Nell’intervista a Nichi Vendola pubblicata su il manifesto del 16 ottobre scorso su alcune questioni, e non certo secondarie, le parole si sono chiarite. Su altre, invece, mi sembra permangano tracce evidenti di una metafora teorizzata qualche tempo fa da lui stesso: la metafora dell’anguilla. «Non voglio essere lo scorpione sulla spalla del Pd, ma neppure un grillo parlante o un camaleonte. Dobbiamo essere un’anguilla nei confronti del Pd per sfuggire alla cattura di chi ci vuole portare indietro».
Sulle spalle, vicino alle orecchie, o sgusciante tra le mani, comunque sempre in contiguità col Pd, perché c’è il pericolo di essere riportati «indietro», verso «rinculi minoritari».
In verità tutti siamo stati «riportati indietro» e tutti siamo di fatto «minoritari». L’uso di queste espressioni come arma contundente della polemica politica è il segnale di quanto siano ancora presenti le dinamiche della dissipazione di quella parte del patrimonio ideale ed analitico che in qualche modo era sopravvissuto all’azzeramento di «tutti i laboratori, tutti i luoghi di elaborazione, (…) dell’enorme mole di passioni» (Asor Rosa) che erano stati la vita concreta del Partito comunista italiano.
Non che di questa piccola (ma poi non tanto) dissipazione Vendola sia il solo responsabile, anzi, ma senza una comune riflessione di fondo sulle ragioni del disastro sarà difficile la costruzione della «casa comune».
Nell’intervista, insieme ad espressioni che ci «portano indietro», Vendola ne adopera un’altra che, invece, ci proietta davvero in avanti: «autonomia culturale»; quella politica ne è la conseguenza. L’autonomia culturale è questione che deve esse presa sul serio ed allora risulterà chiaro come il problema di una collocazione sulle spalle, davanti agli occhi, ecc. del Pd sia aspetto del tutto ideologico e mistificante.
L’autonomia culturale prevede che si analizzino le ragioni strutturali (anche cultura e mentalità sono strutture) dei comportamenti politici e delle organizzazione politiche. Non si parte certo dal nulla. Possiamo disporre di un patrimonio analitico che ha alla sua origine scritti imprescindibili per qualsiasi teoria e pratica critica, ed un testo fondamentale della modernità come «Il Capitale». Un patrimonio analitico sviluppato nel Novecento, per dirla con Thomas Mann, dal «gruppo di ingegni più intelligente che ci sia oggi» (il corsivo è di Mann). Un patrimonio analitico che ha continuato a sollecitare l’insieme della cultura critica di questo inizio millennio.
Ecco, l’«autonomia culturale» che Vendola giustamente invoca, passa attraverso la riapertura di un circolo virtuoso tra i politici della nostra parte e gli aspetti attuali di una lunga continuità. Alla luce della strumentazione analitica che ne deriva la collocazione del Pd ci apparirà in tutta la sua evidenza, non offuscata da «parole» che non hanno rapporto con le «cose». E l’evidenza ci dice che tale partito oggi è elemento centrale, elemento strutturalmente centrale, dell’insieme di forze politico-economiche che guidano convintamente la forma assunta dalla fase di accumulazione in corso.
Lo stesso giorno in cui è apparsa l’intervista al manifesto, in un blog pubblicato da Huffington Post, il senatore del suo partito Dario Stefàno invitava a «ragionare, proprio con il Pd, su quello che vogliamo fare noi, su come immaginiamo il futuro del nostro paese».
A proposito mi è corsa subito alla mente una citazione che il grande scrittore americano Gore Vidal mette in bocca ad un senatore statunitense a cui un intelligente giornalista amico aveva chiesto se il «presidente crede davvero alle sciocchezze» con le quali un altro senatore, Joseph McCarty, stava terrorizzando e, nello stesso tempo, ricattando gli Usa. «Non ti scordare mai — afferma il senatore amico — che i politici non sono persone come le altre. Non crediamo mai a niente, se non alla rielezione» (L’età dell’oro, 2000).
La nostra tradizione politica e culturale ha avuto uno dei suoi punti di forza proprio nella negazione di questo modo di essere «politico».
La proposta di Stefàno è basata su una mistificazione tutta politicistica della realtà profonda che caratterizza i processi economici e sociali in atto. Tra questa e la difficilissima operazione in cui ci sentiamo tutti impegnati la contraddizione è radicale. Difficile utilizzare ancora la metafora dell’anguilla.
Perciò pongo la stessa domanda con cui qualche giorno fa ho concluso un articolo su questo giornale. La costruzione di una forza politica esterna e di antitesi ai modi dell’accumulazione in corso, può reggere l’alleanza con la dimensione locale del «partito dei padroni»?
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