domenica 16 ottobre 2011

Ma D'Alema quando riuscirà a dire qualcosa di sinistra?

D'Alema: puntare al 60% con un nuovo centrosinistra

L'intervista all'ex premier: «alleanza progressisti-moderati»

«Bersani-Di Pietro-Vendola? Insufficiente. Montezemolo? Non abbiamo bisogno di demiurghi»




Un'alleanza in grado di valere almeno il 60% dell'elettorato. Un nuovo centrosinistra capace di andare oltre le colonne d'Ercole rappresentate dal vecchio Ulivo. Un consenso largo per ricollocare l'Italia nello scenario mondiale in rapida evoluzione. È questa la proposta di Massimo D'Alema, un'ipotesi politica ambiziosa ma che non è un'auto candidatura. «Non ho problemi di ruolo. Un leader lo abbiamo, e si chiama Pier Luigi Bersani. Per il resto, confido che una nuova stagione politica si accompagni a un ricambio generazionale».

La realtà però non induce all'ottimismo. Berlusconi venerdì ha incassato l'ennesima fiducia e alle opposizioni non è riuscita la parte destruens, figuriamoci la construens.
«Berlusconi ha la forza di impedire che si formi un governo di larga responsabilità ma non ha la capacità di rilanciare una prospettiva di fine legislatura. Per cui tocca alle opposizioni sbloccare la situazione avanzando una proposta che già dall'annuncio possa accelerare il mutamento».

Lei guarda ad elezioni anticipate nel 2012?
«Le opposizioni devono definire un progetto alternativo di governo, non una mera alleanza elettorale. Dobbiamo offrire agli italiani una vera prospettiva politica in grado di unire le forze e dare speranza al Paese».

Quindi non le basta aspettare le elezioni e magari vincerle sommando i voti di Pd, Sel e Idv.
«L'Ulivo in passato è stato capace di vincere con il 43-45%, ma a questo punto non basta. Ci vuole un'alleanza politica, sociale e culturale che aggreghi almeno il 60%. Siamo nel vivo di una crisi che è anche un mutamento mondiale di portata storica. L'Italia può farcela, ma ha bisogno di trasformazioni coraggiose, profonde. Tanto più che con Berlusconi abbiamo perduto dieci anni. Per questo occorre un consenso largo, un'alleanza tra progressisti e moderati, un progetto capace di guidare il Paese almeno per una legislatura di grandi riforme e di ricostruzione».

La spinge ad avanzare questa proposta un certo scetticismo verso il bipolarismo?
«Io sono per il bipolarismo, lo considero un valore. Nonostante tutti i suoi limiti ha avviato un ricambio della classe dirigente che resta l'acquisizione più significativa della Seconda Repubblica. Ma è stato un bipolarismo rozzo, segnato dalla figura di Berlusconi e oggi va rifondato su basi europee».

Avanzando un'idea di incontro tra progressisti e moderati in qualche maniera lei ammette che la «foto di Vasto», Bersani-Vendola-Di Pietro, non è un'offerta vincente.
«Non ho timore a dire che si tratta di uno schema insufficiente, ma ricordo a tutti coloro che hanno ironizzato su quella foto che quei tre signori rappresentano oggi, secondo gli ultimi sondaggi, il 44%. Una parte molto larga del mondo del lavoro e della cultura, senza la quale non vi è possibilità di rinnovamento del Paese».

Come pensa di portare tutto quel 44% nel nuovo centrosinistra? Ci sono culture e riferimenti sociali che sarà difficile far coesistere con i moderati.
«Il compromesso dei moderati con la sinistra è necessario perché non si fanno le riforme senza il consenso della maggioranza dei cittadini, e non solo del Parlamento. Ma anche perché il Paese ha bisogno di essere modernizzato con riforme "liberali", capaci di superare incrostazioni e resistenze corporative. Ed è necessaria un'azione incisiva che riduca le diseguaglianze e valorizzi il lavoro. Altrimenti, come si è visto, non c'è crescita della ricchezza».

Sarà un rebus stipulare un compromesso con la sinistra senza disporre di consistenti flussi di spesa pubblica. In passato si è fatto sempre così.
«È un rebus europeo, non solo italiano. Tuttavia il centrosinistra con Prodi, Ciampi, Padoa-Schioppa ha dimostrato di saper condurre una politica rigorosa. Quei governi, alla fine degli anni '90, avevano portato la spesa pubblica al 46,2% del Pil, incidendo soprattutto sulla spesa corrente. Con Berlusconi siamo arrivati a oltre il 53%. Non esiste da noi una destra liberale. È sempre stata corporativa e statalista, e il berlusconismo non ha fatto eccezione».

La lettera della Bce al governo italiano è un contributo al programma della nuova alleanza? Qualcuno nel Pd l'ha bollata come apologia di liberismo.
«Si sono ascoltate voci diverse e comunque quella lettera non è un programma di governo. Sarebbe un curioso esito della democrazia europea se le scelte politiche fossero demandate alle banche. In ogni caso, la risposta politica del nostro Paese alla Bce dovrebbe consistere in un nuovo patto sociale. Non sono contrario, come è noto, ad accelerare la riforma previdenziale e del sistema contributivo. Penso che flessibilità e impegno comune di lavoratori e aziende per elevare la produttività del lavoro siano necessari, ma dall'altra parte c'è un assoluto bisogno di ridurre la drammatica incertezza legata alla precarietà, che penalizza un'intera nuova generazione. Insomma, spetta alla politica offrire risposte convincenti e socialmente sostenibili. D'altro canto le banche non si presentano alle elezioni e se lo facessero, di questi tempi, non avrebbero i voti per governare».

Una parte significativa della sinistra che lei vuole portare al governo con i moderati sostiene gli indignados e attacca la Bce. E dopo che Roma è stata messa a ferro e fuoco risulta poco credibile pensare di poter coniugare piazza e governo del Paese.
«A Roma c'è stata una grande manifestazione al di là delle aspettative che esprime un disagio e una protesta diffusa in tutto il mondo. La violenza di gruppi estremisti, che condanno, non oscura il significato di questa giornata di lotta. Le piazze non governano ma i governi devono saper rispondere a questo disagio con una politica che ridia speranza ai giovani».

Per arrivare al suo 60% occorre portare all'alleanza con la sinistra il Nord, la Confindustria, la piccola impresa, le professioni, mondi che finora sono stati generosi di consensi verso Berlusconi.
«Le forze sociali si sono illuse che Berlusconi affrontasse i veri problemi dello sviluppo italiano e ora si stanno ricredendo. Dobbiamo sottoporre loro un'offerta politica convincente per ridare slancio al Paese e mettere mano ai meccanismi corporativi che lo bloccano. Tutto ciò non lo si fa senza o contro la sinistra e con sacrifici a senso unico. Vuol dire lotta all'evasione fiscale e riequilibrare la pressione, che grava quasi esclusivamente su lavoro e imprese, spostandone il giusto peso su patrimoni e rendite. In una logica di interesse generale, i sacrifici devono essere fatti in proporzione alle proprie possibilità e quindi anche da parte dei ricchi».

Pensa di poter mettere d'accordo le istanze della Marcegaglia e quelle di Vendola?
«Le assicuro che non è impossibile che vadano d'accordo. Vendola è un uomo di governo, non è giudicabile per la sua sola produzione letteraria e parliamo comunque di una sinistra che esprime il sindaco di Milano, non di un gruppetto estremista».

Che giudizio dà dell'uscita di Marchionne dalla Confindustria?
«Indebolire le forze sociali in una fase come questa è un errore della Fiat, dietro c'è un'idea sbagliata dell'Italia. Poi si può discutere su come è stata guidata la Confindustria, quali errori ha fatto e via di questo passo. Ma è tutt'altra discussione».

Per lungo tempo nel Pd si è pensato che la scomposizione del centrodestra passasse per Giulio Tremonti. E ancora così?
«Apprezzo l'intelligenza di Tremonti, pur criticandone l'azione di governo. Non so cosa pensi oggi. Quello che comunque è evidente è che egli non ha la forza politica per essere il leader che porta il centrodestra ad un dialogo e ad una corresponsabilità con le forze di opposizione».

Quando parla dei moderati pensa innanzitutto a Pier Ferdinando Casini.
«Casini ha fatto la scelta coraggiosa di collocarsi all'opposizione rischiando di restare fuori dal Parlamento. E quando un uomo politico si mette in gioco va rispettato, tanto più che in questi anni l'Udc ha consolidato una linea di opposizione resistendo a reiterate lusinghe. Stare all'opposizione lo ha migliorato: è una scuola, fa bene alla salute politica, a condizione che non diventi una scelta esistenziale. Ma non credo sia il caso di Casini».

Cosa si aspetta che faccia Montezemolo. Sarà parte dell'incontro tra moderati e progressisti?
«La politica non è un club esclusivo e oggi più che mai le istituzioni hanno bisogno di personalità che vogliano servire il Paese con la forza della loro esperienza professionale e di lavoro. Ma non abbiamo bisogno di demiurghi che si illudano di potersi sostituire ai partiti e alle forze organizzate. Il Paese ha già dato. Chiunque pensasse di copiare Berlusconi si sbaglierebbe di grosso, non avrebbe la sua potenza di fuoco. Sono stato positivamente colpito da Alessandro Profumo. Alla domanda se volesse scendere in politica ha risposto "alla politica si sale". È così. Servire le istituzioni è una scelta a cui avvicinarsi con rispetto».

Prodi e D'Alema avranno un ruolo in questa nuova stagione politica che lei delinea?
«Premesso che non tocca a me il casting, rispondo che non ho problemi di ruolo e non sto cercando collocazioni. Dimettendomi da palazzo Chigi a suo tempo dimostrai che ai ruoli antepongo le coerenze politiche. Prodi è una grande personalità, tra l'altro molto apprezzata anche al di fuori del nostro Paese. Quindi è una risorsa importante».

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