La crisi globale rappresenta
uno spartiacque che impone di cambiare se stessi. Questo dovrebbero
capire le forze politiche e i movimenti antagonisti. Rileggendo Marx e
Keynes
Per
quale ragione le forze politiche e i movimenti antagonisti sono
incapaci, in una fase di dissoluzione dell'avversario, di costituirsi in
alternativa sociale? Perché la costruzione dell'alternativa ha poco a
vedere con la volontà e dipende soprattutto dalla capacità. E questa,
purtroppo, oggi manca. Basta vedere quello che sta accadendo in piena
crisi. La crisi rinvia all'emergere di difficoltà tali che si instaura
uno spartiacque tra il modo in cui la vita è andata avanti fino al
momento precedente e il modo in cui potrà procedere dopo. Ma il prendere
atto dell'esistenza di difficoltà non comporta il comprendere la
radicalità del cambiamento necessario, soprattutto perché non implica la
comprensione della natura e delle cause di ciò che accade.
Le cose si complicano perché spesso gli individui non sanno accettare
che le difficoltà possono avere una natura paradossale. Invece di
riconoscere che i problemi sopravvenuti "parlano" contro (para) il
comune sapere (doxa) - che dunque va cambiato - pensano di poter
procedere inerzialmente sulla base della cultura di cui sono depositari,
credendo che basti rimboccarsi le maniche, cioè agire come sanno fare,
ma con maggior determinazione. In questo modo, però, la natura di
spartiacque della crisi viene cancellata, appunto perché si nega la
necessità di cambiare se stessi, di spingersi al di là dei limiti della
cultura di cui si è depositari.
Nello specifico l'errore sta nell'interpretare la crisi come fenomeno determinato da un impoverimento della società. Intendiamoci, non è che un impoverimento non ci sia. Ma esso è l'effetto della crisi, non ciò che la causa. Quante volte negli ultimi decenni ho sentito invece ripetere, da molti esponenti di primo piano della sinistra, che ci troveremmo nei guai perché «la spinta della società a vivere al di sopra delle proprie possibilità materiali» avrebbe comportato un depauperamento di cui oggi subiremmo le conseguenze. Questa spiegazione, che rappresenta un trascinamento inerziale di una forma di cultura del mondo precapitalistico, fa acqua da tutte le parti, anche se ai conservatori fa gioco, perché consolida l'idea che l'impoverimento sia solo un fenomeno oggettivo, al quale dovremmo piegarci. E per porvi rimedio dovremmo battere le strade che loro hanno tracciato in passato (sacrifici per gli investimenti accumulativi).
Se, invece di accodarsi a questo stantio luogo comune, le persone che sentono il bisogno di un cambiamento avessero ripreso una spiegazione opposta fornita da Marx nel Manifesto, che in molti hanno sbadatamente letto, forse la situazione odierna sarebbe meno desolante. Secondo Marx, infatti, «nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti (E che cos'è la chiusura di centinaia di fabbriche, di decine di ospedali, di molte classi scolastiche, la soppressione di servizi ferroviari e di autobus, di mancati interventi sulla viabilità urbana, se non un processo distruttivo analogo alla guerra?) E perché? Perchè la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. ... I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta». Per decenni quasi nessuno, nel mondo capitalistico, ha ripreso questa analisi in forme non ideologiche e, al sopravvenire delle crisi, si è agito, anche da parte dei governi socialdemocratici, come si faceva nel mondo medievale, con sacrifici, pregando e procedendo a tagli della miserevole spesa pubblica dell'epoca.
Si è dovuti arrivare ad una crisi epocale, come quella che ha investito il mondo intero negli anni Trenta, affinché qualcuno cominciasse a recuperare un senso delle cose che muovesse nella stessa direzione di quella di Marx. Scrive infatti Keynes in quegli anni: «Se la nostra povertà fosse dovuta ad una carestia, ad un terremoto o ad una guerra - se ci mancassero i beni materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di individuare il percorso verso la prosperità altrimenti che col duro lavoro, l'astinenza e l'innovazione. Ma di fatto, i nostri guai sono di altra natura. Derivano dal fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, nel funzionamento delle motivazioni che ci spingono alle decisioni e all'azione, necessarie per mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo».
Le parole non sono identiche a quelle di Marx, ma il senso è esattamente lo stesso: non sappiamo più appropriarci produttivamente dell'abbondante ricchezza di cui disponiamo, perché le mediazioni sociali - corrispondenti alla nostra individualità - che sostengono il processo grazie al quale essa potrebbe tornare nel circolo produttivo non sono all'altezza dei problemi emersi.
La riuscita dell'azione umana sta in genere più nella formulazione coerente dei problemi che nella loro soluzione. Poiché la prima vincola lo svolgimento verso la seconda, se il problema è formulato male la soluzione diventa impossibile. D'altra parte, la formulazione appropriata del problema richiede che si tenga conto della catena causale che ha condotto all'emergere della difficoltà riproduttiva. Se, ad esempio, si ritiene che di fronte all'esplodere della disoccupazione il problema stia nell'ultimo anello della catena, si agirà, come si è fatto negli ultimi decenni, a quel livello sostenendo che si deve aumentare la flessibilità della forza lavoro, che la si deve riqualificare con programmi di formazione, che le si deve imporre una diminuzione del suo costo, che le si deve chiedere di lavorare più a lungo, ecc. Se invece si colloca il problema al penultimo anello della catena si sosterrà che occorre un "piano del lavoro", perché le autorità non farebbero abbastanza per stimolare la creazione del lavoro. Per chi colloca la formulazione del problema al terzultimo anello della catena l'intervento ai due livelli precedenti non basterebbe, perché il problema non riguarderebbe né il comportamento degli individui, né l'azione del governo. La questione investirebbe piuttosto un oggettivo processo di impoverimento, al quale "mancando i soldi" si potrebbe porre rimedio solo con tagli e sacrifici.
Ma la critica sia di Marx che di Keynes a tutti questi approcci è radicale. Scrisse infatti Keynes nel momento in cui il terzo approccio era prevalente: «Lungi dal garantire una soluzione del problema, ogni sterlina risparmiata sulla spesa pubblica non è altro che un'occupazione cancellata», perché le risorse ci sono, ma non si è capaci di farle tornare nel circolo produttivo. In termini ancora più espliciti, qualche mese dopo ribadisce: «Una politica di tagli e sacrifici non è altro che una campagna per l'intensificazione della disoccupazione».
In questi giorni sembra esserci una generale convergenza, con la sinistra in prima fila, su una politica che nega la natura paradossale della crisi. Una politica che ricorda molto da vicino la trappola in cui precipitò il mondo negli anni Trenta. La motivazione per assumerla è che ce lo chiede l'Europa e lo impongono le cosiddette società di rating, delle quali, per giudizio unanime, dovremmo riconquistare la fiducia.
Ma non è la prima volta che gli organismi finanziari fanno precipitare la società nel baratro e le istituzioni politiche combinano guai. Se la sinistra non tiene a mente queste verità storica, e non impara ad essere più problematica, sobbarcandosi l'onere di comprendere la sua impotenza, cancella la natura radicale della crisi e finisce col muoversi in un mondo capovolto, senza neppure accorgersene.
Nello specifico l'errore sta nell'interpretare la crisi come fenomeno determinato da un impoverimento della società. Intendiamoci, non è che un impoverimento non ci sia. Ma esso è l'effetto della crisi, non ciò che la causa. Quante volte negli ultimi decenni ho sentito invece ripetere, da molti esponenti di primo piano della sinistra, che ci troveremmo nei guai perché «la spinta della società a vivere al di sopra delle proprie possibilità materiali» avrebbe comportato un depauperamento di cui oggi subiremmo le conseguenze. Questa spiegazione, che rappresenta un trascinamento inerziale di una forma di cultura del mondo precapitalistico, fa acqua da tutte le parti, anche se ai conservatori fa gioco, perché consolida l'idea che l'impoverimento sia solo un fenomeno oggettivo, al quale dovremmo piegarci. E per porvi rimedio dovremmo battere le strade che loro hanno tracciato in passato (sacrifici per gli investimenti accumulativi).
Se, invece di accodarsi a questo stantio luogo comune, le persone che sentono il bisogno di un cambiamento avessero ripreso una spiegazione opposta fornita da Marx nel Manifesto, che in molti hanno sbadatamente letto, forse la situazione odierna sarebbe meno desolante. Secondo Marx, infatti, «nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti (E che cos'è la chiusura di centinaia di fabbriche, di decine di ospedali, di molte classi scolastiche, la soppressione di servizi ferroviari e di autobus, di mancati interventi sulla viabilità urbana, se non un processo distruttivo analogo alla guerra?) E perché? Perchè la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. ... I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta». Per decenni quasi nessuno, nel mondo capitalistico, ha ripreso questa analisi in forme non ideologiche e, al sopravvenire delle crisi, si è agito, anche da parte dei governi socialdemocratici, come si faceva nel mondo medievale, con sacrifici, pregando e procedendo a tagli della miserevole spesa pubblica dell'epoca.
Si è dovuti arrivare ad una crisi epocale, come quella che ha investito il mondo intero negli anni Trenta, affinché qualcuno cominciasse a recuperare un senso delle cose che muovesse nella stessa direzione di quella di Marx. Scrive infatti Keynes in quegli anni: «Se la nostra povertà fosse dovuta ad una carestia, ad un terremoto o ad una guerra - se ci mancassero i beni materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di individuare il percorso verso la prosperità altrimenti che col duro lavoro, l'astinenza e l'innovazione. Ma di fatto, i nostri guai sono di altra natura. Derivano dal fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, nel funzionamento delle motivazioni che ci spingono alle decisioni e all'azione, necessarie per mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo».
Le parole non sono identiche a quelle di Marx, ma il senso è esattamente lo stesso: non sappiamo più appropriarci produttivamente dell'abbondante ricchezza di cui disponiamo, perché le mediazioni sociali - corrispondenti alla nostra individualità - che sostengono il processo grazie al quale essa potrebbe tornare nel circolo produttivo non sono all'altezza dei problemi emersi.
La riuscita dell'azione umana sta in genere più nella formulazione coerente dei problemi che nella loro soluzione. Poiché la prima vincola lo svolgimento verso la seconda, se il problema è formulato male la soluzione diventa impossibile. D'altra parte, la formulazione appropriata del problema richiede che si tenga conto della catena causale che ha condotto all'emergere della difficoltà riproduttiva. Se, ad esempio, si ritiene che di fronte all'esplodere della disoccupazione il problema stia nell'ultimo anello della catena, si agirà, come si è fatto negli ultimi decenni, a quel livello sostenendo che si deve aumentare la flessibilità della forza lavoro, che la si deve riqualificare con programmi di formazione, che le si deve imporre una diminuzione del suo costo, che le si deve chiedere di lavorare più a lungo, ecc. Se invece si colloca il problema al penultimo anello della catena si sosterrà che occorre un "piano del lavoro", perché le autorità non farebbero abbastanza per stimolare la creazione del lavoro. Per chi colloca la formulazione del problema al terzultimo anello della catena l'intervento ai due livelli precedenti non basterebbe, perché il problema non riguarderebbe né il comportamento degli individui, né l'azione del governo. La questione investirebbe piuttosto un oggettivo processo di impoverimento, al quale "mancando i soldi" si potrebbe porre rimedio solo con tagli e sacrifici.
Ma la critica sia di Marx che di Keynes a tutti questi approcci è radicale. Scrisse infatti Keynes nel momento in cui il terzo approccio era prevalente: «Lungi dal garantire una soluzione del problema, ogni sterlina risparmiata sulla spesa pubblica non è altro che un'occupazione cancellata», perché le risorse ci sono, ma non si è capaci di farle tornare nel circolo produttivo. In termini ancora più espliciti, qualche mese dopo ribadisce: «Una politica di tagli e sacrifici non è altro che una campagna per l'intensificazione della disoccupazione».
In questi giorni sembra esserci una generale convergenza, con la sinistra in prima fila, su una politica che nega la natura paradossale della crisi. Una politica che ricorda molto da vicino la trappola in cui precipitò il mondo negli anni Trenta. La motivazione per assumerla è che ce lo chiede l'Europa e lo impongono le cosiddette società di rating, delle quali, per giudizio unanime, dovremmo riconquistare la fiducia.
Ma non è la prima volta che gli organismi finanziari fanno precipitare la società nel baratro e le istituzioni politiche combinano guai. Se la sinistra non tiene a mente queste verità storica, e non impara ad essere più problematica, sobbarcandosi l'onere di comprendere la sua impotenza, cancella la natura radicale della crisi e finisce col muoversi in un mondo capovolto, senza neppure accorgersene.
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