L'ex segretario di Rifondazione smentisce la
strategia di Vendola: puntare a entrare nel recinto del governo è la
morte della politica. La strada indicata è "la rivolta" contro la
governance europea. Meglio tardi che mai.
di Salvatore Cannavò, www.ilmegafonoquotidiano.it
Bertinotti è tornato quello "di lotta". Niente più governo, ora è il
momento della rivolta. Dopo il suo editoriale sulla rivista Alternative
per il socialismo dal titolo esplicito, "L'opportunità della rivolta",
ora è la volta di una lunga intervista al manifesto dal titolo
inequivocabile: "Io non sarò su quel treno". Dove il treno è, allo
stesso tempo, il governo del centrosinistra in gestazione e la
coalizione con il Pd cui sta lavorando Nichi Vendola e Sinistra,
Ecologia e Libertà. Una rottura tra l'ex presidente della Camera e
l'attuale presidente della Puglia? Bertinotti, nell'intervista, si tiene
alla larga dalle polemiche dirette e non fa nomi, ne fa quasi una
pre-condizione per parlare con Loris Campetti del manifesto. Ma la
strategia politica è chiaramente alternativa a quella del presidente di
Sel. E il ragionamento abbastanza chiaro.
Di fronte alla lettera Bce, preceduta, dice Bertinotti, dalle mosse di Marchionne sul piano delle relazioni sindacali e sociali, di fronte alla camicia di forza imposta ai governi nazionali, i quali sono passivi e privi di autonomia politica, "la scelta di entrare nel recinto può segnare la morte della politica". E il recinto è proprio il governo. Bertinotti propone di "abbattere il recinto e liberare la politica" con una "potenza politica e sociale". L'allusione è a una "coalizione socio-politica-culturale" che però non viene spiegata tranne che per un accenno a "Uniti per l'alternativa" la nuova coalizione nata dall'incontro tra la Fiom e gli ex disobbedienti che però, nelle sue deliberazioni, sembra voler sostenere il progetto di Vendola e la proposta di "primarie di programma". Comunque, il punto fermo di Bertinotti è che non si può "saltare sul treno" perché non si può "deciderne la direzione". Addirittura, per le varie sinistre sarebbe meglio pensare di "saltare un giro" (anche qui però non si spiega cosa voglia dire: rinunciare alle elezioni o solo alle alleanze?). Se è vero che bisogna mandare a casa Berlusconi, "resta comunque la prigione della centralità assoluta del sistema elettorale pensato solo in funzione dell'accesso al governo". E comunque, spiega, "meglio il proporzionale che il tentativo di salire sul treno del maggioritario in nome delle primarie". Come si vede la distanza con Vendola è netta e la posizione così chiaramente affermata non mancherà di avere ripercussioni nel centrosinistra: nel Pd e nei vari ambienti moderati ci si sta già chiedendo quanto ci si possa fidare di Vendola.
Si potrebbe dire molto sulla tempestività delle posizioni di Fausto Bertinotti. Se il ragionamento proposto è convincente lo sarebbe stato di più se non si fosse data una grande credibilità, circa cinque-sei anni fa proprio all'idea del "salto sul treno". Su quel treno Bertinotti ci è già salito e ora, dopo aver capito che è stato uno sbaglio, ne scende rumorosamente. Solo che nel frattempo si sono rotti gli argini e si è frantumata l'ipotesi di un pensiero critico alternativo la cui ricostruzione è lenta e difficile. In molti si sono fatti male.
Detto questo, il ragionamento proposto dall'ex presidente della Camera merita attenzione perché evidenzia le enormi contraddizioni di quella sinistra - non solo Vendola - che pensa ancora che il Pd sia permeabile e condizionabile. E mette in rilievo la necessità di colmare un vuoto politico, sociale e culturale che si allarga in forme preoccupanti. Dalla sostanziale morte di Rifondazione - con l'esperienza del governo Prodi e poi con le varie scissioni - a oggi la scena politica è stata occupata dalle diverse varianti del progetto democratico - il populismo di Di Pietro, la narrazione vendoliana, un certo collateralismo di organizzazioni sociali e sindacali - mentre l'alternativa è rimasta muta. Il grido solitario di Bertinotti è figlio di questo arretramento e delle varie sconfitte di cui egli è stato protagonista assoluto. Ma questo non vuol dire che l'esigenza posta non sia giusta.
In questo paese manca esattamente una "coalizione politica, sociale e culturale" che rinunci a salire sul treno della "governance" e che imposti una "narrazione" alternativa. Se le varie forze che pongono questa esigenza come non rinviabile, si parlassero e mettessero in valore le reciproche esperienze anche la resistenza ai sacrifici imposti da governi e Bce sarebbe più convincente e attiverebbe energie. Si potrebbe costruire un recinto alternativo a quello della "governance" in cui confrontare ipotesi di società futura, progetti di intervento sociale, campagne comuni, strumenti per comunicare e realizzare un impatto sociale significativo. Qualcosa in questa direzione si è mosso: l'assemblea del 1 ottobre convocata dall'appello "Dobbiamo fermarli" è stata un successo mentre una settimana prima si è costituito il cartello "Uniti per l'alternativa". Ma se la prima si è messa immediatamente "fuori dal recinto" e non a caso si è riunita attorno alla parola d'ordine dell'annullamento del debito, il secondo ha finora dichiaratamente annunciato che cercherà di condizionare proprio quel recinto.
Le prossime settimane probabilmente chiariranno meglio le strategie dei vari soggetti in campo. Al momento si può solo registrare che dopo aver provato la strategia "di lotta e di governo" oggi Bertinotti sceglie solo la lotta. E' un primo passo.
Di fronte alla lettera Bce, preceduta, dice Bertinotti, dalle mosse di Marchionne sul piano delle relazioni sindacali e sociali, di fronte alla camicia di forza imposta ai governi nazionali, i quali sono passivi e privi di autonomia politica, "la scelta di entrare nel recinto può segnare la morte della politica". E il recinto è proprio il governo. Bertinotti propone di "abbattere il recinto e liberare la politica" con una "potenza politica e sociale". L'allusione è a una "coalizione socio-politica-culturale" che però non viene spiegata tranne che per un accenno a "Uniti per l'alternativa" la nuova coalizione nata dall'incontro tra la Fiom e gli ex disobbedienti che però, nelle sue deliberazioni, sembra voler sostenere il progetto di Vendola e la proposta di "primarie di programma". Comunque, il punto fermo di Bertinotti è che non si può "saltare sul treno" perché non si può "deciderne la direzione". Addirittura, per le varie sinistre sarebbe meglio pensare di "saltare un giro" (anche qui però non si spiega cosa voglia dire: rinunciare alle elezioni o solo alle alleanze?). Se è vero che bisogna mandare a casa Berlusconi, "resta comunque la prigione della centralità assoluta del sistema elettorale pensato solo in funzione dell'accesso al governo". E comunque, spiega, "meglio il proporzionale che il tentativo di salire sul treno del maggioritario in nome delle primarie". Come si vede la distanza con Vendola è netta e la posizione così chiaramente affermata non mancherà di avere ripercussioni nel centrosinistra: nel Pd e nei vari ambienti moderati ci si sta già chiedendo quanto ci si possa fidare di Vendola.
Si potrebbe dire molto sulla tempestività delle posizioni di Fausto Bertinotti. Se il ragionamento proposto è convincente lo sarebbe stato di più se non si fosse data una grande credibilità, circa cinque-sei anni fa proprio all'idea del "salto sul treno". Su quel treno Bertinotti ci è già salito e ora, dopo aver capito che è stato uno sbaglio, ne scende rumorosamente. Solo che nel frattempo si sono rotti gli argini e si è frantumata l'ipotesi di un pensiero critico alternativo la cui ricostruzione è lenta e difficile. In molti si sono fatti male.
Detto questo, il ragionamento proposto dall'ex presidente della Camera merita attenzione perché evidenzia le enormi contraddizioni di quella sinistra - non solo Vendola - che pensa ancora che il Pd sia permeabile e condizionabile. E mette in rilievo la necessità di colmare un vuoto politico, sociale e culturale che si allarga in forme preoccupanti. Dalla sostanziale morte di Rifondazione - con l'esperienza del governo Prodi e poi con le varie scissioni - a oggi la scena politica è stata occupata dalle diverse varianti del progetto democratico - il populismo di Di Pietro, la narrazione vendoliana, un certo collateralismo di organizzazioni sociali e sindacali - mentre l'alternativa è rimasta muta. Il grido solitario di Bertinotti è figlio di questo arretramento e delle varie sconfitte di cui egli è stato protagonista assoluto. Ma questo non vuol dire che l'esigenza posta non sia giusta.
In questo paese manca esattamente una "coalizione politica, sociale e culturale" che rinunci a salire sul treno della "governance" e che imposti una "narrazione" alternativa. Se le varie forze che pongono questa esigenza come non rinviabile, si parlassero e mettessero in valore le reciproche esperienze anche la resistenza ai sacrifici imposti da governi e Bce sarebbe più convincente e attiverebbe energie. Si potrebbe costruire un recinto alternativo a quello della "governance" in cui confrontare ipotesi di società futura, progetti di intervento sociale, campagne comuni, strumenti per comunicare e realizzare un impatto sociale significativo. Qualcosa in questa direzione si è mosso: l'assemblea del 1 ottobre convocata dall'appello "Dobbiamo fermarli" è stata un successo mentre una settimana prima si è costituito il cartello "Uniti per l'alternativa". Ma se la prima si è messa immediatamente "fuori dal recinto" e non a caso si è riunita attorno alla parola d'ordine dell'annullamento del debito, il secondo ha finora dichiaratamente annunciato che cercherà di condizionare proprio quel recinto.
Le prossime settimane probabilmente chiariranno meglio le strategie dei vari soggetti in campo. Al momento si può solo registrare che dopo aver provato la strategia "di lotta e di governo" oggi Bertinotti sceglie solo la lotta. E' un primo passo.
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