di
Dante Barontini, www.contropiano.org
Il problema è serio. E politico. La Questura di Roma, anche
stamattina, conferma il divieto di corteo per la Fiom, che venerdì 21 ha
convocato a Roma una manifestazione nazionale dei lavoratori Fiat e
Fincantieri.
Il problema è serio perché segna un salto di qualità importante
nei rapporti tra potere e opposizione sociale. La Fiom non è
un'associazione studentesca, o gruppo politico di piccole dimensioni o
un sindacato di base snobbato o guardato con sospetto. Non gli si può
insomma attribuire lo stigma dell'"inaffidabilità". E' l'organizzazione
di categoria dei metalmeccanici della Cgil, il nucleo fondatore della
stessa Cgil, 110 anni fa. E' un pezzo rilevante delle "istituzioni", un
pilastro dei "corpi sociali intermedi" che hanno fin qui tenuto insieme
base sociale e assetto sindacale e politico di questo paese.
E' la parte più conflittuale della Cgil, il cuore pulsante della sua
"sinistra interna". Ma è e resta la categoria industriale più importate
della Cgil e dello stesso paese. Vietare una manifestazione a questa
organizzazione non è una "cosa normale". E' una rottura dai tratti
apertamente golpisti.
Da compagni, militanti e sindacalisti abbiamo più volte espresso sia
solidarietà alle sue iniziative, sia critiche a certe sue prese di
posizione. Qui siamo però oltre le colonne d'Ercole della "normale"
lotta politico-sindacale. Che lo stato - e il fascista che è stato
eletto a sindaco di Roma solo grazie al "regalo" fatto dal Pd,
candidando quel baciapile di Rutelli - tenga fermo il divieto di
manifestazione e corteo per la Fiom ha un significato generale che non
ci può sfuggire. Significa che in questo paese - non solo a Roma,
evidentemente - diventa impossibile esercitare il diritto a esprimere il
proprio dissenso, garantito dalla Costituzione. Nessun altro soggetto
conflittuale può più sentirsi estraneo a quel che sta succedendo. Quel
divieto parla a tutti e noi. E ci interroga tanto quanto interroga la
Fiom.
Cui in questo momento rivolgiamo la dovuta e piena solidarietà.
Resta in campo una domanda: come ci si muove in una situazione in cui
nulla di quel che facciamo serve a cambiare l'orientamento
dell'avversario? Che sia l'azienda (Marchionne lo ha ripetuto anche
stamattina: "scioperare o protestare è inutile"), che sia il governo,
chi ha il potere ha chiuso occhi e orecchie alle istanze sociali. In
Italia come in Grecia, dove un anno e mezzo di scioperi generali e
scontri di piazza assai più robusti di quelli di S. Giovanni non sono
riusciti a cambiare le decisioni di un governo (socialista, per di più)
che ha ormai soltanto la "troika" come referente cui dar conto.
La democrazia è a rischio perché le decisioni più importanti (la
politica economica e la guerra) sono ormai fuori della portata di una
stato "solo nazionale". La "politica", insomma, non ha più il margine
operativo in cui manovrare e fare scelte "sensibili" alla domanda che
sale dalla società. Vada al governo Bersani o Casini, Vendola o Fini,
non cambia letteralmente nulla. E un potere "che non sente" è un potere
pauroso e quindi pericoloso. Di qui nasce la logica del divieto di
manifestare. Qui deve essere battuto.
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