Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande
trattato di libero scambio del pianeta, cui tutti, volenti o nolenti,
dovranno conformarsi.
di Marco Bersani
Sabato scorso 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato
vita a Berlino a una grande manifestazione aprendo così la settimana di
mobilitazione europea ed internazionale contro il TTIP, il Partenariato
Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno
negoziando dal luglio 2013. Nei prossimi giorni centinaia di iniziative
si svolgeranno in tutte le città d'Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni
le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.
Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande
trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro
legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi.
La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi
ad una bozza di accordo prima che negli Stati Uniti inizi la campagna
elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la
recente approvazione dell'omologo negoziato sul versante Pacifico (TPP)
ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di
diritto in stato di mercato e realizzare l'utopia delle multinazionali:
unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i
profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i
servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.
Il TTIP è solo l'ultimo di una serie di processi messi in moto dagli
anni '90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la
nascita dell'Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte
impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l'esigenza
da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi
del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione
assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo
alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento
sull'intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno
strumento per condizionarne lo strapotere.
Nacquero così in successione: il negoziato per l'Accordo Multilaterale
sugli Investimenti (MAI) e l'Accordo Generale sul Commercio dei Servizi
all'interno del WTO (World Trade Organization), come pure, a livello
europeo, la direttiva Bolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla
forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in
stallo l'intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da
allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare
dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e
multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi
bilaterali o su piccola scala regionale.
Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale,
ritentano la scala più ampia: il TTIP, infatti, per la dimensione
geopolitica - due continenti- ed economica -quasi il 60% del Pil
mondiale- vuole diventare l'accordo quadro, cui tutto il pianeta,
volente o nolente, dovrà conformarsi.
Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto
concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà
ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23
ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro
(dall'Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra
imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli
sull'agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti),
mentre di qua e di là dall'Atlantico cresce ogni giorno di più la
mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato.
E tuttavia il tentativo di regalare l'intero pianeta alle multinazionali
è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si
gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi
sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse
di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno
stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la
drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare
in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da
tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con
titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di
dividendi. Un banchetto perfetto.
Ma con un problema: l'applicazione delle politiche di austerity, paese
per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni
destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti
nel quadro politico, rendendo instabile l'intero continente europeo.
Il TTIP serve esattamente a questo scopo: a de-storicizzare le politiche
liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo,
all'interno del quale possono senz'altro convivere tutte le opzioni
politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione. Per
questo la battaglia per fermare il TTIP deve diventare prioritaria per
tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo
mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un
altro modello sociale. In Italia e in Europa.
"O la borsa o la vita!" intimavano secoli or sono i briganti ai passanti
che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. "O la
Borsa o la vita!" intimano oggi meno romantici e ben più feroci
filibustieri del capitale finanziario internazionale.
Si tratta semplicemente di scegliere la vita.
Tutti assieme, la vita.
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