su 9.602.254 di contratti di lavoro stipulati, 6.577.733 sono a tempo determinato e solo 1.584.516 a tempo indeterminato, nel primo trimestre 2014 siamo a 1.583.808 a tempo determinato contro 418.396 a tempo indeterminato, nel secondo trimestre 1.848.147 a tempo determinato contro 403.036 a tempo indeterminato (Ministero del lavoro)104.
Si tratta di una realtà cancerogena davanti alla quale è da struzzi dire che bisogna rassegnarsi alla fine del tempo indeterminato, se questo fosse vero bisognerebbe rassegnarsi alla irreversibilità di un cancro incurabile. Infatti un lavoratore per poter consumare, in un mondo in cui i beni di consumo durevoli sono acquistati normalmente a rate, deve avere un reddito sicuro altrimenti non solo non potrà acquistare una casa, ma nemmeno un’auto, un televisore o un computer. Se si accetta il carattere instabile e precario del posto di lavoro si accettano implicitamente le conseguenze che ne derivano e cioè la stagnazione dei consumi e dell’economia e il suo sprofondare, più o meno lentamente, in una depressione senza via d’uscita. Il capitalismo è stato forte, nel periodo 1945-70, perché garantiva un posto di lavoro stabile, se non a tutti ad una parte consistente dei lavoratori (fossero essi operai o dipendente del terziario pubblico e privato), lo stesso miracolo giapponese tanto osannato negli anni ’60 aveva tra i propri pilastri l’assunzione a vita dei lavoratori della grande impresa e del settore pubblico. Tornare al capitalismo dei libri di Dickens non è più possibile perché questo capitalismo ha capacità produttive enormi che richiedono consumi adeguati, se il consumatore non è messo in grado di spendere, sia pure a credito, il sistema crolla. Keynes lo aveva capito, gli struzzi contemporanei non lo capiscono e pretendono che si possa consumare e che si possa crescere con lavori instabili e malpagati. Idiozie105.
Che il reddito dei lavoratori sia stata falcidiato negli ultimi decenni è indubbio: una ricerca CISL (che nessun Istat ha smentito anzi come abbiamo visto quell’Istituto ha prodotto dati anche più catastrofici) ha documentato che nel periodo 2007/13 i lavoratori hanno perso il 5,7% del loro reddito a causa del cosiddetto fiscal drag; ora considerando i dati del MEF (Ministero Economia e Finanza) relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2012 (ultime disponibili) il reddito medio dei lavoratori dipendenti era di 20.680 euro l’anno (contro i 20.469 di imprenditori e lavoratori autonomi) il che significa che i lavoratori hanno perso nel periodo considerato circa 1.200 euro annui a testa (100 al mese). Nel periodo 2000-2010 la perdita è stata di 5.500 euro l’anno106.
Le pensioni medie superano di poco i 16.000 euro lordi l’anno (2012): in dettaglio l’INPS rileva che il 45,2% dei pensionati guadagna meno di 1000 euro e un terzo meno di 500107, lo stesso istituto valuta che nel periodo 2008-12 il potere d’acquisto delle famiglie è calato del 9,4%, nel solo 2012 il calo è stato del 4,9%, come si vede l’INPS è anche più catastrofica della CISL. Non a caso il Consiglio d’Europa ammonisce l’Italia sul livello molto basso delle pensioni108, in questo caso, però, nessuno dice “ce lo chiede l’Europa”. Quanto poi ai dipendenti pubblici hanno perso, nel periodo 2010-13, a causa del blocco degli scatti, della contrattazione e del turn over 7,8 miliardi di retribuzioni nel solo 2013, il 4,5% del monte stipendi della PA (fonte Istat) e questo a prescindere dal fiscal drag.
Quanto alla pressione fiscale è elevatissima, per comune ammissione, la CGIA di Mestre ha calcolato che dal 1997 al 2014 le entrate fiscali sono cresciute del 52,7% (241 miliardi di euro in più) mentre le spese sono cresciute del 62,7% (295,9 miliardi di euro) in dettaglio le imposte centrali sono cresciute del 42, 4%, quelle locali del 190,9%. Il guaio è, però, che questo carico enorme grava su lavoratori e pensionati, i grandi redditieri evadono il fisco largamente: le dichiarazioni IRPEF di lavoratori autonomi e imprenditori sono “evasive” per il 56% (ISTAT)109, mentre l’evasione IVA e IRAP è stimata in 50 miliardi per il 2011 dalla Corte dei conti, che arriva ad ipotizzare una evasione di 250 miliardi di tasse evase considerando sia l’evasione ad opera delle imprese “emerse” sia l’evasione delle imprese che operano nel sommerso che rappresenterebbe il 21% circa dell’economia italiana110.
Il guaio è che anche se scoperti gli evasori non pagano: il dottor Befera, per anni numero uno della lotta all’evasione fiscale (si fa per dire) ha ammesso che negli ultimi 15 anni lo Stato ha accumulato 545 miliardi di crediti fiscali che oggi sono esigibili solo al 5-6% in quanto imprese, imprenditori e beni sono scomparsi o si sono rifugiati all’estero111. È ovvio che data questa situazione il peso crescente della fiscalità ricada sui soliti noti: lavoratori e pensionati.
B) La politica di Renzi, PIL, debito pubblico, lavoro.
All’inizio del 2014 arriva al governo un signore di Firenze chiamato Renzi, che rappresenta l’ultimo salvatore della patria in ordine di tempo e che eredita la situazione di cui sopra assolutamente fallimentare. L’uomo si impegna molto nel campo della comunicazione, ha poche idee anzi ne ha una sola “cambiare subito”, come cambiare però non sembra essere chiaro e quello che si capisce ha assai poco di nuovo. Occorre rilanciare il PIL e quindi si vara un decreto “sblocca Italia” per far ripartire l’economia e riaprire i cantieri. Quanto si sblocca? Non più di 3-4 miliardi cui dovrebbero aggiungersene altri 6-7 ad opera dei privati in totale una decina di miliardi, pochissimo dal punto di vista quantitativo e dal punto di vista qualitativo devo ripetere il solito rilievo sul carattere labour saving degli investimenti che vengono fatti, e su questo punto il governo non fa assolutamente nulla.
È necessario rilanciare i consumi e a maggio, alla vigilia delle elezioni europee, Renzi mette in busta paga una riduzione fiscale di 80 euro per i lavoratori dipendenti fino a 26.000 euro di reddito lordo, esclusi però i 16 milioni di pensionati. Dovrebbe essere una frustrata per i consumi, e a giugno i consumi reagiscono: vendite al dettaglio + 0% su maggio, e – 2,6% su giugno 2013. Alla frustrata di Renzi l’economia risponde con uno sberleffo. Il fatto è che un simile flop non era per nulla imprevedibile se si pone mente alle cifre che abbiamo fornito in precedenza per indicare i salassi subiti dai lavoratori negli ultimi anni: si è trattato di un’emorragia enorme, solo la perdita del fiscal drag indicato dalla CISL per gli anni 2007-2013 è superiore al bonus fiscale messo in busta paga da Renzi, ed è facile supporre che gli 80 euro siano finiti per pagare rate e debiti pregressi, che si sono accumulati sulla schiena dei nostri esausti lavoratoriconsumatori. Bisogna considerare poi che la devastazione dei redditi di lavoro, che è stata violentissima negli ultimi anni, viene molto da lontano e comincia con la politica di austerità posta in essere dal PCI di Berlinguer e di Napolitano fin dagli anni ’70 e condivisa o subita dalla CGIL112. Oggi ce la prendiamo con l’austerità della signora Merkel ma quella che ha imperversato in casa nostra per quarant’anni è ignorata, anzi viene lodata: basta aprire la TV e si scoprono autorevoli personaggi che esaltano l’attacco di Craxi alla scala mobile. La BRI, banca che ha tra i soci fondatori la Banca d’Italia, ha calcolato che dal 1983 all’inizio del nuovo millennio i lavoratori e i pensionati hanno perso 120 miliardi di euro l’anno di potere di acquisto113, in altre parole per restituire a lavoratori e pensionati il potere di acquisto che avevano nel 1983 bisognerebbe aggiungere 120 miliardi ai redditi di cui essi godevano intorno al 2005/2006, siccome però negli ultimi anni il saccheggio dei redditi di lavoro è continuato, bisognerebbe aggiungere ai salari e alle pensioni attuali qualcosa come 150 miliardi l’anno. Si tratta di una cifra semplicemente enorme ed impensabile: è fin troppo chiaro che se questo avvenisse il sistema non reggerebbe, ma il fatto è che il sistema non può reggere neanche con questi livelli di consumo assolutamente stagnanti o calanti. In altre parole quelli che per 40 anni hanno praticato una politica di austerità o di saccheggio selvaggio dei redditi dei lavoratori hanno creato una situazione insostenibile ed un problema insolubile, davanti al quale la mancetta di 80 euro mensili di Renzi ricorda il bambino che voleva svuotare l’Oceano col secchiello da spiaggia.
Non meno carente è la politica di Renzi sul tema del debito: sul “Corriere della sera” appare un articolo durissimo sulla totale latitanza del governo in materia di debito: dopo il 2015 ogni anno dovremo ridurre il nostro debito del 5% la parte eccedente il 60% del rapporto debito-PIL, ogni anno, in parole povere, dovremmo fare una manovra aggiuntiva di una cinquantina di miliardi l’anno assieme ovviamente alla manovra per azzerare il deficit corrente. Un’ipotesi assolutamente impensabile. L’articolo ha l’effetto di svegliare il governo, il sottosegretario Del Rio si fa intervistare dal giornale in esame e sostiene che il governo una politica ce l’ha anche se non si capisce quale sia. Il dibattito viene concluso dall’economista banchiere Bini Smaghi il quale osserva che ogni tentativo di ristrutturare il debito, svalutandolo nascostamente, sarebbe sgradito ai mercati che ci punirebbero pesantemente, non rimane altra strada da percorrere se non quella dell’alienazione del patrimonio pubblico114. Ora però vendere il patrimonio pubblico non è per nulla cosa facile, poiché in un momento di crisi economica è difficile trovare investitori disposti ad acquistare conventi, carceri e caserme smesse che poi dovrebbero essere ristrutturati in modo molto costoso per destinazioni che non sono molto chiare soprattutto per la pesante crisi economica. Di recente poi, lo Stato ha messo in vendita 15 grandi immobili da cui conta di ricavare 11 milioni di euro (meno di 800 mila euro per ogni grande immobile)115, inezie.
In verità nel periodo 1999 – 2002 vennero venduti gioielli di famiglia di grande rilievo come quote di Enel e di Eni e si incassarono 120 miliardi di euro116, una cifra pari al 10% del PIL dell’Italia o a un quarto del PIL di un paese come l’Olanda nel 2002, ma il rapporto debito-Pil passò da 105, 4% del 2002 al 105,7% del 2005 per calare al 103,3 del 2007 anno da cui riprenderà a salire ininterrottamente. Il debito ha assorbito l’enorme sforzo di alienazioni compiuto senza nessun serio calo dello stesso, si è comportato come un enorme buco nero.
Perché? La risposta sta nel fatto che non puoi comprimere gli effetti se non comprimi le cause: il debito cresce perché l’economia, l’occupazione e i consumi ristagnano o calano. Se l’economia riprende il debito cala come avvenne negli USA dopo il 1945, per contro se l’economia va male il debito sale, se non altro per le spese a sostegno delle imprese in difficoltà e per il costo crescente degli ammortizzatori sociali117. Occorrerebbe quanto meno bloccare la crescita del debito che dal 2007 non rallenta: nel 2013 dopo la revisione dei criteri di valutazione del PIL decisa da Eurostat, il rapporto deficit-PIL è calato nel 2013 al 2,8% e il rapporto debito-PIL al 127,9%. Epperò subito dopo l’Eurostat, a fine ottobre ci gela, nel primo semestre del 2014 siamo già al 130,7% (media Eurozona 92,7%) e nel 2015 arriveremo al 133,8% con un trend impressionante. Senza intervenire sulle cause non cavi un ragno dal buco basti pensare che il costo degli ammortizzatori sociali è cresciuto enormemente, sicché l’INPS non può farvi fronte con i contributi dei lavoratori e si è dovuto ricorrere alla fiscalità generale (e quindi anche al debito) per 14,7 miliardi nel 2014118.
A questa autentica Caporetto del debito il governo risponde con un flebile belato (un belato toscano vien fatto di dire) poiché nella finanziaria 2015 è previsto un’entrata pari allo 0,7% del PIL per quell’anno e per gli anni a venire derivante dall’alienazione del patrimonio pubblico, se si tiene presente che il costo del debito nel 2013 è stato pari al 5,3% del PIL (una ottantina di miliardi) si otterrebbe solo tra 1/7 e 1/8 della cifra necessaria a pagare gli interessi: un belato dicevamo.
Ancora. Nel campo del lavoro viene varato con decreto il primo Jobs Act119, che il Ministro Poletti, in un’intervista, presenta come un intervento di sostegno alla diffusione dei contratti a tempo determinato, questo perché quello sembra essere il tipo di contratto che il mercato predilige120. Verissimo ma si tratta, in Italia come altrove, di una pessima forma di lavoro che mina lo sviluppo economico comprimendo pesantemente salari e consumi, in altre parole si sostiene la diffusione delle cellule cancerogene.
Il secondo Jobs Act sarebbe una legge delega dai contenuti ancora da determinare in larga misura121, ma che si muove comunque in una direzione ben precisa, sostenuta con durezza da Renzi, che va nel senso di ridurre l’incidenza e la tutela dell’art. 18. In realtà le riassunzioni sono un fenomeno ridottissimo: le cause in materia sono alcune centinaia su 160 mila vertenze di lavoro mentre nel 2011-12 i licenziamenti sono stati oltre 1,8 milioni (Istat)122, mentre si è visto che il datore di lavoro è liberissimo di assumere lavoratori precari o parziari. I famosi lacci che impediscono il licenziamento e che indurrebbero gli imprenditori a non assumere sono un’autentica invenzione padronale, stando almeno ai numeri, la tutela di cui all’art. 18 è economicamente marginale e trascurabile. Tuttavia essa può avere un’importanza politica notevole soprattutto in un momento di acuta crisi sociale quando liberarsi di un’attivista sindacale ingombrante può essere una scelta padronale utile (gli unici licenziamenti veramente vietati dall’art. 18 sono i licenziamenti politicamente discriminatori, spesso mascherati da licenziamenti con motivazioni economiche o disciplinari)123. Ritornare però all’epoca del padrone delle ferriere non crea occupazione, poiché non è certo l’art. 18 a produrre disoccupati, tanto è vero che la disoccupazione esplode in tanti paesi dagli USA alla Spagna che non hanno l’art. 18. Le pretese padronali sono del tutto ingiustificate e mascherano solo la voglia di ripristinare al 100% la situazione degli anni ’50, senza alcuna ricaduta positiva sulla disoccupazione che ha ben altre cause.
C) Il problema delle riforme specchietto per le allodole (cretine).
Il nuovo cancelliere fiorentino Matteo Renzi (il vecchio, si sa era Machiavelli) insiste nel tormentone delle riforme che sono necessarie perché l’Italia riparta, prima fra tutte la riforma della PA di cui da tempo immemorabile si dice peste e corna essendo la stessa fonte di sprechi e corruzione. In realtà stando ai dati oggi disponibili da noi la PA non costa in maniera spropositata: in Danimarca siamo al 19,2% del PIL (in termini di costo), in Svezia al 14,4% come in Finlandia, in Francia al 12,6%, in Spagna all’11,9%, in UK all’11,5% in Italia all’11,1%, si collocano al di sotto di noi l’Olanda (10%) e la Germania (7,9%)124. Potrebbe tuttavia osservarsi che il vero problema da noi, ed il vero costo, sta nel cattivo funzionamento della macchina burocratica per cui Renzi presenza un DL di 82 articoli e 71 pagine che dovrebbe risolvere il problema e su cui sono piovute critiche impietose: un provvedimenti elefantiaco (con buona pace della semplificazione legislativa) in cui c’è tutto il suo contrario in allegra confusione privo di documenti esplicativi di accompagnamento; decisivi sono i rilievi del prof. Ainis, costituzionalista, il quale osserva che l’Italia annega in decreti ed in leggi, nel campo degli appalti negli ultimi anni ne hanno fatte 6 con Renzi siamo a 7125, ciò significa che la PA è sommersa da indicazioni diverse e contraddittorie che si accavallano in breve tempo, nessuno potrebbe funzionare in simili condizioni. Eppure un tempo la PA ha funzionato, con costi e tensioni indubbie, ma ha funzionato, il miracolo economico è impensabile senza una macchina burocratica funzionante: un esempio per tutti, il piano autostradale, simbolo del miracolo economico, fondato sull’auto, che venne realizzato in 5 anni, con una PA che mise le ali ai piedi fornendo le autorizzazioni necessarie a tamburo battente. Anche allora la PA era pletorica e clientelare ma la gonfiatura del terziario pubblico è un fenomeno non solo italiano ma mondiale126.
Oggi i costi del malfunzionamento sono divenuti insopportabili a causa della crisi e al posto del miracolo rappresentato dal piano autostradale abbiamo la ricostruzione post-terremoto a Napoli e l’incredibile farsa del raddoppio della Salerno-Reggio Calabria; è evidente che l’apparato burocratico è largamente degenerato rispetto agli anni del miracolo economico, e c’è da chiedersi quali ne siano le ragioni. A tal proposito è da ricordare che la PA è un esecutore non certo passivo delle direttive del governo, spesso può anche ostacolarle, ma non può inventarsi delle direttive che non esistono. E il problema è proprio questo che, finito il miracolo economico italiano, di governi in grado di dare direttive come negli anni ’50 e ’60 non se ne sono più visti, dalla crisi del 1973-75 i governi galleggiano su un’economia sempre più incontrollabile, l’unica politica che è stata praticata negli anni ’80 è stata quella della dilatazione del debito pubblico, poi esploso all’inizio degli anni ’90, per cui c’è stata un’accentuazione sempre più violenta della politica di austerità iniziata nella seconda metà degli anni ’70. Nessun governo e nessun Parlamento ha espresso una capacità progettuale e l’Italia è andata lentamente declinando127. Senza direttive strategiche la PA si è adattata a lavorare servendo un governo e un Parlamento del tutto privi di prospettive politiche, si è adattata ad una situazione di declino in cui, dilagando la corruzione, ha finito con l’essere partecipe di essa. Il problema però è a monte nella mancanza di direzione politica del paese , un paese che affonda ha una PA che affonda con esso ingloriosamente. Ciò vale anche per altri aspetti come la riforma dell’istruzione e dell’università, per quanto ho vissuto nell’università (oltre 40 anni) ho sempre sentito che l’università non preparava i giovani all’inserimento nel mercato del lavoro, una riforma dell’istruzione che fosse vera doveva colmare questa carenza. Era un autentico tormentone ed era un’autentica assurdità: il mercato del lavoro infatti tende a restringersi dagli anni ’70 e tende a produrre sempre minore richiesta di lavoro qualificato come si è visto. Adattarsi a questo mercato del lavoro è impossibile e l’università è in crisi perché è in crisi l’economia nel suo complesso e la società che affonda le radici in questa economia. Per uscire da questo stagno ci vorrebbe un progetto riformista audace, che però non è praticabile per cui l’università diventa, come abbiamo rilevato una fabbrica per disoccupati o nella “migliore” della ipotesi un’università elitaria per produrre i pochi quadri dirigenti di cui il sistema ha bisogno. In questo contesto prendersela con i ritardi della burocrazia è ridicolo, con il che non voglio negare che esista corruzione, in un sistema decadente e privo di prospettive è normale che ciò avvenga, ma ancora una volta l’inefficienza e la corruzione sono molto più effetti che cause. Ciò peraltro non avviene solo nel campo della amministrazione straordinaria (politica economica, politica dell’istruzione o della ricerca etc.) ma anche nel campo dell’attività più banalmente ordinaria come può essere quella della riscossione dei crediti. Qui come si è visto, la macchina statale è carente in modo mostruoso e la sua inefficienza è ancor più evidente se compariamo la situazione italiana con quella di altri paesi: da noi i crediti dello Stato vengono esatti in ragione del 10,4% (appunto per questo c’è una massa enorme di crediti inesatti che poi diventano inesigibili) contro il 91% dell’UK, l’87% della Francia, l’81% della Spagna, il 44% dell’Albania ed il 31% della Grecia128, sorge il sospetto che anche l’Uganda sia messa meglio di noi. Si dirà che la colpa è della PA ma sarebbe ingiusto poiché ci troviamo davanti ad una politica che da tempo immemorabile strizza l’occhio al grande popolo delle partite IVA da cui deriva una massa enorme di evasione fiscale. Tale massa si concentra per la maggior parte in poche mani (abbiamo visto che solo 120.409 debitori devono allo Stato qualcosa come 452 miliardi) epperò la grande massa dei piccoli imprenditori e lavoratori autonomi rappresenta una forza enorme dal punto di vista elettorale che ha pesato nella politica italiana negli anni della Democrazia Cristiana129 e pesa tuttora130; per parte mia l’anno scorso ho avuto occasione di rilevare come il partito degli evasori sia stato l’asse portante dei successi elettorali di Berlusconi131. Quanto a Renzi, nella finanziaria 2015 ha presentato come obiettivo il recupero di 3,8 miliardi di tasse evase su un’evasione che abbiamo visto oscillare tra i 120-250 miliardi l’anno, un simile obiettivo è una dichiarazione di resa al partito degli evasori e un invito implicito ad evadere il fisco. Recentemente l’ex Ministro (nonché viceministro) Visco (tra i pochi che abbiano tentato di fare qualcosa contro l’evasione) ha dichiarato al “Fatto Quotidiano” che chi volesse condurre la lotta all’evasione fiscale in Italia metterebbe a rischio 10 milioni di voti, se la memoria non m’inganna, una ventina di anni or sono l’ex Ministro delle finanze, il socialista Formica, rilasciò analoga dichiarazione. Ciò premesso chiedere alla PA di fare la lotta a fondo contro l’evasione fiscale è asserzione di una ingenuità estrema. Questa lotta e il conseguente recupero crediti nessun governo e nessun Parlamento vuole farla in Italia. È rilevante, a tal proposito, che mentre si parla tanto di riforma del processo, l’unica vera riforma che potrebbe fruttare soldi allo Stato in poco tempo viene ignorata e cioè la riforma del processo tributario con la modifica delle leggi sulla prescrizione fiscale e l’allargamento dei casi in cui è possibile ottenere il sequestro conservativo, l’unico mezzo per impedire che i beni degli evasori emigrino all’estero in sicuri paradisi fiscali, largamente presenti anche all’interno della UE132.
Ulteriore riforma che dovrebbe far ripartire l’Italia è quella del Senato che molti sostengono essere un inutile doppione della Camera, che rallenta i lavori parlamentari. In realtà di questa riforma non si era sentito nessun bisogno finché l’economia italiana si è sviluppata, adesso che tutto è fermo occorre trovare dei capri espiatori che spieghino il declino del paese e uno di questi è il povero Senato, che non ha nessuna colpa della fine del miracolo economico italiano né della crisi mondiale. Quando l’economia funzionava il Parlamento italiano col suo bicameralismo perfetto ha funzionato e sono state prodotte una serie di riforme epocali che possono piacere o no ma che erano importanti, la riforma delle PP.SS.: la nuova politica meridionalista che ha permesso il passaggio del Mezzogiorno dal sottosviluppo stagnante al sottosviluppo dinamico133, la scelta del mercato comune europeo, lo statuto dei lavoratori, il processo del lavoro, il nuovo diritto di famiglia, il piano autostradale, l’ordinamento regionale, l’istituzione dei TAR, il servizio sanitario nazionale gratuito per tutti, etc. L’Italia è stata governata non malgrado il bicameralismo ma attraverso il bicameralismo, anche durante legislature difficilissime come fu quella del 1953-58 in cui il Parlamento nato dalle elezioni del ’53 sembrava ingovernabile, ma fu governato dalla DC spostandosi leggermente ora a destra ed ora a sinistra, sicché in quegli anni si completò la ricostruzione, si misero le basi per il miracolo economico, e si compì la scelta del MEC. Inoltre il bicameralismo non è solo italiano, in USA il Congresso ha due rami che hanno poteri se non del tutto identici largamente simili soprattutto per quel che riguarda le leggi economico-finanziarie, tanto è vero che è normale, in occasione delle elezioni di mezzo termine (un vero “tagliando” sull’operato dell’Amministrazione a metà mandato), che il presidente perda il controllo di uno dei due rami del Congresso (con le ultime elezioni Obama ha perso il controllo di entrambi i rami del Congresso) il che lo costringe a compromessi defatiganti con l’opposizione, nessuno però in USA parla di eliminare uno dei rami del Congresso o di eliminare le elezioni di mezzo termine, un buon liberale sa che nelle nostre democrazie il potere va diviso e devono esistere meccanismi di controllo. La situazione italiana dunque non è per nulla anomala; anomalo e comunque gravissimo è il fatto che non ci sia più da decenni in Italia una direzione politica degna di questo nome e che si cerchi di nascondere la propria impotenza davanti ad una realtà ingovernabile inventandosi falsi obiettivi e specchietti per le allodole.
Un’ultima considerazione in tema di riforme deve riguardare la legge elettorale. Occorre una legge che permetta di governare, la vecchia legge il cosiddetto “porcellum”, era fatta per non governare come ormai ammettono tutti, a cominciare dal relatore della legge stessa. Ma non è affatto vero che per governare occorra una legge maggioritaria e che senza di essa non si governi. La governabilità la producono i programmi politici e non le leggi: l’Italia è stata governata col bicameralismo ma anche con una legge proporzionale ed è stata governata in modo incomparabilmente più efficiente negli anni che vanno dal 1945 al 1970 che non adesso, in quegli anni eravamo il secondo paese al mondo per sviluppo e siamo diventati una grande potenza industriale; ci fu il tentativo di imporre un sistema maggioritario nel 1953, ma quel tentativo fallì e proprio la difficilissima legislatura 1953-1958 dimostrò che se hai un programma politico adeguato alla realtà puoi governare anche con una legge proporzionale. Se non hai un simile programma una legge maggioritaria permetterebbe solo a un partito del 40% dell’elettorato votante (che ormai è al 70% o meno) di rimanere attaccato alle poltrone di governo anche se non ha nessuna capacità di esprimere una politica positiva. Chiamare questo governabilità mi pare ridicolo, io la chiamerei piuttosto stagnazione politica nell’ambito di una crisi strutturale irrisolvibile.
D) La legge di bilancio 2015.
Il giudizio negativo su Renzi può essere ulteriormente ribadito sull’analisi di bilancio che prevede: a) conferma del bonus di 80 euro di sgravi per lavoratori dipendenti (9,5 miliardi); b) sgravio IRAP per 6,5 miliardi; c) TFR in busta paga (scelta volontaria); d) taglio spese regionali per 4 miliardi, mentre i Comuni dovrebbero risparmiare 2 miliardi e le provincie 1; e) tasse sulla previdenza integrativa (3,6 miliardi); f) rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e fondo per la decontribuzione dei nuovi assunti a tempo indeterminato (3,4 miliardi in totale)134.
La più grande operazione di detassazione nella storia della Repubblica si dice, ma in realtà Renzi si è già ripreso il bonus di 80 euro concesso a maggio ai lavoratori dipendenti. Infatti sulla previdenza integrativa grava un peso di 3,6 miliardi di nuove tasse mentre il TFR in busta paga dovrebbe essere tassato con l’aliquota ordinaria e non con quella agevolata e questo permetterebbe un ulteriore introito di 2,2 miliardi135, infine 3,4 miliardi per la decontribuzione e gli ammortizzatori sociali cadranno sulla fiscalità generale che già sborsa 14,7 miliardi per sopperire ai vuoti dell’INPS. Sommando queste cifre arriviamo a 9,2 miliardi di nuove tasse su lavoratori e contribuenti che praticamente assorbono il bonus di 9,5 miliardi concesso da Renzi nel maggio 2014, questo indipendentemente da eventuali nuove tasse locali che regioni ed enti locali potrebbero mettere per sopperire ai tagli subiti. Le cose sono andate chiaramente in questo senso: Renzi e il tuo team si attendevano una ripresa dell’economia grazie alla “frustrata” degli 80 euro, questa ripresa avrebbe permesso l’autofinanziamento dello sgravio concesso poiché si auspicava un miglioramento delle entrate fiscali. Siccome al posto della frustrata c’è stato, come si è visto, lo sberleffo della realtà, Renzi e il suo governo si sono trovati scoperti degli 80 euro e hanno dovuto recuperarli nascostamente. Rimane solo la riduzione dell’IRAP che andrà a sostegno del popolo delle partite IVA che già evade largamente il fisco e che avrà un premio per l’evasione di 50 miliardi di IVA e IRAP stimato dalla Corte dei conti per il 2011. Il governo si attende da questo ennesimo regalo una risposta positiva nel senso di assunzioni di lavoratori dal momento che i costi del lavoro vengono detassati, con l’aggiunta della decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato. Il guaio è che gli imprenditori, grazie alla tecnologia, possono aumentare la produzione senza compiere assunzioni, ciò che sta avvenendo in Italia e a livello mondiale. La ricetta è una ricetta fallimentare e usurata già sperimentata in Italia nel 1977 con la legge sull’occupazione giovanile, e fallita, replicata ancora da Letta con il bonus per l’assunzione giovani anch’esso fallito136, e riproposta adesso da Renzi con la decontribuzione temporanea per l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato. Non avendo altre idee si replicano fallimenti sperando forse nell’intervento della Madonna di Lourdes. La cosa è ancor più evidente perché il costo del lavoro da tempo non è più un problema in Italia, se ne parlò accanitamente negli anni ’60 e ’70 e chi scrive contestò a quell’epoca le tesi correnti137, ma adesso i dati forniti da Eurostat provano che il costo del lavoro in Italia è sotto la media europea: 28,1 euro di costo orario in Italia contro una media europea di 28,4 euro, 31,3 per la Germania, 34,3 per la Francia e 39 euro per il Belgio. Il vero problema per le imprese italiane è la competitività fondata sulla produttività del lavoro ma premere sull’acceleratore in quella direzione porta a produrre di più con meno addetti, cioè verso imprese sempre più labour saving, mentre misure come quelle prospettate spingono nella direzione di imprese sempre più labour intensive e poco competitive. Non a caso il sistema delle imprese capitalistiche ha ignorato questo tipo di sollecitazione che venivano dal sistema politico.
Quanto al TFR in busta paga è assolutamente sconveniente per i lavoratori che pagherebbero più tasse in cambio di una pensione più leggera, lo ha rilevato a fine anno anche la Banca d’Italia attraverso i propri dirigenti138.
E) Un nuovo salvatore della patria in lista di attesa. Le ricette (indigeste) di Corrado Passera.
Pochi sono disposti a credere che Renzi possa durare a lungo e nuovi salvatori della patria si scaldano a bordo campo tra essi Corrado Passera che in un libro dal titolo volutamente sgrammaticato, come un tempo una famosa canzone di Don Backy, ha proposto un programma del presidente che, ovviamente, sarebbe lui per chi non l’avesse capito139.
Il banchiere, aspirante salvatore della patria, esordisce dicendo che occorre una terapia shock per salvare l’Italia: mobilitare centinaia di miliardi e non qualche miliardino qua e là come nel decreto sblocca Italia di Renzi140. Verissimo, ma da dove vengono i miliardi per sostenere investimenti e consumi? Occorrerebbe, infatti, mettere nelle tasche degli italiani due mensilità in più di salario o di stipendio l’anno. La prima mensilità potrebbe derivare da un aumento del carico lavorativo degli attuali occupati volto a produrre beni destinati all’esportazione con un carico aggiuntivo di 80 ore lavorative l’anno141. questo quando in USA si lavorano 34 ore in media settimanale e paesi come la Cina, il Giappone e al Germania che hanno puntato tutto o quasi sull’export sono in evidente difficoltà142.
Produrre di più quando il mercato mondiale non tira significa produrre beni che rimarranno invenduti.
L’altra mensilità dovrebbe venire dall’anticipo del TFR in busta paga, ipotesi che Renzi con abilità levantina gli ha scippato. Il fatto è che una mensilità in più pagata per giunta in modo assai salato dai lavoratori, non cambia granché dopo la devastazione che hanno subito i redditi di lavoro negli ultimi 40 anni, il flop del bonus di 80 euro è sotto gli occhi di tutti e se gli 80 euro diventassero 160 non cambierebbe granché: non puoi tagliare le gambe a un mezzofondista e poi pretendere che riprenda a correre perché gli restituisci le dita di un piede o di entrambi i piedi; la devastazione è stata enorme e si protrae da oltre 40 anni per invertire la tendenza ci vogliono cifre enormi come abbiamo visto, non può affrontare il cancro al cervello con l’aspirina. Inoltre un’inchiesta della Confesercenti ha evidenziato che solo il 18% vorrebbe il TFR in busta paga mentre il 15% non ha deciso e il 67% lo lascerebbe in azienda, tale sondaggio appare quanto mai verosimile considerando le molte controindicazioni (rilevate anche dalla Banca d’Italia) cui va incontro una simile misura.
Bisognerebbe inoltre, sostiene Passera, finirla con l’ideologia del posto fisso143, che è superato dalla realtà, il che è vero ma nel senso opposto a quello che sostiene Passera, è vero nel senso che la maggior parte dei nuovi assunti il posto fisso non ce l’ha ma questo non esprime la forza del capitalismo attuale, ma, come abbiamo rilevato, la sua debolezza e la sua incapacità a realizzare un rilancio di consumi senza il quale sprofonderà (e anzi sta già sprofondando) nelle sabbie mobili di una depressione invincibile.
Infine 400 miliardi, che secondo Passera dovrebbero servire a rilanciare l’economia, e qui il nostro banchiere ammette che bisogna dare un colpo mortale all’evasione fiscale144. Ora una persona come Passera dovrebbe ben conoscere per motivi professionali il fatto che l’evasione fiscale è opera di “lor signori” e non di operai, pensionati e cassintegrati145, inoltre come ha ammesso un dirigente bancario, Hervé Feliciani, le banche cooperano allegramente all’evasione fiscale o al riciclaggio di denaro sporco, l’espressione “Banksters” è diventata di uso corrente ed è rimbalzata anche sulle colonne del giornale della Confindustria. Un uomo informato come Passera deve conoscere certi meccanismi (anche se io sono il primo a credere che non li pratichi) e quindi sarebbe professionalmente la persona più indicata per combatterli, mi meraviglio allora che nel suo libro non sia indicato alcun mezzo concreto per battere l’evasione fiscale e per mettere in condizione il governo di riscuotere gli enormi crediti che vanta verso signori che gli devono milioni di euro a testa e che se la spassano allegramente mentre le finanze statali affondano. Fin quando Passera non indicherà cosa fare concretamente il suo auspicio di lotta all’evasione fiscale rimane assolutamente platonico. Un’ultima considerazione infine: abbiamo visto che il problema dei problemi è il carattere sempre più labour saving del sistema economico italiano e mondiale, ciò ci sta portando in fondo ad un burrone. Che propone Passera su questo punto? Assolutamente nulla.
Con queste premesse temo che l’aspirante salvatore della patria rimarrà a bordo campo a tempo indeterminato.
5) Cina e Giappone. Nulla di nuovo rispetto al passato
Ad inizio anno la Banca Mondiale pronostica un imminente sorpasso della Cina sugli USA, ciò perché il PIL cinese sarebbe sottostimato, considerando infatti il potere di acquisto reale la Cina sarebbe molto vicina agli USA. Il primo a dire di non essere d’accordo con questa valutazione è stato il governo cinese, forse preoccupato che questa valutazione preludesse alla richiesta di nuove responsabilità mondiali per il paese, responsabilità che la Cina non vuole assumersi; in effetti il distacco tra il PIL globale cinese e quello americano è elevato (in termini quantitativi, per la qualità non esiste paragone) e ancor più lo è per quel che concerne il PIL pro-capite dove la Cina è appena al 99° posto nel mondo (127° l’India)146; inoltre è stato rilevato di recente che la produttività media in Cina è il 5% di quella dei paesi ricchi147. Ancora: fare un paniere comune dei beni tra paesi ricchi e poveri è solo un’esercitazione che lascia il tempo che trova, infatti una volta investita una quota relativamente elevata del proprio reddito in riso, all’operaio ed al contadino cinese rimarrà assai poco, per cui il basso livello del fitto di una limousine o di una retribuzione per una baby sitter o del costo di un pasto al ristorante sarà del tutto irrilevante perché questi beni sono irraggiungibili per l’operaio e il contadino cinese; si è visto inoltre che per la maggior parte dei consumatori cinesi il sogno della vita non è l’acquisto di un’auto o di una moto ma di una bicicletta148.
La Cina rimane, dunque, il primo dei paesi sottosviluppati con un mercato che, nei settori trainanti, è dominato dalle IM straniere, così il governo cinese si è espresso di recente contro le grandi industrie delle auto straniere la cui colpa è quella di controllare il 76% del mercato cinese contro il 27% delle imprese locali149. Lo sviluppo cinese è ai livelli di guardia vicino al 7% che per la Cina, lo si è visto, è ristagno se non recessione, infatti nel terzo trimestre del 2014 siamo al 7,3%, vicino a livello critico del 7,2% sotto il quale la Cina non sarebbe in grado di assorbire i dieci milioni di nuovi lavoratori che si presentano ogni anno sul mercato del lavoro150. In realtà, però, già adesso malgrado lo sviluppo a due cifre di qualche anno fa, la disoccupazione ufficiale in Cina è cresciuta dal 3,1% del 1999 (2,8% media del periodo 1990-98 ) al 4,1% del 2011 (4% media 20002011)151, il fatto è che se utilizzi la logica del capitale (produrre di più con meno addetti) puoi fare sfasci occupazionali anche se operi con tecnologie obsolete ma in un paese sovrappopolato come la Cina e l’India: in Europa, infatti, il passaggio al telaio meccanico o ad altre tecniche che oggi ci sembrano di archeologia industriale, provocò pesanti fenomeni di disoccupazione tecnologica152, una cosa è lavorare con tecnologie oggi superate altra cosa è lavorare solo con il martello, lo scalpello, la zappa o le nude mani.
La situazione della Cina è in realtà drammatica i rampolli della classe dirigente fuggono verso gli USA o il Canada portandosi dietro i soldi153, prima che la caldaia scoppi. Il governo è terrorizzato e davanti alla rivolta di Hong Kong o allo sciopero degli operai calzaturieri, non usa i metodi repressivi del 1989, ma oscilla tra aperture, minacce, provocazioni, arresti e rilascio degli arrestati; la campagna contro la corruzione, che poteva essere tollerata (come costo dello sviluppo) quando si cresceva a due cifre, è diventata qualcosa di reale, sono sotto inchiesta 182.000 funzionari (spesso di grado elevato) contro i soli 10.000 degli anni precedenti, mentre esponenti dell’establishment cinese tuonano contro i corrotti dicendo “vi perseguiteremo anche da morti”154. Il fatto è che un paese in cui si verificano (secondo fonti ufficiose ma autorevoli) tra 100-180.000 rivolte all’anno, con un PIL che ormai ristagna, non può permettersi più il lusso di una corruzione che è un costo troppo elevato per uno sviluppo che si fa asfittico e al tempo stesso è una sfida per la rabbia popolare che cresce.
Per uscire dal ristagno dell’economia occorrerebbe rilanciare i consumi che nel 2014 sono responsabili per la prima volta del 48,5% della crescita cinese (3,6-3,7 punti di PIL), contro il 41% degli investimenti155, ma in realtà questo incremento è solo un rimbalzino in fondo al baratro che non riesce a produrre una crescita accettabile per quanto si è detto. La tabella che segue illustra ampiamente i caratteri strutturali dell’economia e del miracolo cinese per ciò che attiene il rapporto tra crescita del PIL, investimenti, consumi delle famiglie ed esportazioni156.
Tabella n. 6 La dinamica dell’economia cinese
Anni | Crescita PIL | Invest. % PIL | Consumi fam. % PIL | Esport. % PIL |
---|---|---|---|---|
2002 | 9,1% | 40,2% | 46,3% | 28,9% |
2003 | 10% | 44% | 40% | 34% |
2004 | 10,1% | 44,2% | 41,4% | 38,1% |
2005 | 11,3% | 41,5% | 38% | 36,7% |
2006 | 12,7% | 40,9% | 36,4% | 39,7% |
2008 | 9,6% | 44% | 34% | 37% |
2009 | 9,2% | 48% | 34% | 27% |
2010 | 10,4% | 48% | 34% | 30% |
2011 | 9,3% | 48% | 35% | 31% |
Dopo il 2011 la tendenza a deprimere i consumi a vantaggio degli investimenti orientati verso l’esportazione è continuata infatti:
“… Per decenni si è retta (l’economia cinese A. Carlo) sulle esportazioni spinte dal basso costo di lavoro e sugli investimenti enormi in infrastrutture e sviluppo dell’edilizia. Un sistema oggi insostenibile, la fabbrica del mondo soffre di un eccesso di capacità produttiva, il settore immobiliare, che conta per circa ¼ del PIL se si considerano le industrie dell’acciaio, del cemento e delle finiture, fa temere la bolla. Ci sono 10 milioni di case invendute”157.
Da anni si dice che la Cina deve cambiare il suo modello di sviluppo orientandosi verso i consumi interni e da anni questo non avviene, poiché, lo ripeto, quello del 2014 è solo un modestissimo ribalzino, la Cina è abissalmente lontana dai livelli di consumo privato mondiale (61-62% del PIL) e per arrivare a livelli decenti in grado di rilanciare uno sviluppo vicino a quello del passato, la Cina dovrebbe superare due ostacoli enormi la cui presenza evidenzio da anni. Il primo è il riconoscimento pieno delle libertà sindacali e del diritto di sciopero, incompatibili con la natura autoritaria dell’attuale regime, il secondo è dato dalla debolezza e della classe operaia e dei lavoratori in genere sul mercato del lavoro: la disoccupazione ufficiale esiste in Cina ed è crescente ma è enorme il peso della sottoccupazione, masse enormi di contadini che emigrano dalla campagna alla città per trovare salari appena migliori rispetto alla situazione miserabile delle campagne. Si tratta di un tipico mercato in cui la posizione dominante è quella del compratore di forza lavoro. In una situazione simile, all’interno del sistema capitalistico, contare su un’impennata dei salari e dei redditi di lavoro è credere a Babbo Natale158. Pochi rilievi sull’altro grande colosso asiatico, il Giappone che è nella stessa situazione dell’anno scorso: ristagno dell’economia, consumi interni depressi, disoccupazione bassa solo perché le statistiche mentono spudoratamente, l’asse dell’economia centrato sulle esportazioni in un momento in cui il mercato mondiale langue per la depressione mondiale in atto. Una cosa importante, tuttavia, si è verificata nel 2014, il governo ha elevato il livello dell’IVA dal 5% all’8% a decorrere dall’aprile 2014; è accaduto allora che nel primo trimestre i consumatori si sono precipitati a fare scorte prima che i prezzi salissero sicché il PIL è cresciuto improvvisamente, poi nel secondo trimestre abbiamo avuto un crollo più elevato dell’incremento precedente e appena inferiore al crollo record che subì l’economia giapponese in occasione della catastrofe del 2011. In altre parole il consumatore giapponese ha rotto il salvadanaio per fare un po’ di scorte e poi è calato il buio pesto; non solo ma il governatore della banca giapponese ha osservato che a causa dell’aumento dell’IVA siamo passati da una deflazione moderata di pochi decimali di punto l’anno a una impennata dei prezzi del 3,6% (base annua) nel giugno del 2014159. Ultima notizia mentre chiudo questo lavoro: il PIL giapponese cala per il secondo trimestre consecutivo (luglio-settembre 1,6% su base annua), è di nuovo recessione tecnica.
6) A proposito di una inconsistente ideologia: la decrescita serena
A conclusione di questo lavoro mi sembra opportuno trattare il problema della “decrescita serena”, su cui esistono molti equivoci alimentati spesso dalle oscillazioni della teoria in questione160. Innanzitutto Latouche e il suo team negano ogni rapporto con i sostenitori della tesi dello sviluppo sostenibile ed ecocompatibile, che sarebbero tecnocrati del capitalismo che propongono un riformismo solo apparente161, epperò essi negano di volere un calo della produzione poiché chiaramente parlano di uno sviluppo diverso che metta in primo piano le esigenze collettive e soddisfi i bisogni primari delle popolazioni partendo innanzitutto dal lavoro. Non si tratta, quindi, di tornare alle candele chiudendo le fabbriche, ma di innescare uno sviluppo centrato sui bisogni sociali. Qui, però, le critiche si fanno molto più stringenti di un semplice rilievo linguistico poiché cosa sia questo sviluppo non è detto con chiarezza, si sa solo che la società della decrescita è incompatibile con il capitalismo, infatti: “La nostra concezione della società della decrescita non è né un impossibile ritorno all’indietro, né un compromesso con il capitalismo, è un superamento (possibilmente senza eccessivi traumi) della modernità (…) La decrescita va necessariamente contro il capitalismo”162.
Niente società delle candele e niente capitalismo. Questo andrebbe bene se non venisse proposto un programma concreto di instaurazione della società desiderata in cui si vede chiaramente che in tale società sopravvivono le strutture portanti del capitalismo: ci sarebbero infatti le IM con i loro profitti (ovviamente da tassare), la Borsa e la finanza con le transazioni di borsa (ovviamente da tassare), i grandi patrimoni (ovviamente da tassare) e sinanche le scorie nucleari e le emissioni di anidride carbonica (ovviamente da tassare). Il capitalismo con le sue strutture caratterizzanti rimane ancorché tassato e si noti che sinanche l’anidride carbonica e le scorie nucleari non vanno impedite ma tassate. A queste strutture che sono quelle del capitalismo si chiede di funzionare in modo non capitalistico, realizzando il fine del lavoro per tutti e quindi lo sviluppo tecnologico che determina l’aumento della produttività non dovrebbe tradursi in licenziamenti tecnologici ma in riduzione dell’orario per tutti a parità di salario163, in altre parole si chiede al capitalismo di funzionare in modo anticapitalistico. Non è la prima volta che questo accade alla fine degli anni ’70 una commissione di economisti europei presieduta dal belga Maldague varò un progetto di riforma molto più radicale del progetto qui prospettato, anch’esso però andava nel senso di chiedere alle strutture del capitalismo di funzionare in modo anticapitalistico. Lo scandalo tra gli eurocrati di Bruxelles fu grande, anche perché gli economisti in questione non erano dei radicali ma più dei riformisti moderati, e il fatto che essi rivalutassero anche delle tematiche maoiste (la rivalutazione del lavoro manuale e della sua retribuzione) destò grande impressione per cui si cercò di nascondere il rapporto in fondo ad un cassetto, da dove, tuttavia, una mano misteriosa lo prese e lo pubblicò permettendo a me di farne la critica cui ho prima accennato164.
C’è , però, un’altra critica non meno radicale da fare a Latouche e ai suoi seguaci, si sostiene infatti che la lotta di classe è finita e che le classi dominanti hanno vinto irreversibilmente165. Se questo fosse vero la partita sarebbe chiusa: nessun sistema crolla solo per le sue contraddizioni strutturali, ma perché essi hanno innescato tensioni e movimenti sociali incontrollabili per il sistema: la crisi della monarchia assoluta francese e delle finanze pubbliche, sbocca nella presa della Bastiglia; il dato fondamentale è sempre una crisi strutturale, ma essa deve tradursi in azione contro il sistema, se non c’è quest’azione il sistema non cade per l’intervento dello Spirito Santo. Ora è ben vero che sinora le esplosioni sociali che si sono verificate sono state recuperate, represse o sono rifluite epperò il panorama degli ultimi anni mostra un susseguirsi continuo di esplosioni sociali che non ha precedenti nei 20 anni della stabilizzazione e cioè il periodo 1980/2000, che segue alla esplosione delle lotte sociali negli anni ’60 e ’70. Il movimento degli indignados, occupy Wall Street, le primavere arabe, le manifestazioni della borghesia israeliana impoverita, la ribellione delle città inglesi nel 2011, quella della banlieu parigina, la guerriglia in India, le 100-180.000 rivolte annue in Cina, i movimenti ecologisti, la ripresa del conflitto anche a livello operaio, offrono un quadro tutt’altro che tranquillizzante per il potere. Nessun sistema può sopravvivere con una politica esclusivamente repressiva, occorre che i problemi che generano le rivolte siano affrontati, altrimenti si riprodurranno periodicamente e diventerà sempre più difficile controllarli e reprimerli. Ciò perché nel nostro sistema (ma considerazioni analoghe possono farsi anche per i sistemi preesistenti) il potere dei gruppi sociali dominanti si fonda su due pilastri e cioè sui meccanismi di formazione del consenso e su quelli repressivi166. Entrambi questi meccanismi tuttavia, esigono risorse: la politica di alleanze con i ceti o le classi medie fatta dal capitalismo esige la concessione di privilegi a questi gruppi sociali, che hanno un loro indubbio costo e che servono a distinguere il loro ruolo da quello della classe operaia167; lo stesso discorso vale per quel che attiene i meccanismi repressivi che costano e non poco, ora la depressione mondiale in atto rende sempre più difficile procacciarsi le risorse necessarie a questi due tipi di meccanismi, e questo indebolisce le possibilità di controllo della classe dominante; il riproporsi continuo di ribellioni e di conflitti non è detto che si traduca nella loro sconfitta e nel loro riflusso, la difficoltà crescente a reperire le risorse per sostenere tali meccanismi si tradurrà in difficoltà crescenti da parte dei gruppi sociali dominanti nel realizzare un controllo efficace e stabile della ribellione sociale. Che le cose si pongano in questi termini ci sembra indubbio: i tagli crescenti allo Stato sociale stanno pesantemente mettendo in discussione l’alleanza con i ceti medi spinti verso una situazione per molti versi simile a quella della classe operaia. Lo stesso discorso vale per i meccanismi di repressione sia esterni che interni. Qualche anno fa ho rilevato che il generale americano McChrystal venne giubilato durante la campagna in Afghanistan perché sostenne la teoria della controguerriglia, secondo la quale gli USA non dovevano limitarsi a gettare bombe ma dovevano costruire scuole ed ospedali in modo da creare consenso sociale alla loro azione e causare un movimento popolare di controguerriglia168; è appena il caso di notare che se costruisci scuole e ospedali devi poi presidiarli altrimenti i talebani tornano e li distruggono, si tratta cioè di una proposta estremamente dispendiosa dal punto di vista economico e che un paese indebitato come gli USA non può sopportare.
Lo stesso discorso vale più in generale per gli interventi fatti in Iraq ed in Afghanistan, interventi cosiddetti leggeri cioè con 120-150.000 soldati, lontanissimi dai 500.000 e più soldati inviati in Vietnam, ora in una situazione di guerriglia diffusa 120-150.000 soldati non bastano a controllare il territorio, servono a controllare le zone chiave e le città principali, più che occupanti si è degli assediati in un ambiente ostile. Si tratta di una strategia chiaramente perdente ma gli USA non possono permettersi di più. Una conferma ulteriore di ciò è data dall’andamento recente della spese militare: le spese militari americani calano dai 696,6 miliardi del 2010 a 645,7 del 2012169; nel 2011 il Ministro della difesa americano dell’epoca (Leon Panetta) ha asserito che 450 miliardi di tagli programmati per la spesa militare dei prossimi anni saranno governabili a patto di non andare oltre quella cifra170. In Francia la spesa militare è di 60,7 miliardi di dollari nel 2007 contro i 48,1 del 2012 (52 nel 2010), in Germania 40,4 miliardi nel 2012 contro i 42,1 del 2007 (44,1 nel 2010), in Italia 23,6 miliardi nel 2012 contro 37,8 nel 2007 (21,9 nel 2010); leggermente diversa la situazione nell’ UK: 64,1 miliardi nel 2012 contro 63,3 del 2007 e 57,8 nel 2010.
La tendenza, con qualche eccezione, è generale171. Ed essa riguarda anche la sicurezza interna: in USA la crisi fiscale che colpisce le varie articolazioni dello Stato ha portato a licenziamenti e riduzioni del personale non solo tra i dipendenti civili ma anche per i poliziotti, a cominciare dalle ricchissime Florida e California172. Passando dall’altro lato dell’Oceano in Inghilterra quando scoppia (nel 2011) la rivolta dei quartieri periferici di Londra, che poi si estende ad altre città, si scopre che l’organico della polizia londinese, assolutamente inadeguato a fronteggiare la rivolta, è formato da appena 2500 elementi, si tenga presente che Londra è una città con la popolazione dell’Olanda173. In Italia nel corso del 2014 la polizia minaccia lo sciopero a causa del blocco pluriennale della contrattazione, una minaccia che dall’altro alto dell’Oceano, in Brasile diventa realtà, a ridosso dei mondiali di calcio i poliziotti brasiliani protestano per l’inadeguatezza di stipendi e di organici; in India l’apparato repressivo è assolutamente inadeguato a contenere la guerriglia174. Non meno sintomatico è quello che avviene in America nel 2010 quando il segretario alla sicurezza interna annunzia l’abbandono del progetto per la costruzione di una cortina di ferro di 3.200 km al confine col Messico per bloccare l’immigrazione clandestina175, dopo 80 km ci si è accorti che costava troppo. È stata sostituita con un sistema di avvistamento dall’alto ad opera dei “droni” che possono segnalare movimenti sospetti ma non possono bloccare il flusso degli immigrati clandestini che è notevolissimo, per fare questo occorrerebbe l’intervento di un nutritissimo corpo di guardie di frontiera atto a presidiare un confine lunghissimo e anche questo costerebbe troppo. La crisi strutturale del capitalismo mondiale e di bilanci statali in bancarotta pongono dei limiti enormi alle possibilità di reprimere indefinitamente movimenti di ribellione che riemergono continuamente.
Il limite della teoria di Latouche sta nel fatto che dà la partita persa quando siamo appena all’inizio del primo tempo e quando le prospettive per la classe dominante non sono prospettive che possono rendere sereni (se ci permettete il gioco di parole). In conclusione la teoria della decrescita serena è un pasticcio indigesto e confuso per nulla originale.
102 Fonte, ricerca Censis.
103 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
104 Vedi D. DI VICO, Dire addio al posto fisso non basta, la flessibilità all’epoca di LinkedIn, ne “Il Corriere della Sera”, 27/10/14, p . 9.
105 Dirò di più circa 35 anni or sono sfogliando i documenti dei pianificatori francesi ne trovai uno in cui , molto lucidamente, si diceva che non solo occorreva garantire la stabilità del posto di lavoro ma anche la sua permanenza in un’area geografica limitata, ciò perché la politica della casa era necessaria per sostenere un settore come quello edilizio, che è ancora in grado di assorbire una quota consistente della forza lavoro, ciò richiede il ricorso massiccio a mutui di 20-30 anni, per cui se un lavoratore ha stipulato un contratto di mutuo a Parigi, non puoi trasferirlo subito dopo sui Pirenei o al confine svizzero. Di quel documento mi ricordai qualche anno fa quando in Francia scoppiò lo scandalo della Telecom France: quella impresa, non potendo licenziare i lavoratori che godevano di una protezione simile ai dipendenti della PA, gli impose di trasferirsi con un brevissimo preavviso dall’altro capo della Francia per spingerli verso le dimissioni. Il risultato fu qualche decina di suicidi tra i lavoratori, con il conseguente sdegno dell’opinione pubblica che costrinse la Telecom a tornare sui suoi passi, ciò che però non valse a resuscitare i suicidati. Questo evento evidenzia quanto assurdo vi sia nella ideologia della mobilità selvaggia ad ogni costo, puoi anche praticare una simile politica, ma se la fai devi rinunciare alla politica per la casa con tutte le conseguenze negative proprio in campo occupazionale. In altre parole la mobilità non è la soluzione ma è il problema.
106 Vedi L. GRION, Potere d’acquisto giù per operai e impiegati, in 10 anni hanno perso 5.500 euro, in “Le Repubblica”, 28/9/10, p. 28.
107 Ma questi dati sono rose e fiori se si pensa alle future pensioni dei Co.Co.Co., costoro dato il basso livello di retribuzione e di contributi e il carattere saltuario della loro occupazione, avranno pensioni da 120 euro mensili (stima Istat).
108 Vedi TELEVIDEO RAI, 29/1/14, p. 137.
109 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 4, lett . B).
110 Vedi su ciò, Scontrini elettronici ed una banca dati contro l’evasione, ne “Il Messaggero” 28/9/14, p. 2. Articolo anonimo. La Corte dei conti condivide la valutazione del sommerso che è fatta anche dalla Commissione europea (il 21,1% dell’economia italiana), anche però limitandocialla sola economia emersa il volume delle tasse evase sarebbe di 120 miliardi. È da notare, tuttavia, che Gutgeld (Deputato del PD e tra i consulenti economici di Renzi), stima l’evasione di 150 miliardi l’anno (v. Y. GUTGELD, Più uguali e più ricchi, Rizzoli, Milano, 2013, p. 31). Una ricerca fatta dal London Tax Research per conto del gruppo socialista al Parlamento europeo ci accreditava per il 2009 di un volume di tasse evase pari a 180 miliardi l’anno (ma come si diceva l’evasione globale europea è molto più elevata).
111 Vedi TELEVIDEO RAI, 22/1/14, p. 132. Si tratta di una cifra nota e confermata anche dai dati forniti dal MEF al Parlamento italiano subito dopo le elezioni del 2013, si comunicò allora che ben 452 miliardi non esatti (dei 545) facevano capo ad appena 120.409 contribuenti con debiti da 500 mila euro in su, la media con un semplice calcolo aritmetico superava i 3,5 milioni di debito a testa. Questi dati confermano, da una parte l’impotenza dello Stato incapace di riscuotere i propri crediti, e dall’altra il fatto che relativamente pochi evasori detengono la massa dell’evasione fiscale: solo poco più di 120 mila persone mettono insieme un monte debiti (ormai pressoché inesigibile) nei confronti dello Stato paragonabile al PIL di un continente come l’Africa. L’evasione fiscale si concentra nelle mani dei più ricchi e del resto è evidente che solo chi è più ricco può evadere non certo un pensionato al minimo o una casalinga senza lavoro. Sarebbe banale rilevarlo ma ricordo che fino a pochi anni fa quando si facevano notare queste cose alla Confindustria le reazioni erano isteriche. Adesso invece cominciano ad ammettersi le responsabilità dei grandi evasori, anche da parte del CSC della Confindustria. Ma da questo a fare qualcosa contro l’evasione ci corre il mare. Qualche anno fa la Confindustria ha sancito, con decenni di ritardo, il principio che chi paga il pizzo alle varie mafie debba essere espulso dall’associazione, non mi risulta che si sia fatto altrettanto per i grandi evasori.
112 Su ciò vedi, A. CARLO, Anatomia cit., par. 4 e 5.
113 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 1.
114 Vedi L. BINI SMAGHI, Ridurre il debito, attenti ai pericoli, ne“Il Corriere della sera”, 18/8/14, pp. 1 e 25.
115 Vedi A. DUCCI, Lo Stato ci prova, mette in vendita palazzi ed ex conventi, ne “Il Corriere della sera”, 15/7/14, p. 15.
116 Vedi L. NAPOLEONI, Democrazia vendesi, Rizzoli, Milano, 2013, p. 86; S. BOCCONI, Il circolo (vizioso) degli interessi. Un macigno di 80 miliardi l’anno, ne “Il Corriere della sera”, 5/11/14, p. 4.
117 Visto che con le alienazioni si ottiene poco da più parti si comincia a ventilare l’ipotesi di una patrimoniale come quella del secondo dopoguerra all’epoca della ricostruzione. A questo punto, però, una simile soluzione ci sembra un palliativo, perché, come si accenna nel testo, occorre intervenire sulle cause non sugli effetti: se versi in quell’enorme buco nero del debito cifre anche consistenti, come avvenne per le alienazioni del 1999-2002, non risolvi il problema, perché il debito tende a riprodursi ed assorbire tutto se non elimini le cause che lo producono e che, come abbiamo visto sono inestirpabili.
118 Vedi E. MARRO, La crisi del lavoro e i 14,7 miliardi di sussidi a carico dei contribuenti, ne “Il Corriere della Sera”, 10/10/14, p. 43.
119 Su ciò v. AA.VV., Jobs Act come cambia il lavoro, Ed. “Il Sole 24 ore”, Milano, 2014.
120 Vedi M. GIANNINI, Il Jobs Act di Poletti formato Nestlè, in “La Repubblica”, 14/4/14, p. 1 con allusione alla scelta Nestlè di assumere solo lavoratori a termine; L. GRION, Poletti tra 10 anni più posti ai giovani, ivi, 16/3/14, pp. 1 e 10 ove intervista al Ministro.
121 Il meccanismo della delega prevede una legge cornice che fissa paletti insormontabili, al cui interno, però, il governo ha un’ampia possibilità di scelta nel determinare i contenuti concreti della legge stessa con decreti attuativi ad hoc.
122 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
123 Ibidem.
124 Fonte. Tesoro – Eurispes – UIL PA.
125 Vedi M. AINIS, Un naufragio tra i decreti, ne “Il Corriere della Sera”, 31/8/14, p. 1.
126 Vedi su ciò, A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, Liguori, Napoli, II ed., 1979, pp. 79-84.
127 Questi temi sono stati ampiamente trattati da me nel mio lavoro dell’anno scorso Anatomia cit., par. 3 e sgg.
128 Vedi S. LIVADIOTTI, Ladri, Bompiani, Milano, 2014, p. 83.
129 Vedi A. FORNI, I fuorilegge del fisco, Ed. Riuniti, Roma, 1981.
130 Vedi S. LIVADIOTTI, Ladri cit., pp. 179 ed sgg.
131 Vedi A. CARLO, Anatomia ci., par. 6.
132 L’unica riforma realizzata da Renzi sinora è la riforma del processo civile, varata a fine 2014, dovrebbe snellire i processi ma da più parti si osserva che già in passato si era fatto un tentativo con il giudice di pace, tentativo che è clamorosamente fallito; naturalmente chi scrive non tifa per un altro fallimento ma si limita a rilevare che questa riforma non ha nessun carattere decisivo in rapporto alla crisi economica che è mondiale e che riguarda paesi che hanno sistemi giudiziari molto più rapidi del nostro. Non è invece una riforma la nuova disciplina delle provincie che si volevano abolire. Poi qualcuno ha ricordato che le provincie sono previste dalla Costituzione per cui una loro abolizione avrebbe richiesto una faticosa riforma costituzionale oltre ad avere anche implicazioni internazionali a nostro avviso: le provincie di Trento e Bolzano con il loro Statuto speciale sono una conseguenza di accordi tra l’Italia e l’Austria, una loro eventuale abolizione avrebbe avuto delle conseguenze nelle relazioni con il nostro vicino. Perciò ci si è limitati ad una modifica del sistema di elezione delle cariche regionali che dovrebbe produrre un piccolo risparmio economico e che è un tipo di elezione indiretta, che allontana sempre più l’elettore dall’eletto.
133 Vedi su ciò E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, Contro la questione meridionale, Savelli, Roma, III edizione, 1975, cap. IV.
134 Per un’ampia e precisa radiografia della legge di stabilità proposta alle Camere v. M. SENSINI, Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno, ne “Il Corriere della sera”, 22/10/14, p. 2, in particolare sul pessimo affare che sono le liquidazioni in busta paga (pessimo affare per i lavoratori beninteso) v. R. BAGNOLI, Liquidazioni in busta paga vale 127 euro ma taglia del 13% la rendita, ne “Il Corriere della Sera economia”, 20/10/14, pp. 26-27; A. BASSI, L. CIFONI, Accise, detrazioni fiscali, ecco gli aumenti in agguato, ne “Il Messaggero”,25/10/14, p. 10.
135 Vedi M. SENSINI, op. ult. cit.
136 Su ciò v. TELEVIDEO RAI, 29/6/14, p. 133; G. DOSSENA, Flop del bonus giovani, solo 22mila assunzioni. Negozi allarme chiusura, ne “Il Corriere della Sera”, 29/6/14, p. 5.
137 Su ciò v. A. CARLO, La società industriale, cit., pp. 115 e sgg.
138 Si è trattato di una presa di posizione clamorosa che smentiva il governo e si augurava che la decisione fosse provvisoria, una posizione che conteneva le stesse critiche dell’articolo di Bagnoli citato alla nota 134.
139 Vedi C. PASSERA, Io siamo, Rizzoli, Milano, 2014.
140 Ivi, pp. 38 e sgg.
141 Ivi, pp. 43 e sgg.
142 Su questo punto v. infra par. seguente per Cina e Giappone.
143 Vedi C. PASSERA , op. cit. , p. 52.
144 Ivi, pp. 59 e sgg.
145 A volte i lavoratori in nero vengono accusati di contribuire all’evasione fiscale il che è falso perché il lavoro nero sottopagato e privo di coperture assistenziali è imposto al lavoratore dal datore di lavoro con l’alternativa secca “o questo o niente”.
146 Vedi G. VIETTI, Far East, in “La Repubblica, Affari & Finanza”, 12/5/14, p. 1.
147 Vedi G. SACCO, op. cit., p.42.
148 Vedi retro nota 38.
149 Vedi V. SPARISCI, Pechino contro l’auto straniera. L’accusa anti-trust: listini gonfiati, ne “Il Corriere della sera”, 23/8/14, p. 39.
150 Vedi G. SANT, La Cina affronta cit..
151 Fonte “Economist”.
152 Vedi retro nota 57
153 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 4.
154 Vedi G. SANTEVECCHI, Per i corrotti divieto di suicidio: “Vi perseguiremo anche da morti”, ne “Il Corriere della sera”, 26/9/14, p. 17.
155 Vedi G. SANT. , La Cina affronta cit..
156 Fonte “Economist”.
157 Vedi G. SANT. , op. ult. cit.
158 Si noti peraltro che autorevoli economisti cinesi hanno rilevato che il tasso di disoccupazione ufficiale è sottostimato poiché anche in Cina esistono gli scoraggiati, v. A. CARLO, Capitalismo 2009 cit. , par. 6.
159 Vedi G. FERRAINO, La deflazione? Sempre deleteria per la crescita. Draghi “farò tutto per evitare i rischi in Europa”, ne “Il Corriere della sera”, 25/8/14, p. 11 ove è inserito un’intervista a Kuroda , governatore della banca centrale nipponica che fornisce questo dato.
160 Vedi S. LATOUCHE, op. cit.
161 Ivi, pp. 19 e sgg.
162 Ivi, p. 109.
163 Ivi, pp. 85 e 93 e sgg.
164 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 128 sgg.
165 Vedi S. LATOUCHE, op. cit. , p. 81.
166 Su ciò vedi A. CARLO, Conflitto. Controllo sociale. Rivoluzione. Tredici tesi sulla fine del capitalismo, in www.crisieconflitti.it, 2008, par. 10.
167 Vedi su ciò A. CARLO, La società industriale cit. pp. 34 e sgg.
168 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2.
169 Fonte “Economist”. Anche gli altri dati sulla spesa militare che citeremo nel testo provengono da quella fonte.
170 Vedi A. CARLO, op.ult. cit.
171 Non manca, è bene dirlo, qualche caso in controtendenza e i più rilevanti sono il Giappone e la Cina.In Giappone siamo a 41 miliardi di dollari nel 2007 che diventano 59,4 nel 2012 (54,4 nel 2010), ma tenendo conto delle dimensioni economiche della popolazione del Giappone non siamo neanche ai livelli italiani in senso relativo. In Cina si passa dai 46,2 miliardi del 2007 ai 102,2 miliardi del 2012 (76,4 nel 2010), con un’accelerazione indubbia che esprime le paure di una classe dirigente davanti al numero enorme di ribellioni che esplodono ogni anno in quel paese, ma se lo sforzo è ingente rimane inadeguato rispetto alla popolazione ed al numero di rivolte che è semplicemente immenso e anche qui in termini relativi (percentuale del PIL) siamo a livelli inferiori rispetto agli USA che sono in calo.
172 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2 e 6. È sintomatico quello che avviene in California dove le riduzioni del personale della polizia determinano situazioni paradossali: se chiami il 911 (il pronto intervento) un disco registrato ti dirà che se non c’è un pericolo immediato di vita arriveranno non prima di 8 ore: un pronto intervento che si muove con la velocità di una lumaca.
173 Vedi A. CARLO, op. ult. cit., par. 7.
174 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 9.
175 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit. , par. 7
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