Queste giornate post-elettorali
ci consegnano uno scenario politico quanto mai in fermento. E non ci
riferiamo tanto al dibattito interno ai partiti, costretti a
riconfigurare il loro intervento alla luce dei risultati delle Europee –
pensiamo alle polemiche che stanno attraversando il Movimento 5 Stelle
(su cui fanno pressione i media mainstream nella speranza che il
giocattolo di Grillo finalmente si rompa), alle spinte “centriste” di
SEL che vuole entrare nel PD, allo spostamento di Forza Italia verso la
Lega etc…
Ci riferiamo piuttosto a una certa fibrillazione di tutti gli attori del mondo padronale che, preso atto del grosso score del PD di Renzi, su cui pure hanno investito un bel po’ in questi mesi, ora vogliono passare velocemente all’“incasso”. Consapevoli
che elezioni europee hanno dato un consistente (per quanto a nostro
avviso momentaneo) sostegno alle politiche dell'ex-sindaco di Firenze e
al suo giovane governo del fare, ora vogliono tutto!
Ecco quindi che Confindustria e Bankitalia fra tutti vanno giù di analisi e prescrizioni che puntano a dare la linea al
Governo, a spingerlo a intervenire sui campi più diversi, ed ecco che
prontamente Renzi “traduce” alla direzione del PD di stamattina le loro
volontà.
Ovviamente queste volontà hanno primariamente a che fare con la contraddizione capitale/lavoro, ovvero con la necessità dei capitalisti di schiacciare i lavoratori. Purtroppo non è una nostra fissa ideologica! Sono le stesse parole del premier che lo confermano: per Renzi “la madre di tutte le battaglie […] è la riforma del lavoro: il decreto Poletti è un primo momento di sintesi molto importante, ma ora bisogna andare avanti”. Cosa voglia dire questo lo abbiamo spiegato ormai tante volte: il Jobs Act è una complessiva riforma del mondo del lavoro che punta in sostanza a rendere i lavoratori più precari, con meno diritti, con salari più bassi.
Ovviamente queste volontà hanno primariamente a che fare con la contraddizione capitale/lavoro, ovvero con la necessità dei capitalisti di schiacciare i lavoratori. Purtroppo non è una nostra fissa ideologica! Sono le stesse parole del premier che lo confermano: per Renzi “la madre di tutte le battaglie […] è la riforma del lavoro: il decreto Poletti è un primo momento di sintesi molto importante, ma ora bisogna andare avanti”. Cosa voglia dire questo lo abbiamo spiegato ormai tante volte: il Jobs Act è una complessiva riforma del mondo del lavoro che punta in sostanza a rendere i lavoratori più precari, con meno diritti, con salari più bassi.
La prima parte, sulla “flessibilità in
entrata”, ormai è già stata approvata, ma ora bisogna velocemente
approvare la legge-delega, ovvero tutta la parte che riguarda la
“flessibilità in uscita”. Con una forza-lavoro mortificata e disposta a tutto l’Italia potrà finalmente diventare attrattiva per gli investimenti:
questo vuole fare Renzi, da un lato garantendosi il supporto della
borghesia e dall’altro gettando fumo negli occhi di tanti proletari
disperati e senza lavoro!
A ben guardare le sue argomentazioni non sono troppo diverse da quelle di Bankitalia, di cui si fa proprio oggi portavoce il Governatore Ignazio Visco (vedi le sue “Considerazioni finali” – sull’importanza di questo tipo di documenti rinviamo alle “Considerazioni finali” di Mario Draghi del 2011, che di fatto anticiparono tutto quello che sarebbe successo negli anni successivi). Visco
comincia infatti la sua relazione presentando una situazione di
difficoltà, da cui però si può uscire se si fanno le giuste mosse:
“Nel nostro paese la lunga recessione, in atto dal 2008 con una breve
interruzione, si è arrestata alla fine dello scorso anno, essenzialmente
grazie alla domanda estera […] Ma una vera ripresa stenta ad avviarsi.
Il graduale miglioramento delle aspettative tarda a tradursi in un
solido recupero dell’attività economica”.
In sostanza, stiamo lentamente uscendo dalla crisi perché ci stiamo in parte agganciando a una ripresa che passa a livello internazionale (“molte imprese italiane hanno saputo difendere, in alcuni casi aumentare, le loro quote sui mercati esteri; è tornata in attivo la bilancia corrente, anche al netto degli effetti del ciclo”). Ma la domanda interna resta stagnante e questo impedisce alla produzione industriale – vista ancora una volta come il luogo privilegiato della produzione della ricchezza e dunque della crescita – di riprendersi (“la caduta dell’attività rivolta all’interno è stata drammatica: nel complesso la produzione industriale si è contratta di un quarto. Nell’ultimo trimestre del 2013, mentre le esportazioni erano quasi tornate ai livelli della fine del 2007, i consumi delle famiglie erano ancora inferiori di circa l’8%, gli investimenti del 26, con una perdita di capacità produttiva nell’industria dell’ordine del 15%”).
Per ricreare una domanda che possa far ripartire anche quella produzione industriale rivolta all’interno ci vuole dunque “un duraturo aumento dell’occupazione”. D’altra parte “tra il 2007 e il 2013 l’occupazione è scesa di oltre un milione di persone, quasi interamente nell’industria; è anche diminuito il numero medio di ore lavorate […]. L’offerta di posti di lavoro tornerà a salire solo lentamente”.
Insomma: l’industria italiana riparte se riparte la domanda, la domanda riparte se riparte l’occupazione, l’occupazione riparte se riparte l’industria… come uscire da questo circolo vizioso? Gli 80 euro, ovvero la riduzione del cuneo fiscale per dieci milioni di lavoratori, una sorta di liquidità iniettata nel sistema (su cui peraltro vanno ancora trovate le coperture), sono giusto un timido inizio: il punto vero, dice Visco, è attrarre investimenti (“Il rapporto tra investimenti lordi e PIL è sceso di 4 punti percentuali dal 2007, portandosi nel 2013 al 17 per cento, il minimo dal dopoguerra”).
Ma come si attraggono gli investimenti? Qualcosa, dice Visco, si sta già muovendo: “Sul finire del 2013, i giudizi sulle condizioni per investire sono divenuti più favorevoli, soprattutto da parte delle aziende più grandi” ma “questi primi segnali positivi potranno consolidarsi se migliorerà il contesto in cui si svolge l'attività d'impresa”. Bisogna cioè creare maggiori condizioni di profittabilità, intervenire sul mercato del lavoro ancora troppo rigido. E bisogna farla finita con il piccolo è bello, spingendo l’apparato industriale italiano verso la concentrazione, il consorzio, in grado di sostenere aumenti di produttività: “la chiave è l’aumento degli investimenti fissi”. Se i piani industriali sono “meritevoli” e di largo respiro, dice Visco, il sistema creditizio non tarderà a favorirli.
Ancora più nel dettaglio del mercato del lavoro era entrata qualche giorno fa Confindustria, e per questo ci vogliamo ora soffermare sulla sua analisi. Tre giorni prima delle elezioni europee, infatti, con una precisa attenzione agli equilibri politici, Confindustria presentava un documento dal titolo piuttosto eloquente: “Le proposte per il mercato del lavoro e la contrattazione”. Secondo i maggiori esperti italiani dello sfruttamento della forza-lavoro, gli elementi di criticità della situazione economica italiana provenivano nientemeno che dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla “rigidità delle mansioni”!
Andiamo con ordine. L’analisi e le proposte del padronato sono un elemento di continuità nella politica italiana, sebbene non sempre abbiano trovato spazio nei provvedimenti governativi. Alcuni processi di trasformazione che Confindustria invoca dai primi anni ’90, ad esempio, hanno proceduto molto più lentamente di quanto richiesto, per quanto le conseguenze non siano state meno disastrose. Ora, complice la crisi economica e istituzionale che ha scosso le radici dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni e del consenso politico, sotto la spinta dei “mercati” e delle istituzioni economiche sovranazionali, il Governo Renzi ha dovuto prendere un ritmo ben differente. Ed è molto probabile che Confindustria venga finalmente accontentata.
In sostanza, stiamo lentamente uscendo dalla crisi perché ci stiamo in parte agganciando a una ripresa che passa a livello internazionale (“molte imprese italiane hanno saputo difendere, in alcuni casi aumentare, le loro quote sui mercati esteri; è tornata in attivo la bilancia corrente, anche al netto degli effetti del ciclo”). Ma la domanda interna resta stagnante e questo impedisce alla produzione industriale – vista ancora una volta come il luogo privilegiato della produzione della ricchezza e dunque della crescita – di riprendersi (“la caduta dell’attività rivolta all’interno è stata drammatica: nel complesso la produzione industriale si è contratta di un quarto. Nell’ultimo trimestre del 2013, mentre le esportazioni erano quasi tornate ai livelli della fine del 2007, i consumi delle famiglie erano ancora inferiori di circa l’8%, gli investimenti del 26, con una perdita di capacità produttiva nell’industria dell’ordine del 15%”).
Per ricreare una domanda che possa far ripartire anche quella produzione industriale rivolta all’interno ci vuole dunque “un duraturo aumento dell’occupazione”. D’altra parte “tra il 2007 e il 2013 l’occupazione è scesa di oltre un milione di persone, quasi interamente nell’industria; è anche diminuito il numero medio di ore lavorate […]. L’offerta di posti di lavoro tornerà a salire solo lentamente”.
Insomma: l’industria italiana riparte se riparte la domanda, la domanda riparte se riparte l’occupazione, l’occupazione riparte se riparte l’industria… come uscire da questo circolo vizioso? Gli 80 euro, ovvero la riduzione del cuneo fiscale per dieci milioni di lavoratori, una sorta di liquidità iniettata nel sistema (su cui peraltro vanno ancora trovate le coperture), sono giusto un timido inizio: il punto vero, dice Visco, è attrarre investimenti (“Il rapporto tra investimenti lordi e PIL è sceso di 4 punti percentuali dal 2007, portandosi nel 2013 al 17 per cento, il minimo dal dopoguerra”).
Ma come si attraggono gli investimenti? Qualcosa, dice Visco, si sta già muovendo: “Sul finire del 2013, i giudizi sulle condizioni per investire sono divenuti più favorevoli, soprattutto da parte delle aziende più grandi” ma “questi primi segnali positivi potranno consolidarsi se migliorerà il contesto in cui si svolge l'attività d'impresa”. Bisogna cioè creare maggiori condizioni di profittabilità, intervenire sul mercato del lavoro ancora troppo rigido. E bisogna farla finita con il piccolo è bello, spingendo l’apparato industriale italiano verso la concentrazione, il consorzio, in grado di sostenere aumenti di produttività: “la chiave è l’aumento degli investimenti fissi”. Se i piani industriali sono “meritevoli” e di largo respiro, dice Visco, il sistema creditizio non tarderà a favorirli.
Ancora più nel dettaglio del mercato del lavoro era entrata qualche giorno fa Confindustria, e per questo ci vogliamo ora soffermare sulla sua analisi. Tre giorni prima delle elezioni europee, infatti, con una precisa attenzione agli equilibri politici, Confindustria presentava un documento dal titolo piuttosto eloquente: “Le proposte per il mercato del lavoro e la contrattazione”. Secondo i maggiori esperti italiani dello sfruttamento della forza-lavoro, gli elementi di criticità della situazione economica italiana provenivano nientemeno che dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dalla “rigidità delle mansioni”!
Andiamo con ordine. L’analisi e le proposte del padronato sono un elemento di continuità nella politica italiana, sebbene non sempre abbiano trovato spazio nei provvedimenti governativi. Alcuni processi di trasformazione che Confindustria invoca dai primi anni ’90, ad esempio, hanno proceduto molto più lentamente di quanto richiesto, per quanto le conseguenze non siano state meno disastrose. Ora, complice la crisi economica e istituzionale che ha scosso le radici dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni e del consenso politico, sotto la spinta dei “mercati” e delle istituzioni economiche sovranazionali, il Governo Renzi ha dovuto prendere un ritmo ben differente. Ed è molto probabile che Confindustria venga finalmente accontentata.
Nel documento
pubblicato la settimana scorsa, Confindustria parte dalla constatazione
che le riforme del mercato del lavoro degli ultimi vent’anni non hanno
sostanzialmente modificato la storica segmentazione tra insider e outsider.
I dipendenti a tempo pieno e con un contratto a tempo indeterminato
avrebbero infatti un minor rischio di diventare disoccupati. I due
grafici su cui si basa questo innovativo paradigma evidenziano gli effetti delle riforme sul mercato del lavoro che sono particolarmente palesi nell'immagine a destra.
Nella fascia d'età
15-24 anni gli anni 1997, 2001 e 2003 sono punti di discontinuità. Si
tratta degli anni in cui sono stati introdotti le riforme del mercato
del lavoro (pacchetto Treu, Riforma dei contratti a tempo determinato e
cosiddetta Legge Biagi) (Nota 1). Se quindi la constatazione di una segmentazione del mercato del lavoro ha una sua sostanza essa serve
ad invocare una flessibilità maggiore anche in uscita dai contratti a
tempo indeterminato, ovvero ad attaccare le condizioni in modo
generalizzato piuttosto che a migliorare quelle di chi ha subito queste forme contrattuali fin da subito.
Le segmentazioni del mercato del lavoro che Confindustria sostiene dovrebbero essere moltiplicate e continuamente riprodotte al fine di mantenere la forza-lavoro differenziata per: retribuzioni, contratti, sistemi di orario e di ferie, mansioni. Il confinamento in varie nicchie lavorative, possibilmente una nicchia per ogni lavoratore, rende senza dubbio più difficile organizzarsi. Non a caso, il padronato invita il governo alla cautela sulla questione del contratto unico e sulla cosiddetta flexisecurity. I capitani coraggiosi chiedono di poter godere di tutte le tipologie contrattuali esistenti che dovrebbero essere impregnate di flessibilità e di maggiore sicurezza. Peccato che con security gli eroi dello sfruttamento non intendano garanzie contrattuali che infatti nelle proposte non compaiono, bensì la sicurezza di poter controllare i lavoratori con telecamere o altri strumenti di telecontrollo di cui chiedono di rivedere la normativa che per ora ne vieta l'utilizzo…
Le segmentazioni del mercato del lavoro che Confindustria sostiene dovrebbero essere moltiplicate e continuamente riprodotte al fine di mantenere la forza-lavoro differenziata per: retribuzioni, contratti, sistemi di orario e di ferie, mansioni. Il confinamento in varie nicchie lavorative, possibilmente una nicchia per ogni lavoratore, rende senza dubbio più difficile organizzarsi. Non a caso, il padronato invita il governo alla cautela sulla questione del contratto unico e sulla cosiddetta flexisecurity. I capitani coraggiosi chiedono di poter godere di tutte le tipologie contrattuali esistenti che dovrebbero essere impregnate di flessibilità e di maggiore sicurezza. Peccato che con security gli eroi dello sfruttamento non intendano garanzie contrattuali che infatti nelle proposte non compaiono, bensì la sicurezza di poter controllare i lavoratori con telecamere o altri strumenti di telecontrollo di cui chiedono di rivedere la normativa che per ora ne vieta l'utilizzo…
L’analisi di
Confindustria non è priva di motivi di interesse anche per un
ragionamento complessivo sull’Europa e sulla capacità dei diversi paesi
di mantenere livelli di competitività rispetto agli altri. Vale a dire
quali sono i modi migliori per sfruttare la forza-lavoro. In effetti in Italia, secondo gli intellettuali al soldo dei padroni, i lavoratori hanno pagato meno rispetto ad altri paesi europei, riuscendo a resistere al taglio indiscriminato dei salari. Soprattutto l’andamento salariale non è ancora completamente legato ai livelli della produttività aziendale. Si
tratta quindi di una vera e propria ingiustizia: imprenditori e manager
non possono fare investimenti redditizi a causa di questa rigidità dei
salari e delle mansioni che provoca un circolo vizioso che tarpa le ali
dello sviluppo. Di fronte a tale tracotanza si potrebbe ipotizzare anche
che Confindustria stia pensando di ricorrere a qualche Tribunale
speciale per chiedere i danni!
Altrove le cose sembrano andare differentemente, così in Germania i salari avrebbero avuto un grosso contenimento a partire dai primi anni 2000 e soprattutto sono strettamente legati all'andamento della produttività. Detto in termini brutali: la crescita della produttività è stata molto superiore alla crescita del costo orario del lavoro. La stessa Spagna, sebbene con ritardo, a partire dal 2009 avrebbe invertito la tendenza all'aumento dei salari nominali diminuendo contemporaneamente il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP).
Se la perdita di competitività e quindi il persistere della crisi è dovuto alla rigidità di salari e di contratto, la proposta vien da sé: elasticità dei contratti collettivi nazionali. Vale a dire poterli modificare a proprio piacimento, magari con l’aiuto di un qualche sindacato, che tanto si trova sempre qualcuno che firma: “Dato il divario di produttività, il maggior aumento di costo del lavoro italiano rispetto alla Germania non avrebbe dovuto aver luogo e ciò ha accresciuto la perdita di competitività e rimanda all’inadeguatezza delle regole della contrattazione collettiva nazionale”.
Sotto questo punto di vista è chiaro che il cosiddetto Decreto Poletti poi convertito in legge, insomma il Jobs Act capitolo primo, è un piacevole antipasto per Confindustria, in particolare per quanto riguarda l’eliminazione della causale nei contratti a termine e per la possibilità di prorogare questi contratti senza tanti lacci e lacciuoli. L’appetito vien mangiando. Proprio per questo il padronato ritiene che le modifiche del contratto d'apprendistato siano insufficienti: occorre abbassare l'età minima per questa forma contrattuale (forse dai sei anni in su?), fornire maggiore libertà alle imprese di poter decidere la qualifica professionale, meno tasse e oneri sociali, e la possibilità di buttar fuori facilmente gli apprendisti insubordinati.
Il quadro che Confindustria presenta si completa con nuove politiche attive e passive, cioè con la riorganizzazione da un lato dei Centri per l'impiego, delle agenzie interinali e dei fondi per il reinserimento e dall'altro lato degli ammortizzatori sociali.
Altrove le cose sembrano andare differentemente, così in Germania i salari avrebbero avuto un grosso contenimento a partire dai primi anni 2000 e soprattutto sono strettamente legati all'andamento della produttività. Detto in termini brutali: la crescita della produttività è stata molto superiore alla crescita del costo orario del lavoro. La stessa Spagna, sebbene con ritardo, a partire dal 2009 avrebbe invertito la tendenza all'aumento dei salari nominali diminuendo contemporaneamente il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP).
Se la perdita di competitività e quindi il persistere della crisi è dovuto alla rigidità di salari e di contratto, la proposta vien da sé: elasticità dei contratti collettivi nazionali. Vale a dire poterli modificare a proprio piacimento, magari con l’aiuto di un qualche sindacato, che tanto si trova sempre qualcuno che firma: “Dato il divario di produttività, il maggior aumento di costo del lavoro italiano rispetto alla Germania non avrebbe dovuto aver luogo e ciò ha accresciuto la perdita di competitività e rimanda all’inadeguatezza delle regole della contrattazione collettiva nazionale”.
Sotto questo punto di vista è chiaro che il cosiddetto Decreto Poletti poi convertito in legge, insomma il Jobs Act capitolo primo, è un piacevole antipasto per Confindustria, in particolare per quanto riguarda l’eliminazione della causale nei contratti a termine e per la possibilità di prorogare questi contratti senza tanti lacci e lacciuoli. L’appetito vien mangiando. Proprio per questo il padronato ritiene che le modifiche del contratto d'apprendistato siano insufficienti: occorre abbassare l'età minima per questa forma contrattuale (forse dai sei anni in su?), fornire maggiore libertà alle imprese di poter decidere la qualifica professionale, meno tasse e oneri sociali, e la possibilità di buttar fuori facilmente gli apprendisti insubordinati.
Il quadro che Confindustria presenta si completa con nuove politiche attive e passive, cioè con la riorganizzazione da un lato dei Centri per l'impiego, delle agenzie interinali e dei fondi per il reinserimento e dall'altro lato degli ammortizzatori sociali.
La critica ai Centri per l’impiego,
devastati dalle varie riforme e svuotati del loro ruolo regolatore del
mercato del lavoro, è un facile tiro al piccione, ricordando che oltre i
tre quarti dei giovani trova lavoro tramite canali informali (amicizie,
parentele e conoscenze). Sebbene queste modalità implichino spesso un
depotenziamento del conflitto lavorativo, implicano anche una bassa
dinamicità della forza-lavoro che si lega alla struttura delle piccole e
medie imprese, rappresentate solo in parte dalla Confindustria.
La proposta, già abbondantemente circolata negli anni passati e già
realtà in altri paesi europei è quella di una maggiore integrazione fra i
Centri per l'impiego e le agenzie private. Le politiche del
lavoro governative dovrebbero infatti legare le indennità di
disoccupazione previsti dalla nuova ASPI alla partecipazione attiva a
corsi di formazione e tirocini professionalizzanti. Il workfare
all’italiana, prevede quindi altro lavoro coatto gratuito fondato su
disincentivi graduati in funzione della tipologia di proposta e tramite
la definizione di un “Piano di azione individuale”. Vale a dire una
messa al lavoro generalizzata in cui la disponibilità al lavoro, a
qualsiasi mansione, diventa l'aspetto centrale a cui si lega la
retribuzione.
La riorganizzazione degli ammortizzatori sociali dovrebbe prevedere, secondo gli eroi del capitale, l'eliminazione progressiva di tutte le forme di cassa integrazione straordinaria e in deroga, così come della mobilità, per giungere a una situazione in cui esistano solo cassa ordinaria e l'indennità di disoccupazione unica ASPI. Occorre infatti rompere le rigidità delle regole della cassa integrazione attuale che costringe le aziende all'eventuale ripresa dell'attività a sfruttare gli stessi lavoratori alle condizioni contrattuali precedenti. Uno strumento, quello della cassa integrazione che nonostante le molte ambiguità ha rappresentato spesso uno strumento di tenuta dell'unità dei lavoratori (Nota 2).
La riorganizzazione degli ammortizzatori sociali dovrebbe prevedere, secondo gli eroi del capitale, l'eliminazione progressiva di tutte le forme di cassa integrazione straordinaria e in deroga, così come della mobilità, per giungere a una situazione in cui esistano solo cassa ordinaria e l'indennità di disoccupazione unica ASPI. Occorre infatti rompere le rigidità delle regole della cassa integrazione attuale che costringe le aziende all'eventuale ripresa dell'attività a sfruttare gli stessi lavoratori alle condizioni contrattuali precedenti. Uno strumento, quello della cassa integrazione che nonostante le molte ambiguità ha rappresentato spesso uno strumento di tenuta dell'unità dei lavoratori (Nota 2).
I tentativi di
spingere l’acceleratore sui processo di individualizzazione e di
precarizzazione non è proprio dietro l'angolo e di questo ne sono ben
consci anche gli industriali, che infatti concludono il documento con
alcune modeste proposte sulla contrattazione. I passi fatti
finora in particolare con l'accordo sulla rappresentanza firmato con i
tre sindacati confederali, sono salutati positivamente da Confindustria
che ritiene sia il momento di accelerare il percorso della
“derogabilità” del contratto collettivo nazionale a favore
della contrattazione collettiva aziendale. L’idea, pare di capire è che
un salario orario minimo a livello nazionale potrebbe rendere obsoleto
il contratto nazionale, sostituito da accordi aziendali sui livelli
salariali sulla base della produttività.
Ma all’Assemblea annuale di
Confindustria di ieri non c’è stato troppo spazio per le finezze.
Squinzi ha preferito andare al sodo: dateci quello che vogliamo. E il
Ministro dello Sviluppo Federica Guidi (per la cronaca un’industriale
anche lei) gli ha risposto annunciando entro il 20 giugno un Consiglio
dei Ministri con misure a favore delle imprese, perché “Dobbiamo dire basta alla dilagante cultura anti-imprenditoriale. Basta alla criminalizzazione del profitto”.
Se questo è il piano di attacco della borghesia, cosa possiamo fare noi? Smettere di andare in ordine sparso contro i soggetti più vari e indicare chiaramente il nemico comune, costruendo così una mobilitazione di massa contro questo Governo. Per una volta siamo d’accordo con il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, quando ritiene che sia arrivato il momento di “superare le vecchie logiche e non avere paura del nuovo”: occorre che la classe operaia (ma anche tutto il variegato mondo del movimento o della sinistra) si liberi della sindrome di sconfitta e della paura della crisi prendendo in mano il proprio destino. Forse così è possibile anche contrastare le politiche padronali e governative che stanno avanzando velocemente.
Se questo è il piano di attacco della borghesia, cosa possiamo fare noi? Smettere di andare in ordine sparso contro i soggetti più vari e indicare chiaramente il nemico comune, costruendo così una mobilitazione di massa contro questo Governo. Per una volta siamo d’accordo con il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, quando ritiene che sia arrivato il momento di “superare le vecchie logiche e non avere paura del nuovo”: occorre che la classe operaia (ma anche tutto il variegato mondo del movimento o della sinistra) si liberi della sindrome di sconfitta e della paura della crisi prendendo in mano il proprio destino. Forse così è possibile anche contrastare le politiche padronali e governative che stanno avanzando velocemente.
Nota 1 - La
bassa percentuale di contratti a termine che si vede dai grafici in
Gran Bretagna si spiega con la facilità di rescissione del contratto a
tempo indeterminato da parte datoriale che di fatto non rende
“necessario” il ricorso a contratti a termine. Non è un caso che a
questo modello guardi il vice presidente di Confindustria alla fine di
un intervista rilasciata prima dell'uscita di questo documento.
Nota 2 -
La cassa integrazione è stata anche altro ovvero uno strumento per le
medie e grandi aziende per concentrare la produzione in determinati
periodi, anche con l'uso degli straordinari, per poi tornare a lasciare i
lavoratori in cassa integrazione, massimizzando i profitti aziendali.
Ma questo si potrà ancora fare con la cassa ordinaria.
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