La morte di Pietro Ingrao ha suscitato, nei giorni scorsi, un ampio ed articolato dibattito tra i comunisti e nel variegato universo degli attivisti politici e sociali.
Sia il sito della Rete dei Comunisti e sia Contropiano.org non
hanno fatto mancare elementi di discussione e punti di vista.
Pubblichiamo ora un contributo del compagno Italo Nobile che inizia ad
entrare nel merito di alcuni commenti registrati a caldo e traccia
alcune considerazioni non esclusivamente di ordine storiografico ma
utili, soprattutto, per il nostro agire collettivo organizzato.
La redazione del sito della Rete dei ComunistiPietro Ingrao, un bilancio non facile
di Italo Nobile
La riflessione susseguente alla morte di Pietro Ingrao ha oscillato
tra l’elogio interessato al poetico e inoffensivo oppositore interno
alla maggioranza del Pci e lo sdegno nei confronti di chi non ha mai
avuto il coraggio di rompere con una linea politica che alla fine si è
rivelata storicamente perdente (non parliamo dei pettegolezzi relativi
alle sue frequentazioni giovanili né del ruolo che ha avuto come
Presidente della Camera nell’assistere alla legislazione penale di
emergenza in quanto nella misura in cui queste cose abbiano rilevanza
politica vanno spiegate all’interno dell’oscillazione di cui sopra).
“L’eterno sconfitto”, “Voglio la luna” (si pensi all’articolo di
Barenghi sulla Stampa quando ha compiuto cent’anni) sono espressioni che
hanno circolato spesso sui mezzi di comunicazione per consolare le
anime belle del continuo e mai finito congedo che la sinistra
istituzionale italiana sta compiendo nei confronti di una tradizione
politica che bene o male ha rappresentato un tentativo dignitoso di
realizzare un progetto di trasformazione sociale. Noi dal canto nostro
di questi poetici congedi non sappiamo che farcene. Anzi, abbiamo
bisogno di essere netti ed impietosi, proprio per trarre da ogni
esperienza e da ogni riflessione passata quello che può essere utile
nella fase storica presente.
Ugualmente distanti dobbiamo essere dalle critiche sommarie che a
prima vista sembrano giuste (si veda il breve articolo di Marino Badiale
dove uno dei commenti incoraggiato dallo scritto recitava “Un Civati
ante litteram” finendo per evidenziare non volendo la banalità
dell’articolo stesso da cui prendeva spunto), ma che pure esse ci
consolano solo della povertà schematica con cui analizziamo la realtà.
Dobbiamo cioè essere netti ed impietosi, ma al tempo stesso dobbiamo
avere il senso delle proporzioni, la capacità di comprensione storica e
dunque l’intelligenza di trarre dalle esperienze passate tutto il
possibile materiale di riflessione, tutti gli spunti che ci aiutino ad
affinare le nostre categorie e ad applicarle alla realtà.
Bene ha fatto dunque Sergio Cararo quando dice “Il giudizio negativo
su Ingrao lo abbiamo maturato proprio mentre nel Pci degli anni ottanta
si manifestava quella mutazione genetica rispetto alla quale Ingrao non
seppe andare oltre il ruolo di una figura consolatoria”.
Bene ha fatto Michele Franco a dire che “Per Ingrao, come per molti
suoi allievi, il comunismo - la lotta per il comunismo - è sempre stata
non “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” (con
tutto il complesso delle complicate transizioni vissute ad Est dopo
l’Ottobre, nella Cina maoista o nei paesi che si liberavano in armi dal
colonialismo), ma una sorta di “orizzonte e di allusione” a cui
bisognava occhieggiare, o magari simboleggiare, nelle dinamiche del
conflitto”.
Pure condivisibile l’analisi di Marco Zerbino (su “Popoff”) quando
dice che “La storia di Pietro Ingrao non può essere separata da quella
di un’opzione e di una cultura politiche precise, quelle del
“togliattismo di sinistra”, ovvero del tentativo di individuare una
“terza via” (nessuna connessione con Lord Giddens) fra lo stalinismo e
la completa e definitiva torsione in senso socialdemocratico e
“parlamentare” del Pci (caldeggiata all’interno di quest’ultimo dalla
destra di Giorgio Amendola). Fu questo, grosso modo, l’orizzonte non
solo di Ingrao e della sinistra comunista che a lui faceva riferimento,
ma anche del gruppo politico-intellettuale a lui più strettamente
legato, quello creatosi attorno alla rivista il manifesto epoi espulso
dal Pci (col voto favorevole dello stesso Ingrao) nel 1969”.
Volendo continuare in questa analisi, Ingrao è figlio della rottura
coincidente con la Seconda Guerra Mondiale e con gli assetti nazionali
ed internazionali a questa conseguenti. All’interno della tradizione
marxista si sancisce definitivamente la fine della riflessione sulla
crisi del capitalismo e sulla risposta imperialistica a questa crisi (la
quale continua, priva di riferimenti strategici, più nel marxismo
americano che non nei rituali articoli di rivista dei partiti comunisti
occidentali). Ad Est lo stalinismo e la sua crisi pongono il problema di
una distanza progressivamente crescente dall’esperienza sovietica. Ad
Ovest le politiche keynesiane (più di guerra che di pace), il Welfare
che le precede e che ne consegue, la guerra fredda (con lo spettro
sovietico a dare forza al riformismo socialdemocratico) creano una sorta
di bolla all’interno della quale si sviluppa in maniera forse inedita
un capitalismo maturo, frutto di un compromesso tra classi in conflitto
il cui intreccio ha bisogno, per essere analizzato e affrontato, di un
paradigma della complessità. Il comunismo italiano ha la riflessione
gramsciana (ben gestita dal togliattismo) che lo aiuta in questa
operazione.
Al Marx maturo critico dell’economia politica si sostituisce il Marx
giovane, critico della filosofia (si pensi alle operazioni culturali di
Antonio Banfi, di Enzo Paci o in Europa di Ernst Bloch, di Roger Garaudy
e della scuola di Francoforte). Ingrao trova la sua nicchia ecologica
in questa sospensione storica e di qui opera facendo da tramite tra il
Partito e il fermento culturale di quegli anni: la cultura pacifista,
l’operaismo, la questione ecologica, quella femminile sono continuamente
metabolizzati e tradotti nella sua riflessione decennale e portati nel
Partito come elementi di critica e di interlocuzione. Il problema però è
che la tradizione marxista precedente viene considerata un fondamento
indiscutibile ma proprio per questo non discusso, non rielaborato. Si
comincia a consumare una rottura culturale che adesso si è dispiegata
come vero e proprio oblio e che ha lasciato i partiti che si richiamano
al comunismo quasi del tutto privi di strumenti analitici.
Nel frattempo i momenti di rottura, che pur si consumano in quella
fase di equilibrio storico, mettono in difficoltà la cultura ingraiana
che, scontando un problema nel rapporto tra teoria e prassi, ha bisogno
dell’ovatta del grande partito per fermentare. Qui si spiega il suo
distacco dallo strappo del Gruppo del Manifesto, strappo che renderebbe
necessario ricostituire le basi materiali di una nuova formazione
politica e dunque distoglierebbe dalla paziente coltivazione in serra
dei cento fiori di un nuovo socialismo,
Ovviamente la storia solo apparentemente si congela: la fine di
Bretton Woods, la stagflazione successiva alla crisi energetica, la
stagnazione e il crollo dell’Urss finiscono per sgonfiare la bolla e per
semplificare (con segno di classe avverso) quella complessità a cui
Ingrao pazientemente si voleva dedicare. A fine anni Settanta Ingrao
analizza con il suo bisturi l’intreccio tra Stato e società, ne mostra i
punti di tensione e di caduta. Comincia a pensare ad una riforma dello
Stato che permetta di gestire questo rapporto in forme progressive e che
trasformi l’anomalia e il ritardo italiano in un esempio di Terza Via.
Su questo però ha ragione Michele Franco quando dice “Ingrao…non ha
tenuto conto che – al di là della vivacità delle istanze di lotta che si
esprimevano in quegli anni – la forma stato e l’intera impalcatura
della società, dentro i processi di crisi strutturale che segnano il
modo di produzione capitalistico, andavano e vanno ancora oggi, a passo
di carica, verso una feroce verticalizzazione autoritaria che svuota e
depotenzia ogni impossibile “processo di riforma dello stato in senso
progressista”.
Il gorbaciovismo per un attimo rappresenta forse tutto quello che
l’ingraismo aspirava ad essere. Si tratta però di una bolla ancora più
effimera che consegna l’Ottobre dalla riforma possibile alla catastrofe
senza paracadute. La crisi dell’ingraismo si consuma quando, di fronte
al mutare dello scenario, il dubbio ingraiano si trasforma in
indecisione e il suo linguaggio assume la forma patologica del gergo. E
questa forma patologica è purtroppo quello che dell’ingraismo
maggiormente è circolato in questi ultimi anni. Gli epigoni di Ingrao
ormai sono assimilabili ai peggiori generatori di frasi in cerca di
nicchie più prosaicamente istituzionali (altro discorso è l’esito,
anch’esso moderato, della cultura operaista e postoperaista italiana che
meriterebbe un’analisi a parte).
I terribili tempi che avanzano ci portano alla consapevolezza che la
riappropriazione della cassetta marxista degli strumenti non è più
rinviabile: la teoria del valore, della crisi e dell’imperialismo devono
essere oggetto di discussione e di attualizzazione. Non potendo dare
tutto per ovvio e scontato (si pensi a come le giovani generazioni di
compagni spesso si trastullino con il mito di Stalin o di Trotzky invece
di dare ad essi quei limiti e al tempo stesso la determinazione storica
che meritano), non possiamo nemmeno esimerci dal dovere di studiare e
di ripartire da tali analisi.
Tuttavia la semplificazione del quadro che ha smontato il tentativo ingraiano non è così univoca come possiamo pensare.
La complessità rimane a livello mondiale per quanto riveda le sue
strutture e le sue dinamiche, il quadro sociale è notevolmente mutato in
questi decenni; i desideri, le coscienze, le forme di comunicazione
sono continuamente riplasmati dalle innovazioni tecnologiche,
l’intreccio tra società ed istituzione si ripropone magari nella forme
più perverse. Se i vecchi strumenti vanno rimessi in gioco, i nuovi non
vanno abbandonati. Il bisturi del dubbio ingraiano va introiettato, pur
senza farci paralizzare. Il suo amore per la complessità va rimodulato
nella capacità di ristrutturare la nave in mare aperto. Forse non
possiamo più volere la luna. Ma dobbiamo progettare l’allunaggio.
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