Nel loro ultimo libro, La Grande Devalorizzazione. Perchè la speculazione ed il debito statale non sono la causa della crisi, Ernst Lohoff eNorbert Trenkle rivolgono una particolare attenzione all'evoluzione dell'economia reale nella loro analisi della crisi, distinguendosi in cio' dal novero delle altre pubblicazioni che trattano lo stesso tema. Ralf Hutter, giornalista del quotidiano Neues Deutschland, ha incontrato Ernst Lohoff (intervista apparsa sul citato quotidiano il 13.12.2012)
Ralf HUTTER: Voi affermate che il vostro libro La Grande Devalorizzazione va piu' in profondità di tutti gli altri lavori che trattano la crisi economica. Perchè questo?
Ernst LOHOFF: Innanzitutto perché noi abbiamo studiato la correlazione che vi é tra questa crisi e la progressiva scomparsa del lavoro. La maggior parte delle analisi si limitano a dire che vi sono state delle derive a livello dei mercati finanziari ma che l'economia “reale” (le virgolette sono del traduttore, ndr), è rimasta fondamentalmente sana. Noi invece consideriamo anche nel dettaglio l'evoluzione dell'economia “reale”. Ragioniamo essenzialmente sul piano delle categorie, avendo quale sistema di riferimento teorico la critica marxiana all'economia politica.
RH: E' esatto affermare che l'attuale crisi s'era in fondo già manifestata nel 1857, come voi lasciavate intendere nel corso di una conferenza tenuta non molto tempo fa?
EL: No. Fino a oggi non s'era mai visto, nemmeno lontanamente, l'accumulazione del capitale scatenarsi sino a questo punto di effettivo sfruttamento del lavoro. Quello che non e' cambiato, di contro, è il fatto che gli episodi di crisi aperta partono, oggi come ieri, dai mercati finanziari. E oggi come ieri gli osservatori ne hanno dedotto che la causa del male risiedesse nella finanza.
Marx aveva già criticato questa inversione di causa ed effetto; se la crisi si presentava sotto forma di crisi finanziaria – devalorizzazioni, fallimenti bancari, catene del credito che si rompono – Marx puntualizzava il fatto che il sottofondo era da ricercarsi sempre nell'evoluzione dell'economia “reale” (1). Il gonfiarsi di una super-struttura finanziaria dipendeva invariabilmente dal prosciugamento della valorizzazione nel settore dell'economia “reale”.
RH: La “terza rivoluzione industriale” gioca un ruolo importante nella vostra analisi. Cosa intendete quando usate questa espressione e quando ebbe luogo tale rivoluzione?
EL: Questo concetto era già in uso negli anni '80. Designa l'introduzione della micro-elettronica, vale a dire l'informatizzazione della produzione, che d'altronde prosegue ancora oggigiorno. Quello che rende tale trasformazione assai interessante riguardo al nostro approccio teorico, e' che essa segna una novità rispetto ai precedenti sconvolgimenti della base produttiva verificatesi nella storia del capitalismo. I grandi progressi e le innovazioni tecnologiche precedenti consistevano essenzialmente nell'afflusso di nuovi prodotti sul mercato, con la conseguente apertura di nuovi campi di sfruttamento del lavoro vivo. L'industria automobilistica – una delle industrie che hanno contribuito al leggendario boomdel dopo-guerra – ne è un tipico esempio. Con la rivoluzione micro-elettronica, quello che è decisivo, ciò che essa ha messo in opera ha quale effetto di rivoluzionare immediatamente gli stessi processi in tutti i campi della produzione e, in quanto fattore di razionalizzazione, di eliminare il lavoro vivo in tutti i campi. Lo sfruttamento del lavoro vivo diviene obsoleto. Con questa innovazione, il capitalismo sega il ramo su cui e' seduto.
RH: A questo punto interviene uno dei concetti centrali del vostro lavoro; il “capitale fittizio”. Di cosa si tratta?
EL: Il concetto di “capitale fittizio” dovrebbe permetterci di spiegare il fatto che, nel corso di trent'anni, questo processo di base non si sia affatto tradotto in crisi aperta. Ecco qua la spiegazione; il capitale ha schivato il problema trovando rifugio presso la super-struttura finanziaria. E' la caratteristica di tutta un'epoca. “Capitale fittizio” è un termine generico per designare azioni, prodotti derivati, titoli di credito, etc. Esso proviene anche da Marx, che l'introdusse come una sorta d'antitesi al “capitale funzionante” (2). Il capitale funzionante è il capitale che si moltiplica a causa dell'utilizzazione della forza-lavoro. Il capitale fittizio, di contro, viene creato per scambiare denaro dietro promessa di pagamento. Questa forma di capitale rappresenta dunque l'anticipazione di una ricchezza a venire.
RH:Nel vostro libro, voi parlate dei “limiti del programma di crescita Keynesiano” (capitoli III.2,2). Voi vedete in qualche parte d'Europa un partito parlamentare che proponga qualcosa d'altro rispetto al keynesismo per risolvere la crisi?
EL: No, non lo vediamo. Non parlano tutti che di quello, ci si ostina li' sopra. Solamente, questi signori e signore su un tale piano sono un pochino in ritardo. A dir il vero, infatti, il keynesianismo, che consiste nello stimolare la domanda aumentando la spesa pubblica, è sorpassato quanto meno a partire dagli anni '70. Ed ecco che si rispolvera questo vecchio programma. Ciò detto, quello che gli stati pongono in opera oggi non e' del tutto una politica keynesiana classica. E' piuttosto una specie di “keynesianismo di salvataggio” a favore dell'industria della finanza. Questo ritorno al keynesianismo ed a un debito pubblico eccessivo e' stato essenzialmente un tentativo per ridimensionare il disastro bancario. E' un aspetto assolutamente secondario che si sia cercato di rilanciare la domanda. Essenzialmente si è trattato di socializzare e nazionalizzare le prospettive di guadagni futuri dell'economia privata, che era scoppiata come i palloni troppo gonfi.
RH; Tu e il tuo co-autore Robert Trenkle, ma anche Robert Kurz, che spesso è intervenuto sulle nostre colonne, avete acquistato una certa notorietà in quanto membri del gruppo di teorici battezzato “Krisis”, un gruppo al quale viene rimproverato di attirare su di noi la catastrofe, il crollo del sistema, a forza di parlare senza sosta dei limiti del capitalismo. Quale senso date voi alla parola “limite” ( in francese la parola “limite” viene qui utilizzata per designare il confine in senso relativo, quindi non un ostacolo invalicabile ndr) ?
EL: “Limite” qua non va inteso che si sta per verificare un grande shock e addio al capitalismo; qua significa che la capacità di espansione del sistema capitalista e la sua capacità a perseguire i suoi propri obiettivi – per intenderci, trasformare il capitale in sempre maggiore capitale – conduce, proprio attraverso tale movimento d'espansione a lungo termine, a qualcosa d'assurdo. Questo processo di allargamento che ha caratterizzato gli ultimi due secoli, nei quali sempre più il lavoro vivo è stato ricondotto all'interno del sistema capitalista mentre montagne di capitale sempre più alte venivano ammassate, deve necessariamente condurre ad un punto di ribaltamento a partire dal quale tale processo non è più possibile, e questo sistema si contrae.
RH: Come si contrae questo sistema?
EL: Voglio dire che s'interrompe in parte la riproduzione sociale e che la stessa capacità di sopravvivenza di questa società e' rimessa in discussione. Lo si può d'altronde già constatare nei paesi toccati dalla crisi.
RH: Nel loro caso, pero', il concetto di “limite” secondo me non e' affatto pertinente nella misura in cui quello che vediamo venire alla luce non è altro che una nuova forma di capitalismo.
EL: La parola “limite” rinvia alla logica del sistema e non significa affatto che stia emergendo una società migliore. Noi d'altronde utilizziamo poco questo termine, proprio per questa ragione. Noi piuttosto facciamo ricorso al concetto marxiano di “limite-invalicabile interno” (“borne interne” il termine in francese qui utilizzato ndt.) (3) . Globalmente, al livello dell'intera società, vi e' meno capitale disponibile e ciò perchè questa società deve fatalmente impoverirsi.
RH; In cui allora la guerra ed il terrore devono regnare. Lo si e' visto nel caso del nazional-socialismo, che in effetti non ha toccato il sistema capitalista.
EL; Si, tuttavia il nazional-socialismo non aveva al sotto-fondo una crisi fondamentale cosi' profonda come la nostra. Quali forme politiche rischiamo di vedere apparire oggigiorno, questo la nostra analisi non è ancora in grado di indicarlo.
Note al testo
1 Sulla critica di Marx sul 1857 e su tale questione in generale, leggere Claus Peter Ortlieb, Fine du joeu. Purquoi la devalorisation de l'argent n'est plus qu'une question de temps (2013).
2 Fungierendes Kapital, altrimenti detto “il capitale in attività”, quello che acquista della forza lavoro, etc.
3 Sulla distinzione tra le parole francesi “borne” (in tedesco S hranke, limite-barriera invalicabile del capitale) e “limite” ( in tedesco, Granze, limite superabile dal capitale attraverso la crisi ) vedi G.F.Hegel, Science della logique, Paris, Abier Montaigne, 1972, p 95-124. Presso Marx, che va riprendere per conto suo questa distinzione, il termine francese “borne”/Schranke costituisce in qualche modo un limite assoluto che il capitale non puo' oltrepassare che al prezzo della propria scomparsa, mentre i limiti relativi non sono posti che per essere superati permettendo al capitale di riprodursi in scala allargata. La prima nozione corrisponde quindi alla crisi finale del capitalismo, mentre la seconda rinvia alle crisi immanenti che costellano l'automovimento del capitale.
Libera traduzione effettuata da Gianni A. (novembre 2014) da articolo in francese pubblicato sulla rivista bilingue (tedesco – francese) Archipel. Journal du forum civique européen - n° 228 luglio - agosto 2014 – Basel (Forum civique européen - Case Postal 4004 Basel CH)
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