Ancora una volta le violenze di una
minoranza dei manifestanti hanno oscurato le ragioni di una protesta che
è segno di un disagio concreto e preoccupante. Proviamo allora a
riflettere sulle prospettive di un movimento che rappresenta la prima
grande risposta popolare su scala globale alla crisi economica scoppiata
nel 2007/2008.
Intervista a Emiliano Brancaccio di Emilio Carnevali,
Intervista a Emiliano Brancaccio di Emilio Carnevali,
http://temi.repubblica.it/micromega-online
Dalle
piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la
protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli
“indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a
Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i
drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008
e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della situazione da
parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di
“indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla
disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e
reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata
sull'economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
In
tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione
etico-normativa su “violenza” e “non violenza”. Se ne sono fatte tante,
in passato, e mi pare che non abbiano mai inciso sul corso effettivo
degli eventi. Preferisco analizzare le dinamiche del processo storico,
di cui gli scontri di Roma, così come quelli di Atene, indubbiamente
fanno parte, che ci piaccia o meno.
Rilevo nei “demolitori” di piazza san Giovanni una qualità superficiale e un limite di fondo. La qualità sta nella rapidità. L’onda di una rivolta distruttiva cresce in Europa ogni giorno, con accelerazioni improvvise. E’ interessante notare che, sul piano strettamente visivo, questi “riots”, queste azioni rivoltose, sembrano le uniche in grado di colpire alla stessa velocità dei famigerati mercati finanziari. In termini puramente simbolici, le fulminee azioni della guerriglia urbana danno cioè l’illusione di essere le uniche capaci di tener testa al ritmo forsennato della speculazione finanziaria, che abbatte i prezzi dei titoli, aumenta i tassi d’interesse e offre un alibi ai governi che colpiscono il welfare e il lavoro. Potremmo dire, insomma, che a un primo sguardo i “demolitori” sembrano i soli in grado di “colpire veloci” come gli speculatori.
Ma anche prescindendo da considerazioni di carattere – come lei le ha definite - “etico-normativo”, non pare che queste azioni abbiano alcuna efficacia politica al di là dello sfogo di un pomeriggio...
Rilevo nei “demolitori” di piazza san Giovanni una qualità superficiale e un limite di fondo. La qualità sta nella rapidità. L’onda di una rivolta distruttiva cresce in Europa ogni giorno, con accelerazioni improvvise. E’ interessante notare che, sul piano strettamente visivo, questi “riots”, queste azioni rivoltose, sembrano le uniche in grado di colpire alla stessa velocità dei famigerati mercati finanziari. In termini puramente simbolici, le fulminee azioni della guerriglia urbana danno cioè l’illusione di essere le uniche capaci di tener testa al ritmo forsennato della speculazione finanziaria, che abbatte i prezzi dei titoli, aumenta i tassi d’interesse e offre un alibi ai governi che colpiscono il welfare e il lavoro. Potremmo dire, insomma, che a un primo sguardo i “demolitori” sembrano i soli in grado di “colpire veloci” come gli speculatori.
Ma anche prescindendo da considerazioni di carattere – come lei le ha definite - “etico-normativo”, non pare che queste azioni abbiano alcuna efficacia politica al di là dello sfogo di un pomeriggio...
Infatti
la qualità cui ho fatto cenno è apparente, del tutto illusoria,
puramente coreografica. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che essa
risalta di fronte all’affanno dei tradizionali movimenti di massa e
ancor più delle istituzioni politiche. Quando i “demolitori” dichiarano:
«volevano farsi il solito, inutile comizio e invece hanno avuto una
bella sorpresa», è chiaro che intendono sfidare una politica
tradizionale che arranca paurosamente, che giunge sempre in ritardo sui
luoghi in cui si consumano i delitti politici del nostro tempo. E’
questo spaventoso ritardo che spiega le simpatie, più o meno nascoste,
che un numero non trascurabile di persone, e di lavoratori, esprime oggi
nei confronti dei “demolitori” di piazza San Giovanni.
E quale sarebbe invece il limite dei “demolitori”?
E quale sarebbe invece il limite dei “demolitori”?
Un
limite gigantesco. Essi sono palesemente incapaci di cogliere il senso
profondo delle dinamiche in corso, e sono per questo totalmente privi di
una piattaforma politica. Nella migliore delle ipotesi, senza esserne
nemmeno consapevoli, i “demolitori” attingono da un miscuglio di vecchie
parole d’ordine del più ingenuo proudhonismo e da un’apologia
dell’azione in sé che ha molti padri spirituali, ad esempio nel dadaismo
ma anche nel primissimo fascismo. Definirli anarchici è già alquanto
lusinghiero. Il problema è che i verdetti della Storia su questo tipo di
movimenti sono inequivocabili. Le forme ingenue di ribellione possono
condurre alla distruzione di macchine e di simboli, religiosi e non,
possono mandare all’ospedale qualche malcapitato agente di polizia, e
possono anche arrivare a lasciare dei morti ammazzati per strada. In
questo modo riescono facilmente a conquistare le scene di un mondo
mediatizzato. Ma, restando confinate nell’ambito effimero della
coreografia, sia pure magari insanguinata, esse risultano politicamente
insulse. La mera rivolta, il cosiddetto “riot”, se rimangono tali sono
classificabili come eventi di fatto innocui, che si verificano molto più
spesso di quanto si immagini e che non scalfiscono mai il potere. Anzi,
in genere creano le tipiche condizioni per la più agevole delle
reazioni da parte degli apparati repressivi dello stato e offrono
l’occasione per una svolta di tipo più o meno surrettiziamente
autoritario.
E' quello a cui stiamo assistendo in queste ore. Peraltro le polemiche sugli scontri hanno completamente oscurato tutto il resto, compreso il dibattito sulla piattaforma politica del movimento nel suo complesso. Ma è possibile definire almeno quella proveniente dalla “parte pacifica”?
E' quello a cui stiamo assistendo in queste ore. Peraltro le polemiche sugli scontri hanno completamente oscurato tutto il resto, compreso il dibattito sulla piattaforma politica del movimento nel suo complesso. Ma è possibile definire almeno quella proveniente dalla “parte pacifica”?
Occorre ammettere che,
sul piano dell’analisi e della proposta politica, anche la parte
cosiddetta “pacifica” del movimento appare in enorme difficoltà.
Consideriamo ad esempio la declamata categoria dei “beni comuni”, che
dovrebbero caratterizzarsi per il fatto di poter esser gestiti
collettivamente senza la mediazione né mercato né dello stato. Nella
definizione scientifica originaria il concetto descrive una forma di
organizzazione delle relazioni economiche precisa ma con applicazioni
decisamente limitate. Invece, nel senso in cui viene adoperata
all’interno dei movimenti, l’espressione “beni comuni” costituisce una
espressione equivoca, che in quanto tale significa tutto e niente. La
sua ambiguità, si badi, non è casuale. Essa deriva dal fatto che alcune
teste pensanti del movimento si illudono, attraverso di essa, di
promuovere la nascita di un modo generale di produzione sociale che sia
immediatamente “altro” rispetto allo stato e al mercato. Letti in
quest’ottica i “beni comuni” rischiano dunque di assumere i tratti di
una chimera inutile e fuorviante. Non è un caso che i marxisti e i veri
protagonisti del movimento operaio novecentesco non si sono mai lasciati
sedurre da simili illusioni: per loro, il primo problema è sempre
consistito nella presa – graduale o rivoluzionaria – del potere statale,
nell’uso delle leve dello stato per la socializzazione della produzione
e nella progressiva democratizzazione delle decisioni economiche. Ed
anche oggi, quello della presa delle “casematte” dello stato resta la
questione chiave. Il resto è solo fuffa.
Il movimento però invoca anche il “ripudio del debito”.
Il movimento però invoca anche il “ripudio del debito”.
Qui
la questione è un po’ diversa. Contrariamente a quel che si pensa, non
si tratta di una proposta utopica: la stessa storia del capitalismo è
costellata di fallimenti di stati sovrani. Il problema è che
bisognerebbe poi avere ben presenti le conseguenze di un simile atto.
Infatti l’obiezione più comune è che un “ripudio del debito” implicherebbe un crollo dell’intero sistema finanziario, con ripercussioni sociali peggiori di quelle che già si registrano.
Infatti l’obiezione più comune è che un “ripudio del debito” implicherebbe un crollo dell’intero sistema finanziario, con ripercussioni sociali peggiori di quelle che già si registrano.
In realtà la
questione preliminare è un altra. Rifiutarsi unilateralmente di pagare
il debito implica poi la capacità, da parte di un paese o di un
aggregato di paesi, di fare a meno dei prestiti esteri per un lungo
periodo. E’ chiaro infatti che se si cancella il debito con una mano e
poi si chiede un nuovo prestito con l’altra, si subirà la logica
rappresaglia di un feroce aumento dei tassi d’interesse e di un fatale
razionamento dei finanziamenti da parte dei creditori esteri. Per fare a
meno dei prestiti, allora, bisognerebbe pianificare una strategia di
politica economica che consenta di diminuire le importazioni e, più in
generale, che persegua l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese
dai movimenti internazionali di capitali e di merci. Si tratta
chiaramente di una linea che affiderebbe di nuovo un ruolo forte allo
stato nazionale, o a una comunità di stati che puntino a una politica
economica più autonoma rispetto alle leggi impersonali della cosiddetta
globalizzazione capitalistica. In questo scenario anche l’instabilità
finanziaria che consegue a un default potrebbe essere gestita,
sottoponendo la politica monetaria della banca centrale al potere degli
organi elettivi, e magari nazionalizzando parte del sistema bancario.
Sono queste del resto le soluzioni che in genere hanno tipicamente fatto
seguito a un default sovrano.
Non mi pare che sia questo l'orizzonte entro cui si muovano i sostenitori del ripudio del debito.
Non mi pare che sia questo l'orizzonte entro cui si muovano i sostenitori del ripudio del debito.
Alcuni
promotori del “ripudio del debito” sono in imbarazzo di fronte a queste
logiche conseguenze del loro slogan. Il motivo è che essi hanno per
anni proclamato la morte degli stati nazionali, lo hanno fatto persino
con più veemenza dei cosiddetti liberisti. Per questo tali esponenti del
movimento oggi non appaiono in grado di trarre dalla parola d’ordine
del ripudio unilaterale del debito una precisa conseguenza sul piano
politico: quella del ripristino di una idea di sovranità dello stato, o
di un gruppo coeso di stati, rispetto ai meccanismi del mercato globale.
Sembra che io stia facendo un discorso troppo alto, ma non lo è: il
popolo annusa l’aria, e comprende subito se una proposta abbia un senso
logico e conduca a qualcosa, oppure sia intrinsecamente contraddittoria e
porti in un vicolo cieco. Anche per queste incertezze, per queste
fragilità insite negli slogan della parte cosiddetta “pacifica” del
movimento, i “demolitori” prendono agevolmente il sopravvento.
Al di là della perseguibilità “tecnica” del percorso che lei ha appena delineato, c'è tuttavia un punto politico dal quale non si può prescindere: quali sarebbero gli alleati di un simile progetto? Il rifiuto del debito è attualmente una parola d'ordine di poche frange marginali dell'estrema sinistra. E per fare cose tipo “sottoporre la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi” ci vorrebbe di fatto un “governo rivoluzionario continentale”. Sinceramente non mi pare una ipotesi realistica.
Al di là della perseguibilità “tecnica” del percorso che lei ha appena delineato, c'è tuttavia un punto politico dal quale non si può prescindere: quali sarebbero gli alleati di un simile progetto? Il rifiuto del debito è attualmente una parola d'ordine di poche frange marginali dell'estrema sinistra. E per fare cose tipo “sottoporre la politica monetaria della banca centrale al potere degli organi elettivi” ci vorrebbe di fatto un “governo rivoluzionario continentale”. Sinceramente non mi pare una ipotesi realistica.
Francamente
non scomoderei la parola “rivoluzione”, che oggi mi pare un po’
abusata. Del resto, prima del famigerato “divorzio” dal Tesoro, anche
Bankitalia era sottoposta a un controllo di quel tipo, e non mi pare che
all’epoca i cavalli dei cosacchi si abbeverassero a San Pietro. Ad ogni
modo, qui dobbiamo intenderci su un fatto: l’agenda politica corrente,
intorno alla quale le istituzioni europee, i governi e le stesse
opposizioni si affannano, è essa stessa auto-contraddittoria. Se in
Europa insisteremo con le cosiddette politiche di “austerità”, la
domanda di merci, la produzione, l’occupazione, i redditi e quindi anche
le entrate fiscali si ridurranno ulteriormente, per cui diventerà
sempre più difficile rimborsare i debiti. In questo modo, anziché
contrastare la speculazione finanziaria, si finirà per alimentarla.
Teniamo presente che proprio a causa di tali politiche la Grecia è già
tecnicamente fallita. Proseguendo lungo questa via anche l’Italia, il
Portogallo e la Spagna finiranno per incamminarsi verso un inesorabile
default. Non solo: il ripudio del debito, in quanto tale, potrebbe
rivelarsi persino insufficiente. I paesi in default potrebbero infatti
vedersi costretti anche a uscire dalla zona euro e svalutare, per
tentare di accrescere la competitività verso l’estero e interrompere il
declino della domanda e della produzione. Insomma, gli eventi potrebbero
a un certo punto correre più veloci sia dell’agenda politica
istituzionale che degli stessi slogan di movimento. Non sarebbe la prima
volta.
L'ipotesi di una uscita dalla zona euro è una prospettiva concreta. Ma ha senso sul piano politico? Lei si limita a prevederne la possibilità o crede che gli stessi movimenti e partiti di sinistra – sopraggiunte determinate condizioni – dovrebbero sostenerla attivamente?
L'ipotesi di una uscita dalla zona euro è una prospettiva concreta. Ma ha senso sul piano politico? Lei si limita a prevederne la possibilità o crede che gli stessi movimenti e partiti di sinistra – sopraggiunte determinate condizioni – dovrebbero sostenerla attivamente?
L’uscita dalla zona euro può risultare a un
certo punto una necessità oggettiva. Ma da qui a ritenerla vantaggiosa
ce ne passa, soprattutto se esaminiamo il problema dal punto di vista
dei lavoratori. Ricordiamo cosa avvenne nel 1992, durante una crisi per
più di un verso simile a quella attuale. Sotto l’attacco della
speculazione, il governo italiano attuò prima una serie di pesanti
politiche di austerità, che non calmarono i mercati. Quindi decise di
sganciare la lira dal cambio fisso con il marco. Tuttavia, per impedire
che la svalutazione della lira e il conseguente aumento del prezzo delle
merci importate scatenassero una rincorsa salariale, i sindacati furono
chiamati a firmare un accordo sul costo del lavoro molto vincolante. I
lavoratori pagarono così due volte: a causa delle politiche di austerità
e poi a seguito del freno imposto ai salari. Ci sono motivi per
ritenere che oggi potremmo assistere a una riproposizione di quel
copione, con effetti ancor più drammatici sulla stessa funzione del
sindacato, che verrebbe ulteriormente compromessa. Gli economisti di
sinistra che oggi invocano lo sganciamento dall’euro dovrebbero fare più
attenzione a questi rischi.
Ma allora, quale potrebbe essere un programma politico in grado realisticamente di tutelare il welfare e di difendere gli interessi del lavoro?
Ma allora, quale potrebbe essere un programma politico in grado realisticamente di tutelare il welfare e di difendere gli interessi del lavoro?
La visione
dominante contrappone il salvataggio della zona euro agli interessi dei
lavoratori: il messaggio è che se vogliamo la prima occorre sacrificare
i secondi. Ma questa è una lettura ideologica dei fatti. E’ necessario
quindi mettere preliminarmente in chiaro che la salvezza della unità
europea e la salvaguardia degli interessi del lavoro sono obiettivi
coincidenti. Il regime di accumulazione del capitale fondato sulla
finanza privata è infatti entrato in crisi. Siamo di fronte a una
occasione storica per la costruzione di un nuovo e diverso regime di
sviluppo. Per edificarlo, occorre in primo luogo che l’autorità pubblica
abbandoni il ruolo ancillare di prestatore di ultima istanza del
capitale privato, e si faccia invece creatrice di prima istanza di nuova
occupazione. Di prima istanza, si badi, e cioè non per mera assistenza,
ma per la produzione di quei “beni base” la cui messa in opera risulta
fondamentale per il progresso sociale e civile dell’umanità ma le cui
implicazioni tipicamente sfuggono alla logica ristretta dell’impresa
capitalistica privata. Questa sorta di versione moderna della
pianificazione pubblica rappresenta, allo stato dei fatti, il solo modo
razionale che abbiamo per attivare un nuovo motore “interno” dello
sviluppo economico europeo, senza il quale l’Unione stessa rischia di
implodere. In secondo luogo, bisogna introdurre nuovi strumenti di
gestione dei rapporti conflittuali tra gli stati membri dell’Unione e
tra le classi sociali. Un esempio tra i tanti è lo “standard retributivo
europeo”, che consentirebbe di interrompere la competizione salariale
in atto tra i paesi dell’Unione. Sia pure in forma blanda e in estremo
ritardo, di questi strumenti si inizia a discutere anche in seno ai
partiti socialisti europei. Limitarsi però a invocare queste ricette è
del tutto inutile se la Germania si mette di traverso.
Ma i tedeschi non sarebbero essi stessi danneggiati da una crisi della zona euro?
Ma i tedeschi non sarebbero essi stessi danneggiati da una crisi della zona euro?
Un
eventuale ripudio del debito e una serie di svalutazioni competitive da
parte dei paesi periferici indubbiamente darebbero dei problemi alle
banche e alle imprese tedesche. Tuttavia in Germania queste eventualità
sono già state ampiamente messe in conto, e non fanno più un grande
effetto. Non è questione soltanto di una deriva populista tra i
tedeschi. Ci sono anche motivazioni razionali che spiegano questa
crescente indifferenza ai destini dell’eurozona. A questo riguardo, mi
pare che si dimentichi che, in caso di fallimenti a catena dei debiti
sovrani europei, il sistema bancario tedesco ne uscirebbe in ultima
istanza comunque meno peggio di altri. Inoltre, le svalutazioni
ridurrebbero il valore dei capitali dei paesi periferici, e quindi
darebbero ai capitali tedeschi l’occasione per fare shopping a buon
mercato. Insomma, l’ipotesi di deflagrazione della zona euro non suscita
più grandissimi timori e potrebbe trovare persino delle giustificazioni
logiche, in Germania.
E allora come si possono smuovere i tedeschi dalle loro posizioni?
E allora come si possono smuovere i tedeschi dalle loro posizioni?
Occorre
agire dialetticamente. Bisogna mettere in chiaro che se in Germania
dovesse prevalere la volontà di abbandonare i paesi periferici al loro
destino, allora non sarà soltanto la moneta unica a saltare, ma si
finirà per mettere in discussione anche il mercato unico europeo e la
relativa libera circolazione dei capitali, e al limite delle stesse
merci. I tedeschi debbono cioè comprendere che se intendono assistere
indifferenti alla deflagrazione della zona euro, i paesi periferici
potrebbero reagire imponendo restrizioni ai movimenti di capitali e di
merci. Mi rendo conto che si tratta di una linea difficile da praticare,
soprattutto per i partiti e per i movimenti di sinistra, che in questi
anni sono stati tra i più subalterni all’ideologia dominante della
globalizzazione capitalistica. Ma se in questa fase vuol davvero fare
politica, occorre che la sinistra politica e di movimento agisca su due
fronti: da un lato proporre soluzioni per rafforzare l’unità europea ma,
dall’altro lato, minacciare l’introduzione di vincoli alla libera
circolazione dei capitali e delle merci nel caso in cui l’eurozona
esplodesse. In fondo, si tratta anche di una linea d’azione uguale e
contraria a quella delle destre populiste, che per anni hanno preteso di
affrontare le crisi con la rozza ricetta dei vincoli alla libera
circolazione dei lavoratori.
Tornando alla giornata di sabato, c’è dunque una lezione che lei crede si possa trarre da ciò che è avvenuto?
Tornando alla giornata di sabato, c’è dunque una lezione che lei crede si possa trarre da ciò che è avvenuto?
Direi
di sì, una duplice lezione. In primo luogo, se si vuole evitare di
cadere nella classica spirale perversa del “riots” e della reazione,
occorre che da domani le piattaforme politiche siano più chiare, che la
tattica e la strategia siano definite, che i programmi politici siano
privi di ambiguità: a partire dalla proposta di restare o meno nella
attuale zona euro, sotto quali condizioni, con quali proposte di
sviluppo economico e di riequilibrio tra gli stati e tra le classi
sociali, e soprattutto a fronte di quali possibili alternative. In
secondo luogo, occorre prendere coscienza che la politica non può
continuare ad arrancare dietro i mercati finanziari ma deve finalmente
anticiparli, prevenirli. La politica, a cominciare dalla politica
monetaria della banca centrale, può battere la speculazione. Se non si
affrontano a viso aperto questi problemi, di merito e di rapidità
dell’azione, ci attenderà una vana sequenza di spettacolari ma inutili
azioni di “guerriglia demolitrice” e di immancabili azioni repressive da
parte dello stato. E intanto continueremo ad assistere alla scena, un
po’ surreale, di banchieri centrali che spediscono lettere di
“commissariamento” ai governi e poi maldestramente ammiccano alla
protesta giovanile.
La lettera di Trichet e Draghi cui lei ha appena fatto riferimento è stata una delle micce che qui in Italia hanno innescato le proteste. Criticarla è tanto più opportuno quanto più, anche nella sinistra riformista, cresce la tentazione di farne la piattaforma politica di base di un eventuale governo postberlusconiano. Ma Trichet è anche colui che ha imposto alla Germania – ai suoi governanti come ai suoi rappresentanti nel consiglio direttivo della Bce - la politica di sostegno ai titoli del debito pubblico (inclusi quelli italiani). Quella lettera può essere letta come il certificato di ortodossia da esibire di fronte ai tedeschi per proseguire con queste misure certamente non in linea con la filosofia ispiratrice della Banca centrale europea. Insomma, prendendosela con Trichet e Draghi non si rischia di puntare il dito contro le colombe anziché contro i falchi dell'austerity europea?
La lettera di Trichet e Draghi cui lei ha appena fatto riferimento è stata una delle micce che qui in Italia hanno innescato le proteste. Criticarla è tanto più opportuno quanto più, anche nella sinistra riformista, cresce la tentazione di farne la piattaforma politica di base di un eventuale governo postberlusconiano. Ma Trichet è anche colui che ha imposto alla Germania – ai suoi governanti come ai suoi rappresentanti nel consiglio direttivo della Bce - la politica di sostegno ai titoli del debito pubblico (inclusi quelli italiani). Quella lettera può essere letta come il certificato di ortodossia da esibire di fronte ai tedeschi per proseguire con queste misure certamente non in linea con la filosofia ispiratrice della Banca centrale europea. Insomma, prendendosela con Trichet e Draghi non si rischia di puntare il dito contro le colombe anziché contro i falchi dell'austerity europea?
Trichet ha
fatto il minimo indispensabile per salvare la zona euro. Se non avesse
agito a tutela dei paesi periferici, la moneta unica sarebbe
probabilmente già morta e sepolta. Draghi deve ancora dare prova di sé, a
questo riguardo. L’occasione per valutarlo non mancherà. Presto
potrebbe scoccare la cosiddetta “ora x” sui mercati finanziari, cioè
potrebbe essere sferrato un poderoso attacco speculativo alla zona euro.
A quel punto tutto dipenderà dalla disponibilità o meno di Draghi e
degli altri membri del consiglio direttivo della Bce di rispondere
all’attacco con fermezza, in modo da dare alle istituzioni politiche il
tempo di attivare il “motore interno” dello sviluppo di cui l’Europa
unita ha assoluto bisogno per sopravvivere. La banca centrale ha tutti
gli strumenti per dominare la “bestia” della speculazione. Bisognerà
capire se ne avrà la volontà. Con il dovuto rispetto, dunque, suggerirei
al nuovo Presidente della Bce di rispondere da ora in poi solo con i
fatti alle montanti proteste sociali. Del resto, solo per i fatti egli
verrà giudicato.
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