di Francesco Raparelli
Il
governo vara la nuova legge di stabilità: una manovra neoliberale che
colpisce il lavoro e i poveri. Con un occhio di riguardo per le tasse
dei ricchi.
Sì,
siamo in una seconda fase del governo Renzi. Lo testimonia la Legge di
stabilità presentata ieri dal “ganzo fiorentino” al termine del Cdm. I
toni sono spocchiosi, con le consuete battute che non fanno ridere
nessuno. Non basta il consenso pieno di Confindustria per conquistare un
po' di senso dell'umorismo. Lode a Stanis La Rochelle, sempre sia lodato.
È sicuro il premier, sicuro di ottenere la flessibilità necessaria
dall'Europa, sicuro degli effetti positivi, seppur lievi, garantiti
dalla congiuntura (Quantitative easing, abbassamento dei costi
energetici, ecc.). Una Legge di stabilità «espansiva» dunque, come
titolano stamane i maggiori quotidiani. In questo primo (breve) commento a caldo, vorrei soffermarmi solo su alcuni punti: il fisco; il lavoro; i poveri.
Dopo
il Jobs Act, Renzi avvia la riforma fiscale neoliberale, facendo (già)
assai di più di quanto fatto da Berlusconi-Tremonti. Primo obiettivo,
che sarà propriamente centrato nel 2017, salvo concessioni UE, la
riduzione dell'IRES dal 27,5% attuale al 24%. Cos'è l'IRES? Imposta sul
Reddito delle Società, ovvero il regime fiscale dei capitali, la tassa
sugli utili delle imprese (fino al 2003 c'era l'IRPEG, con aliquota del
34%). Se leggiamo questo passaggio in combinazione con l'eliminazione
dell'IMU su ville, castelli e case di lusso, il segnale non può che
essere chiaro: i ricchi pagano meno. Il principio costituzionale della
progressività dell'imposta viene rovesciato, secondo l'indicazione
“classica” del neoliberalismo anglosassone. Va da sé che l'operazione
più onerosa è quella che ferma l'aumento dell'Iva e delle accise sui
carburanti, ma sarebbe miope non cogliere la novità “regressiva” del
regime fiscale renziano.
Non
è ancora pronta una legge che fa piazza pulita dei contratti nazionali,
ma intanto il governo stanzia 430 milioni (589 milioni a partire dal
2017) per la detassazione dei premi di produttività, e così sostiene
ulteriormente la contrattazione aziendale. Confermata, inoltre, seppur
ridotta (3.250 euro annui per 24 mesi), lo sgravio contributivo per i
nuovi assunti con contratti a tutele crescenti. Le novità più
significative, però, sono quelle che riguardano il lavoro autonomo.
Parlare, come fa Renzi, di «Jobs Act degli autonomi» è una baggianata,
l'intervento è al momento assai parziale e solo avviato, il grosso
rinviato a un disegno di legge collegato. Ma l'intervento c'è, fatto per
raccogliere consenso tra i professionisti e marginalizzare
ulteriormente i sindacati, presi come sono questi ultimi dal proteggere i
loro posti di lavoro e semmai le sorti degli iscritti. Crescono le
soglie dei ricavi per chi sta nel regime forfettario, 10.000 in più per
quasi tutti i codici di attività, 15.000 per i professionisti atipici.
Rimane intatto, seppur ridotto a tre anni, il regime dei minimi
introdotto nel 2011, quello con l'imposta sostitutiva del 5%. Il
collegato, invece, si occuperà di rendere interamente deducibili i costi
di formazione, di estendere le tutele per malattia e maternità. Nulla
si dice su ammortizzatori sociali (estensione della NASpI) e riduzione
dell'aliquota previdenziale (gestione separata).
2,9
miliardi, in tre anni, per i poveri. Briciole e carità dunque per le
famiglie con 5 componenti, bambini piccoli, e che versano in condizioni
di povertà assoluta. Al di sotto, addirittura, delle richieste già esili
della Caritas e della sua “Alleanza contro la povertà”. L'Italia,
assieme alla Grecia, rimane un'anomalia negativa in Europa. Nonostante
ci sia un'intera generazione segnata da disoccupazione o
sotto-occupazione, costretta alla “fuga”, nulla si fa nel senso
dell'estensione universale del welfare. I soldi pubblici, quei pochi che
ci sono, servono per dopare il mercato del lavoro, sostenendo le
imprese, e per ridurre le tasse ai ricchi, ai rentier. Governo delle
imprese, appunto.
Ciò
che stupisce di più, e che forse chiarisce la sicumera di Renzi, sono
le reazioni sindacali e politiche. Se Berlusconi avesse provato a fare
solo la metà delle cose che ora sta facendo Renzi, in tanti avrebbero
parlato di golpe neoliberale. Ora ci si limita a qualche insignificante
commento negativo. Non basta insistere sulla corruzione o sul
corporativismo inguaribile delle burocrazie sindacali italiche, occorre
capire come la cronicizzazione della crisi e il processo di
«disintermediazione» stanno ridisegnando il sociale, in Italia e in
Europa. E per far questo ci vuole un paziente, molecolare e spesso
inappariscente intervento di base, nel lavoro e la sua barbarie,
vertenza per vertenza, nella povertà e tra gli spossessati di “seconda
natura”, lungo le linee della migrazione (“esterna”, ma anche
“interna”). Sì, non è di moda, ma spesso è necessario il coraggio di
essere inattuali.
Fonte: dinamopress.it
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