Dal 25 febbraio 2014 l’Italia danza sull’abisso, nelle
mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì
sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. È l’immagine che
emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi nella giornata del
compimento della sua resistibile ascesa. Di Eugenio Scalfari. Di Gad
Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del Messaggero e del
Sole 24 Ore. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a
un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà
segnati dalla paura. E dalla vertigine. La costante accelerazione, dalle
primarie di dicembre in poi, l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla
conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la
crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi
di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di
fiducia della società. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto:
finisce il Pd, si scioglie il parlamento, si commissaria il paese, si
accelera la dissoluzione sociale. Motivo per cui, appunto, soprattutto
per chi sta nell’establishment o nei suoi dintorni, non resta che
sperare. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che avrebbe dovuto
dire che uno così non può farcela. Perché – la cosa si poteva vedere a
occhio nudo fin d’allora – il personaggio non ha né le competenze. Né
l’autorevolezza. Né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella
sua marcia forzata), per fare un miracolo del genere, sollevare tutto
insieme – partito, istituzioni, paese – come fossero un unico fardello.
DI CRAXI ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico
di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal
compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale Socialista intorno,
oltre che il partito nel pugno.
Di BERLUSCONI ha lo stile da istrione e
la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale
monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche
compartecipazione quantomeno opaca) assicuravano.
Dei precedenti leader
non è neppur degno del confronto. Aveva, in compenso, fin dall’inizio
un’unica risorsa su cui puntare: il mito della velocità. Mito
marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E un
unico profilo da presentare: quello che Walter Benjamin aveva chiamato
il carattere del distruttore (quello che conosce “so – lo una parola
d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia”; e per il quale
si può dire che “l’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle
rovine, ma per la via che vi passa attraverso”). Come nel caso della
nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando
gli strati schistosi, anche Matteo Renzi pratica, programmaticamente, il
fracking , generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli
sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin sulla cima
della piramide, e dalla macchina dello Stato. Accelerando non la
soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciare tutti – dopo aver
fagocitato tutto – “nudi alla meta”. O meglio, nudi di fronte al potere,
dopo la distruzione dei diversi corpi intermedi che tradizionalmente
avevano fatto da filtro e contrappeso, delle strutture di rappresentanza
politica e sociale, delle culture politiche capaci di aggregare
individui e frammenti sociali, del suo stesso partito. In una parola di
quella complessità organizzata che da sempre ha garantito un livello,
sia pur minimo e insufficiente, di pluralismo e di articolazione in una
società complessa, preservandola dal rischio e dalla tentazione
dell’uomo solo al comando di fronte a una società di atomi competitivi.
Sarebbe bastato, d’altra parte, considerare il già citato catastrofico
esordio al Senato, il giorno stesso della fiducia (il 25 febbraio,
esattamente un anno dopo il voto politico che aveva aperto quel vuoto
che ora il nuovo premier si apprestava ad abitare), per comprendere ciò
che si andava preparando. E non furono pochi, quella sera, a chiedersi
se ciò a cui si era assistito fosse frutto solo di supponenza e
inesperienza. O se non ci fosse dell’altro (…). La domanda (inquietante)
rimane: che cosa stava succedendo nel cuore del nostro assetto
istituzionale? Perché il giorno di quell’esordio qualcosa è successo. Un
colpo – un colpetto – non di Stato ma dentro lo Stato. Come definire,
altrimenti, un discorso pronunciato dentro l’aula di Palazzo Madama, ma
in realtà rivolto al di fuori di essa, non ai Senatori ma a quella che
Renzi – con lessico berlusconiano – considera la gente? Quello era
l’intento (consapevole o meno) del nuovo capo. Il senso della mano in
tasca. Del parlare a braccio. Persino del basso profilo e della
genericità del discorso: bypassare la cerchia dei rappresentanti per
rivolgersi alla platea generica che considera il suo popolo.
Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2015
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