Poche volte, nella storia politica di questo paese, abbiamo assistito a cadute più farsesche di quella di Ignazio Marino. Non parliamo della statura del personaggio – ultimo campione di una stagione in cui il candidato è solo una “faccia” che serve a nascondere i contenuti di programma, praticamente uguali tra i finti contendenti – quanto dell'effetto involontariamente comico che ha accompagnato le varie stazioni della sua personalissima via crucis, dal papa all'ambasciatore del Vietnam, tutti costretti a smentire di aver consumato anche solo un caffè al bar con lui.
Eppure neanche questa grottesca uscita di scena – addirittura rinviata di 20 giorni, nell'attesa di qualche improbabile “miracolo” - sembra aver fatto capire nulla al sempre meno lucido “popolo della sinistra”. Ben poche, dobbiamo ammetterlo, sono le voci che si rendono conto della fine di una fase politica (anche sul terreno delle amministrazioni locali, pur se risulta arduo considerare “locale” la capitale), mentre impazzano i tifosi “pro” e “contro”.
Come se fosse praticamente impossibile avere un proprio interesse materiale e politico, dunque anche un punto di vista, autonomo e indipendente dall'”offerta politica” che ci viene proposta dal potere. Come se, a quasi dieci anni di distanza dalla catastrofe dell'”arcobaleno”, ancora non ci si riuscisse a capacitare che, dentro il palazzo, “i nostri” non ci sono. Se mai c'erano stati o se, a voler essere comprensivi, erano riusciti a starci combinando qualcosa di utile per il nostro blocco sociale...
Il tentativo di trovare "il meno peggio", ormai è provato, serve solo ad impedire che nasca qualcosa di alternativo. Ce ne sono già abbastanza ci sembra, di pupazzi che si dicono "diversi dal Pd" ma "pronti ad allearsi col Pd", magari al secondo turno...
Dirsi pro o contro Marino significa essere incapaci di superare la logica binaria tipica dei sondaggi; ossia, di un prodotto comunicazionale precotto, confezionato nell'interesse esclusivo del committente, interessato a definire le milgliori strategie di vendita.
Esiste un solo motivo sociale per difendere Marino? Banalmente. Ha messo in discussione il “patto di stabilità” e aumentato gli investimenti destinati ai servizi sociali, al trasporto pubblico locale, all'istruzione, all'assistenza? No. Anzi: ha avviato la privatizzazione dell'Ama, ha favorito apertamente l'attacco ai dipendenti del trasporto pubblico nel mentre si disinvestiva in mezzi e strutture, smantellando di fatto la funzionalità dei servizi (e collaborando dunque a creare la vandea cittadini versus lavoratori). Ha provato a licenziare quasi cinquemila maestre d'asilo, incentivando la privatizzazione del comparto.
Potremmo andare avanti a lungo, ma la sintesi è facile: cittadini, specie delle periferie, e lavoratori dei servizi locali non hanno alcuna ragione per difenderlo. E infatti...
Si dice: “ma lo hanno fatto fuori i disonesti, i “poteri forti”, palazzinari e partecipi di mafia capitale...” Cosa sicuramente vera. Com'è sicuramente vero che quegli stessi poteri lo avevano messo lì, come “faccia” rassicurante dietro cui fare ognuno il suo porco gioco. E fin quando non è esploso il bubbone, il buon Ignazio non ha visto o scompaginato quasi nulla.
Ma dobbiamo davvero rassegnarci al “meno disonesto” e rinunciare a individuare, difendere, rappresentare interessi sociali che nel Comune di Roma – così come nella poltiica nazionale, del resto – vengono tranquillamente calpestati da tutti gli amministratori della cosa pubblica a ogni livello? E che, soprattutto, lo saranno ancor di più da domattina?
Certo, pagarsi la cena con la carta di credito comunale è infinitamente meno grave dell'agguantare decine di milioni con appalti truccati, delibere ad hoc, ecc. Ma non è sicuramente un'assicurazione sulla “probità” dell'ex sindaco che, sia detto sommessamente, aveva ed ha un reddito sufficiente a pagarsi di tasca sua le cene private.
Insomma, questo schierarsi pro o contro è possibile solo se si è rinunciato da tempo, e probabilmente per sempre, a costruire la propria organizzazione/rappresentanza sociale e politica, solo se si è intimamente accettato di essere trattati come “consumatori” della politica che possono soltanto scegliere tra il “prodotto A” e il “prodotto B”, sulla base di criteri insignificanti come la faccia, il portamento, la "bellezza", la simpatia, l'”impressione”, o anche la maggiore o minore propensione a riempirsi le tasche. Il che, nelle condizioni attuali, equivale a scegliere da chi vogliamo farci frustare. Non che ci sfugga la differenza tra il poliziotto buono e quello cattivo, ma dipendono entrambi dallo stesso "datore di lavoro" e mirano entrambi a farci crollare...
“I nostri” rappresentanti ideali vanno dentro una qualsiasi istituzione per portare fin lì il peso dei nostri problemi e trovare, se possibile, una risposta positiva; se non è possibile devono restare comunque al servizio di un conflitto sociale capace di scardinare quell'istituzione, favorendo dunque una “ristrutturazione” dei rapporti di forza tra settori sociali niente affatto "sulla stessa barca".
È ovvio. Questi “rappresentanti ideali” oggi non ci sono. E costruirli – nel conflitto sociale e politico, nelle lotte sindacali come in quelle delle periferie, ecc – è sicuramente complicato, difficile, faticoso, continuamente a rischio di delusioni.
Ma l'alternativa qual'è? Star seduti davanti al televisore a cercar di capire chi, tra Caio e Sempronio, “ci sembra più affidabile” e poi postare forsennatamente su feisbuk la presunta “scelta”?
Noi non siamo affatto pessimisti. C'è vita nei cervelli, basta aprirli. Altrimenti non funzionano. E questo modo di “tifare politica”, invece di farla scendendo in strada, ha fatto chiudere più menti di quante non ne siano nate nel frattempo, nell'arco dell'ultimo quarto di secolo.
Ora basta.
*****
Se non volete stare a sentire noi, vecchi scassapalle trinariciuti, provate a dare almeno un'occhiata a quel che ha da dire in proposito un ex consigliere comunale, ex presidente di municipio, ex giornalista, ecc. Insomma uno di quelli che nel “palazzo” è stato triturato ben bene, ma alla fine - almeno – apre la mente a prova a indicare altre strade.
Con le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma è definitivamente tramontata la parabola del centrosinistra. Di quelle politiche amministrative che per circa un ventennio hanno connotato, con maggiori o minori successi, le politiche amministrative locali.Sandro Medici
Ebbene, con il chirurgo genovese si è invano tentato di farle sopravvivere, malgrado fosse evidente fin da subito l’impossibilità di continuare ad attuarle. E’ stato necessario consumare un tormentato biennio per accorgersi di quanto ingannevole fosse stato quel tentativo e di quanti disperanti equivoci contenesse. E oggi quest’esperienza s’infrange proprio su quel malinteso iniziale.
E’ davvero difficile trovare un sindaco più obbediente e zelante di lui nell’applicare le politiche economiche dettate dal governo e conformarsi acriticamente alle misure di austerità e ai piani di rientro imposti dall’amministrazione statale.
In quest’ultimo scorcio, la città ha visto progressivamente ridursi la spesa sociale e indebolirsi allo stremo la rete di sostegno per le fasce più esposte e bisognevoli. Così come diminuire sensibilmente gli stanziamenti per la manutenzione urbana e per il trasporto pubblico, lasciando ulteriormente deperire le aree periferiche e stremando la già precaria e insufficiente rete di autobus e metropolitane.
Ma tagli e saccheggi si sono abbattuti anche sulle attività culturali e la cura del patrimonio artistico, archeologico e architettonico. E nel contempo, tra sgomberi e colpevoli abbandoni, si è preferito spegnere e deprimere la grande vitalità creativa e progettuale indipendente, dall’Angelo Mai al Teatro Valle, dal cinema America al Rialto occupato, a Scup.
Stesso impianto ferocemente liberista è stato praticato nelle politiche di svendita e privatizzazione di beni comuni, aziende pubbliche e patrimonio comunale. Stessa logica padronale è stata imposta contro i propri dipendenti, riducendo salari e indennità. Stesso meschino disinteresse si è manifestato sul destino dei lavoratori di aziende e cooperative che svolgono attività per conto del Comune. E tutto ciò, nella totale assenza di una qualsiasi strategia di crescita economica della città, se non quella derivante dalle grandi opere e dai grandi eventi, le generose volumetrie dello stadio della Roma, la grottesca grandeur della candidatura alle Olimpiadi e l’imminente, inaspettato Giubileo.
Ecco perché, fin dall’inizio, la stagione politica del sindaco Marino era pesantemente ipotecata da quegli obblighi politici, a cui volentieri si è conseguentemente allineato. E le stesse lodevoli iniziative che tuttavia sono state realizzate in questi due anni, dalla chiusura della discarica di Malagrotta, all’avvio della pedonalizzazione dei Fori, all’istituzione del Registro per le unioni civili, pur se meritevoli di giudizi positivi, non modificano l’impronta decisamente liberista, l’angustia culturale della sua esperienza amministrativa.
Avrebbe dovuto andarsene prima, il sindaco Marino. Prima di questa oscena sceneggiata sugli scontrini mendaci, prima di questi imbarazzanti viaggetti americani, prima insomma di tutto questo malsano chiacchiericcio che ha finito per travolgerlo. Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente.
Non esiste un Pd buono e uno cattivo. Solo se riusciremo definitivamente a rendercene conto, potremo avviare a sinistra una nuova stagione alternativa.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua