La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i
contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già
varate da CGIL CISL UIL, con richieste salariali medie di 30 Euro lordi
all'anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante
richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio
soccorso agli industriali, come imprenditore, con il blocco dei
contratti pubblici, e come legislatore con l'annuncio della legge sul
salario minimo. Quest'ultima in realtà dovrebbe essere definita come
legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6
euro lordi all'ora, è poco più della metà della retribuzione minima
prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobsact,
una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi
assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge.
Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere
applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci
sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così
basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto
con grande risalto dal Corriere della Sera. Questo giornale, da
quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno rafforzato il
controllo, è diventato l'organo ufficiale di propaganda del nuovo regime
padronale. Così, qualche giorno fa, il quotidiano milanese ha lanciato
il modello sociale aziendalistico, che non è certo una novità nella
storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non solo il salario,
ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la pensione, la scuola dei
figli, le vacanze, persino i funerali erano aziendali. Una volta non
solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il loro dominio
sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano costruito un sistema per
cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba.
Ora la distruzione dello stato sociale, la disoccupazione e la precarietà, il Jobsact e la cancellazione del contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo aziendalismo medioevale.
La svolta da noi l'ha operata Sergio Marchionne, quando nell'estate del 2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l'aut aut:
o uscire dal contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica.
Solo la Fiom ed i sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine
però ebbe successo. L'allora segretario del PD Bersani dichiarò che il
modello Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una
eccezione, ma naturalmente divenne la regola.
Allora CGIL CISL UIL cercarono di ritrovare spazio con lo
scambio praticato da trenta anni: l'arretramento dei lavoratori per il
riconoscimento del proprio ruolo. Il 10 gennaio 2013 i sindacati
confederali e la Confindustria sottoscrissero con grande enfasi una
intesa che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni industriali. I
sindacati accettavano di generalizzare il modello Marchionne in ogni
azienda, in cambio della promessa del rinnovo dei contratti nazionali.
Oggi quel l'accordo registra un totale fallimento e chi lo ha
sottoscritto viene descritto come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora, il lupo se lo mangia, dice un proverbio siciliano.
La distruzione del contratto nazionale non è solo un
interesse del grande padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle
cosiddette riforme del lavoro volute dalla finanza internazionale, in
Europa dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia, la
soppressione della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine.
La sempre da ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano,
nell'agosto 2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi
pretendono Squinzi, Renzi e il Corriere della Sera. Abbattere i
salari e i diritti e alzare i profitti, questa è la lotta di classe
dall'alto che da tempo viene condotta contro il lavoro e che ogni
sistema di potere pratica come può.
La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta
di classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo
del lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il
contratto accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In
Germania i macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il
trasporto ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti
della metropolitana di Londra. I dipendenti di AirFrance sono stati sui
mass media, e hanno riscosso simpatia, in tutto il mondo per il brutto
quarto d'ora che hanno fatto passare ai manager che li vogliono
licenziare.
Anche da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori
della logistica, in gran parte immigrati, organizzati dal SiCobas, fanno
scioperi durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il
lavoro più tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il
garante degli scioperi le agitazioni nella scuola sono più che
raddoppiate e così quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi
giorni fa i trasporti a Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha
visto una partecipazione altissima, ben superiore alle forze della USB
che sola lo aveva proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del
lavoro c'è chi comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito
tutta la rabbia accumulata per le ingiustizie subite.
È per questo che si vuole colpire il diritto stesso a
scioperare. Non ci sono ancora in campo mobilitazioni sociali della
portata di quelle dei decenni passati. Ma i segnali di lotta di classe
dal basso sono già allarmanti per chi vuole continuare a condurla
indisturbato dall'alto. La reazione contro la ripresa degli scioperi è
in tutti gli stati europei. La magistratura tedesca ha fermato lo
sciopero nella Lufthansa. Il governo spagnolo ha varato leggi anti
manifestazioni. Il governo Cameron sta varando una legge sul diritto di
sciopero così restrittiva, che un parlamentare che pure la sostiene l'ha
comparata a quelle di un regime fascista. In Italia il solito Corriere della Sera ha sponsorizzato la proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani, che ricalca quella britannica.
L'austerità impone il taglio dei salari e la distruzione
dei diritti, l'attacco al diritto di sciopero deve prevenire la
ribellione dei lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti
all'impotenza e additati al disprezzo dell'opinione pubblica. Tutto si
tiene e tutto si fa nel nome di una ripresa che, così come viene
promessa, non ci sarà mai.
La linea trentennale di CGIL CISL UIL esce distrutta da
questa nuova fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è
diventato oramai pura gestione dell'impotenza e i proclami televisivi a
cui non segue nulla non lo rafforzano di certo.
L'alternativa alla resa è una sola: ci vuole un modello sindacale che
faccia propria la lezione delle mobilitazioni radicali del lavoro e
che, così come fa il sistema delle imprese, sostenga e promuova la
lotta di classe. Il fallimento di Cgil CISL UIL apre la via ad un nuovo
sindacalismo conflittuale a cui sempre più si rivolgeranno i lavoratori
che si ribellano. E un giorno la Confindustria rimpiangerà l'arroganza
attuale.
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