Aldilà della polemica sugli scontrini e dell'immagine del sindaco un po' ingenuo le dimissioni di Marino affondano le radici nella decadenza di Roma e nell'abbandono delle periferie. In una ingovernabilità che viene dal patto di stabilità e dall'austerity
Le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma, seppur
condizionate dalla clausola dei venti giorni che ricorda più un
tentativo estremo di patteggiamento che un punto di forza, pongono
questioni che vanno ben oltre la rappresentazione semplicistica e
istantanea che circola maggioritaria sui grandi media in questi giorni.
Non si tratta né di indignarsi per 60 euro al giorno di pasti consumati,
né di cascare nella rappresentazione del sindaco ingenuo-ma-onesto,
fregato da non meglio specificati poteri forti.
Bisogna invece guardare le radici di questa situazione,
dell'ingovernabilità di Roma e dello svuotamento delle sue istituzioni
rappresentative. Il crollo di Marino, ma anche la sua assunzione quasi
casuale a sindaco della Capitale, è l'ennesima dimostrazione che il
potere politico è debole, asfittico, incapace di agire. Il governo di
una città collassa senza l'appoggio dei poteri forti, in mancanza del
sostegno dei media, in assenza del ruolo profondamente biopolitico
dell'intermediazione sociale parassitaria svolta da Carminati&Buzzi.
Prima che arrivassero il commissariamento di Renzi e quello di
Gabrielli, il sindaco di Roma come tutti sindaci che accettino i dogmi
del patto di stabilità era già una specie di curatore fallimentare, vana
è stata l'illusione di chi pensava di ritagliarsi spazi di azione e
influenza dentro le maglie d'acciaio del bilancio blindato.
Chi non ha la memoria del pesce rosso dovrebbe ricordare come Marino
stava già in bilico per le bordate della sua maggioranza: ricordiamo un
sondaggio commissionato ad arte e diffuso da esponenti del suo partito
che lo dava in crisi di consensi, prima di Mafia Capitale, che ha avuto
il paradossale effetto di rimetterlo momentaneamente in sella. Uomo solo
al comando e circondato da signor sì, Marino ha provato a gestire la
città come un manager della sanità privata, ordinando tagli e
rifiutandosi di confrontarsi con la sua maggioranza, ma soprattutto con
le istanze sociali che provenivano dalla città.
Ma dicevamo che i problemi vengono da lontano. Prima del cupio dissolvi
della banda di Alemanno e del divenire sistema di Mafia Capitale,
scelte ben precise hanno costruito l'ingovernabilità di Roma, la sua
decadenza, l'abbandono delle periferie. Marino è al tempo stesso frutto e
vittima del contesto ma paga anche colpe non sue. Fa i conti con le
conseguenze nefaste del Piano regolatore di Veltroni che non ha voluto
mettere in discussione e il perpetuare della dissennata scelta di
accontentare gli appetiti della speculazione finanziario-cementizia. Non
solo l’avventura americana dello Stadio, ma anche , un caso tra i
tanti, le aree della ex Fiera di Roma. Bisogna andare a Ponte di Nona e
alla Bufalotta, e non consultare il menu del Girarrosto Toscano, per
capire come è caduta questa amministrazione. Si pensi all'idrovora della
linea C della metropolitana, macchina mangia-soldi e scandalo degli
scandali della Repubblica che ha portato alla costruzione di
un'infrastruttura monca e del tutto al di sotto delle necessità. Per non
parlare dell'inchiesta che ha scoperchiato un sistema di stampa di
biglietti falsi dentro la stessa Atac, un affare colossale finito nel
dimenticatoio.
Marino ha dovuto gestire le privatizzazioni e la gestione
aziendale dei servizi, si è messo nel solco della chiusura graduale di
spazi di partecipazione. E poi l'attacco ai diritti e al salario dei
lavoratori comunali, gli sgomberi dei migranti e degli spazi sociali,
l'ideazione di bandi-monstre per la gestione del sociale funzionali alle
multinazionale. Non ha capito, il sindaco uscente, che la sua
amministrazione avrebbe potuto uscire dal cul de sac
dell'austerità e della crisi politica ed economica soltanto mettendosi
al servizio delle energie che la città la animano e la rendono ancora
umana. Invece a vincere sono stati il dogma dell'austerità e quello
della sicurezza e del cosiddetto “decoro”.
Quello che abbiamo è quello che ci siamo presi, nessuno ci ha
regalato niente e proprio per questo, viene da pensare, non abbiamo
davvero nulla da perdere. Ma osservando le bandiere in festa a piazza
del Campidoglio, non abbiamo nessuna intenzione di affidarci al
machiavellismo orientaleggiante e un po' troppo consolatorio del detto
“non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che mangi il
topo”. Piuttosto, sappiamo per esperienza che ha ragione Ismail nel
romanzo “Altai” dei Wu Ming: “Se voi desiderate prendere una lepre, che
le diate la caccia con i cani o col falco, a piedi o a cavallo, resterà
sempre una lepre. La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a
seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è
facile che vi riportino una libertà da cani”. Come abbiamo visto in
questi anni, un cambiamento che si produce dall'alto, e che coinvolge
più spettatori e tifosi che forze sociali, rischia di chiudere ulteriori
spazi invece di aprirli. Con questa consapevolezza, e con la
consapevolezza delle forze e dei limiti della città di sotto, ci
apprestiamo a vivere la nuova fase che ci attende.
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