di Marco Dotti, www.vita.it
L'astensionismo alle elezioni regionali di domenica scorsa è un dato allarmante che non va minimizzato. Il Premier Renzi ne parla come di un "fenomeno secondario", ma il politologo Marco Revelli invita a leggerlo nella chiave di una complessiva crisi di fiducia e di corruzione del legame sociale. Con un particolare: la disillusione, che finora toccava soprattutto i partiti, sta intaccando le istituzioni stesse
«C'è l'astensione per apatia, che si
riduce a una non azione, e c'è un'astensione per protesta, dove il non
voto pesa come e, oltre certe soglie, più dell'azione di voto. Con le
elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria dello scorso 23 novembre
siamo passati da una fase tutto sommato fisiologica, a una fase di
astensionismo diffuso che rischia di diventare patologia cronica del
sistema. Abbiamo chiesto una lettura dei dati a Marco Revelli,
politologo, professore all’Università del Piemonte Orientale, autore del
recente La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza), oltre che di quel Finale di partito (Einaudi, 2013) che aveva fatto arricciare il naso a più di un esponente dell’establishment politico-istituzionale.
«Non può esserci democrazia
funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale
democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Così si
esprimeva il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al Teatro
Toniolo di Mestre. A oggi, il 69% degli italiani ritiene che al vertice
della piramide della corruzione vi siano i partiti politici, verso i
quali 3 elettori su 5 dichiarano di nutrire profonda sfiducia, mentre,
dato ancora più allarmante, il 44% considera irrecuperabilmente corrotto
anche il Parlamento. Siamo davanti a qualcosa che sta intaccando le
istituzioni democratiche del Paese o è un fenomeno secondario, come ha
affermato ieri il Presidente del Consiglio Matteo Renzi?
Marco Revelli: Il dato
che viene dalla Calabria e, ancor di più, dall’Emilia Romagna, regione
ritenuta da sempre virtuosa per quanto riguarda la partecipazione al
voto e il senso civico, è sconvolgente. Minimizzare un dato del genere –
mai in Emilia Romagna l’affluenza era scesa sotto il 68%, mentre
domenica siamo arrivati a un 37,7% di votanti - può farci sconfinare
nel cinismo. C’è infatti una parte della nostra classe politica che fa
della bassa intensità democratica una propria risorsa, che fa della
crisi di rappresentanza un instrumentum regni, per non essere
disturbati. Il fatto che in Emilia abbia votato poco più di 1/3
dell’elettorato suona come un feroce campanello d’allarme per la nostra
democrazia. Significa, in sostanza, che i 2/3 del popolo sono fuori.
Sono gli scoraggiati delle democrazia che, come i giovani che né
studiano, né lavorano non si aspettano più nulla. Minimizzare questo
spaventoso campanello d’allarme è un segno di superficialità che
rischiamo di pagare a caro prezzo.
Si conferma la diagnosi infausta del
finale di partito, con una variante: oggi lo spauracchio del populismo e
dell’antipolitica hanno abbandonato la scena.
Marco Revelli: Populismo e
antipolitica sono stati inglobati nel sistema. Renzi è esattamente
questo. Ha fatto propria la vis polemica populista contro il Parlamento,
contro il Senato, contro i corpi intermedi e la pratica dall’alto. È un
populismo di governo, un populismo dall’alto. Altrettanto virulento di
quello che viene dal basso. La rozzezza con cui è stata maneggiata la
riforma del Senato è indicativa in tal senso.
Il nodo della rappresentanza riaffiora anche in quella riforma…
Marco Revelli: La cosa
grave è che non si è messo mano a una riforma per riqualificare la
rappresentanza, ma per darle il colpo di grazia, sostituendo alla
centralità del potere legislativo, la centralità del potere esecutivo. E
dentro il potere esecutivo garantire il ruolo personalistico del
leader.
Tutto questo come si declina nei dati concreti dell’Emilia Romagna?
Marco Revelli: Si
concretizza nella morte del partito. Renzi è terminator, porta alle
estreme conseguenze una crisi latente imprimendole un’accelerazione
brutale. Il partito non esiste più. Un partito che perde, tra una
tornata elettorale e l’altra, 700.000 voti sul 1.200.000 che aveva, che
perde più della metà del proprio bacino elettorale è un partito che non esiste
più o che esiste esclusivamente come appendice del leader. Ha ragione
Ilvo Diamanti quando parla di PDR, Partito di Renzi.
Ma se Renzi fallisse, cosa accadrebbe?
Marco Revelli: Io credo
che fallirà, quando sarà evidente che ha creato molte aspettative e le
aspettative bruceranno come illusioni, allora non ci sarà più niente. Ci
saranno i mostri generati dalla crisi, come negli anni Trenta. Le crisi
generano socialmente mostri: ferocia, cattivi sentimenti, rancore. E ci
sarà chi capitalizza tutto ciò per la propria forza politica.
In Calabria, dove il PD ha tenuto
maggiormente, l’impressione è di aver visto un Renzi in gabbia. Tutti,
dal candidato neo presidente Mario Oliverio ai dirigenti erano dell’area
del vecchio apparato, cuperliani o dalemiani… Renzi appariva un
“generale nel suo labirinto”. Quando si va nel territorio, le slide non
servono, servono i fanti...
Marco Revelli: I
rottamandi e il rottamatore, bella immagine. Con questo dato
impressionante per la Calabria. Il dato di tenuta relativa della
Calabria – solo qualche punto in più, in verità – ci dice non che il
partito resiste, ma che a resistere sono vecchie logiche. Ma queste
logiche tengono sempre meno. Anche qui, attraverso la lente del partito
esce una radiografia dello stato comatoso della nostra democrazia.
Questo accade mentre si discute di una nuova legge elettorale nazionale…
Marco Revelli: Adesso
dobbiamo vedere come si muoveranno i dirimpettai del PD, che sono stati
cancellati di fatto dalle scorse elezioni. Questa liquefazione politica
non rende per nulla facile il lavoro di chi deve governare. È sempre più
complesso definire tattiche e strategie relativamente stabili. Si è
costretti a navigare a vista, questo preoccupa ancora di più perché
rafforza il ruolo demagogico del leader che, dinanzi a una crisi di
razionalità dell’agire politico, avrà la tentazione di usare tecniche
sempre più retoriche, colpi di teatro e speriamo non colpi di testa.
Non si configura invece una fase di
stallo, dove la disaffezione diverrà sistemica? Come avveniva negli Usa,
prima di Obama, dove il non voto era la regola, le istituzioni
potrebbero essere riconfigurate per autoalimentarsi anche in assenza di
consenso generale?
Marco Revelli: Questa era
la scommessa dei dottor Stranamore: una democrazia a bassissima
intensità, con una parte del popolo fuori e, dentro, solo quelli che
possono sedersi alla tavola. Ho l’impressione che, proprio per il modo
scomposto con cui si è mosso Renzi, che questa possibilità sia stata
bruciata. Oggi la società si esprime in forme opposte: da una parte le
piazze del lavoro, dall’altra le periferie malate, la forma “tossica”
del disagio sociale. È un bel "capolavoro", purtroppo. Un "capolavoro"
che paralizza l'Italia tramite tre populismi: quello renziano, quello
grillino e quello della destra sociale.
Il risveglio sarà violento, dunque?
Marco Revelli: I fatti
hanno la testa dura, non si lasciano domare dai tweet. La realtà è il
dramma di ogni risveglio. Questo consegnerà il Paese a una destra
aggressiva o riaprirà i giochi di una speranza che, per ora, possiamo
eufemisticamente definire "complicata:"
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