Belpaese?. Dopo
decenni di incuria e di attacco alla qualità del paesaggio, il Governo
Renzi ha perpetuato e alimentato le cause del disastro. Prima con il Ddl
Lupi e ora con lo «Sblocca Italia»
Le cifre che stanno venendo fuori a proposito dei disastri
territoriali di questi giorni – con eventi meteo esasperati dai
cambiamenti climatici che si abbattono su un territorio
indebolito dalla ipercementificazione – sono da autentica
guerra.
Un Rapporto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono
registrati quasi mille morti da dissesto idrogeologico, per oltre
15 mila eventi calamitosi e un danno economico da circa 3,5 miliardi
di euro all’anno. Se si computa dagli anni sessanta, a partire dal
disastro del Vajont e dalle alluvioni di Venezia e Firenze i morti
diventano più di 4 mila.
L’Italia paga le conseguenze di decenni di incuria e di
sostanziale attacco alle sue stesse caratteristiche
eco-paesaggistiche. Esse, fino a qualche decennio addietro, avevano
correlato virtuosamente ambiente e insediamenti; di più, avevano
sempre connotato questi ultimi secondo le caratteristiche
ecologiche e culturali dei contesti. Da cui il soprannome di
Belpaese.
Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici e lessicali. Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici e lessicali. Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
E ancora la città costiera continua calabra, a fronte dello
svuotamento dell’interno; gli orridi abusivi siciliani – che
offendono un paesaggio altrimenti notevole; le «grandi macchie
urbane» delle città sarde.
Gli entusiasmi per la modernizzazione antropizzata del Paese
si sono da tempo trasformati in preoccupazioni per le
conseguenze di un insediamento abnorme e quanto dannoso
e paradossale: oggi in Italia abbiamo, oltre a qualche miliardo di
volumi industriali e commerciali e tante incompiute
infrastrutturali spesso inutili, un edificio ogni 4 persone, ma
un alloggio su 4 e oltre 20 milioni stanze risultano vuote; tuttavia
fanno notizia i disagiati, tuttora senza casa, e tra di essi, il
migliaio di occupanti, probabilmente legittimati da tale
situazione). Con costi ambientali e sociali che infatti sono
cresciuti sempre più.
Oggi, la criticità di questa condizione irrompe in tutta la sua
drammatica evidenza. Da Genova a Milano, dal Piemonte al Veneto, da
Roma alla Sicilia, i temporali causano disastri: rilievi
e versanti abbandonati franano sugli insediamenti sottostanti;
la pioggia rigonfia fiumi, torrenti e ruscelli, che diventano
condotte forzate, trovano le aree di propria pertinenza
trasformate in brani di città e rompono alla fine gli argini, anche
perché le costruzioni hanno bloccato le vie di fuga dell’acqua. Si
registrano così i fenomeni dei «vasconi urbani», dentro cui annegano
oggi quartieri di Genova e Milano, come di Roma e, qualche mese fa,
di città e paesi emiliani, veneti o sardi.
Il Governo tenta adesso di scaricare ogni colpa sui predecessori
o sulle Regioni; ma – fino alla drammatica emergenza di questi
giorni – ha perpetuato e addirittura alimentato le cause del
disastro. Lo dimostrano il Ddl Lupi –che pretenderebbe di
accentuare ulteriormente la deregulation e svuotare la
pianificazione di potere normativo e descrittivo – e lo «Sblocca
Italia». Quest’ultimo provvedimento è teso a promuovere altre
attività ad alto impatto ambientale: dalle trivellazioni, a nuovi
impianti a rischio, alle autostrade, a nuova Alta Velocità. Al suo
interno, prima degli eventi tragici degli ultimi giorni, la lotta al
dissesto idrogeologico era appena una citazione di opportunità:
3 miliardi dichiarati per 200 milioni realmente disponibili.
E a fronte dei quasi 5 miliardi stanziati per le operazioni ad
alto impatto; tra cui si resuscitano progetti di autostrade da tempo
superati, come la bizzarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla
massoneria filodemocristiana. Nelle ultime ore – sull’onda
emotiva degli eventi — l’esecutivo annuncia lo sblocco di 2,2 miliardi
antidissesto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.
Serve che gli impegni si traducano in risorse reali e per un
programma molto più ampio: è necessario un piano di risanamento del
territorio da 50 miliardi di euro nei prossimi dieci anni; di cui
almeno il 10% da impiegare subito. Se si pensa di ricorrere per
questo ai «300 miliardi di euro di investimenti europei promessi da
Junker» si rischia di restare agli annunci o di dilazionare troppo
le operazioni. Lo «Sblocca Italia» – come hanno già proposto gli
ambientalisti – deve diventare «Salva Italia», finalizzando le
risorse PER INTERO E SOLTANTO al risanamento del territorio,
e cancellando tutte le altre opere inutili e dannose contenute nel
provvedimento.
Deve essere ripristinata una strategia invisa al nostro attuale
premier: le politiche devono basarsi sulla pianificazione di
territorio e paesaggio.
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