giovedì 27 giugno 2013

L’ateo, il credente, il chierico di Maria Mantello, Micromega



Da giovedì 27 giugno sarà in edicola il nuovo numero di “Micromega”, intitolato “Ateo è bello! – Almanacco di libero pensiero“. In questo articolo, scritto per il “Rasoio” in occasione dell’uscita del numero, Maria Mantello spiega perché il mondo religioso continua a non tollerare la presenza atea.

A più di qualcuno sarà capitato di essersi imbattuto in quella figura di credente che quando dichiari il tuo ateismo ti perseguita con la sua compassionevole azione conversionista.
Cerca d’incontrarti, di trattenersi con te. Ogni scusa è buona per parlarti di Dio, del gruppo parrocchiale che frequenta, di quanto la fede sia appagante.
E se garbatamente cerchi di fargli capire che proprio la Religione non ti interessa e tanto meno di frequentare strutture clericali; che insomma sei un ateo felice che rispetta chi crede, ma vuole lo stesso rispetto, comincia a parlarti (tra un intercalare e l’altro di graziaddio) di miracoli e guarigioni inspiegabili.
Tu sei in fondo l’ ”anomalia” per la sua identità.
Sei la sfida per la sua riconferma identitario-religiosa. Deve trovare per forza qualcosa che in te non va: nella tua educazione, nella tua famiglia…  ti chiede del battesimo: tuo, dei figli…
Lo fa per il tuo “bene”. È anche convinto di dialogare.
Provi a spiegargli che il dialogo è già fallito prima di iniziare, se lui riporta tutto a una Verità eterna e assoluta che tutto sovrasta.  Se la verità è già data nel Dio, tu per lui sei al massimo la “pecora smarrita” da ricondurre all’ovile della Religione che tutto trascende.
Ti ascolta stupito; lo affascini pure. Ma l’asimmetria comunicativa è incolmabile.
In altri tempi, in nome di Dio, per il suo “bene”, ti avrebbe, forse, mandato al rogo.
Giochi definitori in giogo religioso
Ateo, da a-theós (ἄθεος) è chi nega dio, chi non crede in dio, chi è privo di dio.
L’alfa privativo nega, ma comunque al dio inchioda.
Il dio resta l’affermazione da cui la negazione dipende. L’essenziale che subordina e ingloba.
La negazione può esistere solo nell’orizzonte del divino, che paradossalmente è riconfermato nella parola che pure lo sconfessa.
Dio resta la regola di riferimento. L’Assoluto che dà consistenza alla sua stessa negazione.
L’indipendenza piena è del thèos, che mantiene il sigillo della necessità anche per essere negato, e quindi resta il padrone del valore di senso.
Inoltre, poiché l’idea di dio si fa coincidere con la perfezione massima, solo chi all’Assoluto dio crede, parteciperebbe in qualche modo di essa.
In questo giogo definitorio, il credente sarebbe allora l’individuo compiuto, mentre il non credente, (definizione ancora in negativo) sarebbe il mancante, l’incompiuto.
Affermazione contro opposizione. Essere del credente contro non essere dell’ateo.
Come se non ci potesse essere realtà possibile al di fuori dell’orizzonte religioso che a tutto darebbe senso.
Allora, bisogna azzerare il Simbolo massimo che troneggia sull’orizzonte di senso. Lo aveva ben compreso Friedrich Nietzsche:
«Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”? – E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. [...] L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio”? gridò “ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! [...] Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? [...]»[1].
L’annuncio è dato al “mercato”, luogo per eccellenza della codificazione dello scambio secondo un valore dato. Lì ogni cosa esiste nel valore di senso prefissato. Al mercato il prezzo è stabilito. Un codice prestabilito che Nietzsche eleva a metafora del grande gioco simbolico che si è costruito sulla centralità semantica del dio; che è anche il prezzo del sacrificio dei possibili altri significati di senso tarpati in nome di dio. Per liberare i possibili, allora bisogna cancellare il Simbolo padrone del valore di senso Assoluto. Per questo atto radicalmente liberatorio occorre purificare la mente dall’habitus del gioco definitorio. Occorre la mente sgombra: vuota, “folle”.
Folle, da follis, otre pieno d’aria, ma anche testa vuota. E qui libera dal pre-ordinato che riempie l’otre-testa abituata ad essere re-legata al dio che ne fa il suo habitus.
Il “folle uomo” è libero da tutto questo. La sua testa è dis-abitata dalla reiterazione simbolica. Quindi è la libertà del coraggio individuale “per strofinare via l’intero orizzonte”.
Per questo lavacro “la spugna” non ce la può dare nessuno, perché è conquista personale per diventare ciascuno padrone della propria vita.
Solo così si “scioglie” la catena. Si spegne il sole dell’Assoluto per accendere le proprie individuali lanterne di libertà e responsabilità.
La vita concreta si riappropria allora del suo valore di senso, fuori dalla predeterminazione ontologico-cognitivo-morale che in nome di dio gli apparati religiosi pretendono assolutamente di dare al mondo.
É la metafisica religiosa, a essere posta fuori dall’orizzonte del mondo per liberare l’ethos privato e pubblico.
E in questa prospettiva l’ateo contamina anche il credente che voglia muoversi al di fuori del confessionalismo della Religione-sistema-mondo.
Ed è quanto rivendica il teologo Dietrich Bonhoeffer (attivista nella Resistenza antinazista, e per questo arrestato e poi impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg), con la sua originale ripresa dell’etsi Deus non daretur.
«Dobbiamo vivere nel mondo – etsi deus non daretur.  [...] Dio si lascia cacciare fuori del mondo con la croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta a fianco e ci aiuta.»[2]
Il dio di Bonhoeffer non vuole troni nel mondo, e così libera la fede individuale dalla Religione che pre-determina e ingabbia nel suo sistema di fede.
Non c’è più l’uomo in sé, il bene in sé, la vita in sé, scrive Bonoeffer nell’Etica, ma individui storici, che si autodeterminano nel dire sì alla vita “così come è”, nella responsabilità di esserne artefici nell’umana interrelazione: «Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. [...] La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni e potenze, ovvero nella nostra vita storica»[3]. Il credente emancipato non ha bisogno delle fughe escatologiche, scrive ancora Bonhoeffer in un altro passo di Resistenza e Resa: «Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo (mio Dio perché mi hai abbandonato?)»[4].
Diversissimi tra loro, Nietzsche e Bonhoeffer, emancipano la soggettività umana nel libero valore interpretativo di senso. Ed è la danza della libertà di pensiero e dell’autonomia morale.
Insopportabile per i controllori dell’anima che con la promessa del cielo edificano troni di controllo politico-sociale sul mondo.
Di fronte a un Occidente sempre più laicizzato e secolarizzato dove atei e non religiosi sono ormai milioni[5] questa soggettività dell’umano autogoverno -diritto umano irrinunciabile per la dignità di ciascuno- è diventata l’ossessione della Chiesa cattolica.

La paura dell’ateismo
L’attuale catechismo cattolico (emanato nel 1992 da papa Wojtyla) a proposito di ateismo, ai canoni 2123-2125, stabilisce: «Molti nostri contemporanei [...] non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano l’intimo e vitale legame con Dio, così che l’ateismo va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo»; «L’umanesimo ateo ritiene falsamente che l’uomo sia fine a se stesso, unico artefice e demiurgo della propria storia»; «Per il fatto che respinge o rifiuta l’esistenza di Dio, è un peccato contro la virtù della religione».
Papa Bergoglio sembrerebbe più cauto, stando almeno a quanto scriveva da cardinale: «Quando mi ritrovo con degli atei, condivido problematiche umane, ma non propongo subito il problema di Dio, a meno che non siano loro a chiedermelo. Se accade, spiego perché io credo. Ma sono talmente tante e interessanti le questioni umane da discutere e condividere, che possiamo arricchirci vicendevolmente. Siccome sono credente, so che queste ricchezze sono un dono di Dio. So anche che l’altro, l’ateo, questo non lo sa. Non affronto il rapporto con un ateo per fare proselitismo, lo rispetto e mi mostro per quello che sono. Se c’è reciproca conoscenza, affiorano l’apprezzamento, l’affetto e l’amicizia. Non ho alcun tipo di reticenza, non gli direi mai che la sua vita è condannata, perché sono convinto di non avere il diritto di giudicare l’onestà di quella persona»[6].
Forse è solo questione di strategia. Vedremo. Intanto restano come macigni le stigmatizzazioni dei suoi due predecessori.
Ratzinger, ancora cardinale, in un suo saggio pubblicato in questa rivista definiva infatti chi non crede “creatura mancata”: «perché se non si sa da dove viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura mancata?»[7].
E Wojtyla aveva messo sull’ateo questo sigillo papale: «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento». Era il 1991, e l’enciclica la Centesimus annus:
«Se ci si domanda poi donde nasca quell’errata concezione della natura della persona e della “soggettività” della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo. È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona».
Una riproposizione dell’identificazione del credente con l’essere umano, la cui verità sta nel mito della trascendenza. Nel conformarsi ad essa starebbe la Vera dignità e responsabilità. Di individui e Stati.
Così, l’aspirazione verso il supposto “paradiso”, speranza struggente, diventerebbe la legittimazione dell’ordine divino eterno e immutabile che non ammette contraddizione per una Chiesa che di questo disegno si dice da sempre universalmente (cattolicamente) depositaria e interprete. E che per questo vuole essere accreditata come cosmica agenzia giuridico-morale per poter guidare agli eterni, trascendenti fini ultimi.
Il mistero dell’escatologia per rimuovere le radici atee della libertà di scelta
Per il Cristianesimo, i fini ultimi (τα ἔσχατα, tà éskhata) dell’uomo sono proiettati in “Cielo”, e la vita terrena, è solo il transitorio momento di passaggio per la “vera” vita dopo la morte.
Un ribaltamento di prospettive che ha trasformato la morte in vita eterna, e la sofferenza in croce espiatoria per la resurrezione finale.
Morte e dolore, le due più grandi paure dell’umanità, vengono così addomesticate nel dio-padre-provvidenza, come ha scritto Sigmund Freud: «Alla fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione, se non già in questa forma della vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano dopo la morte. In tal modo tutti i terrori, le sofferenze e le asperità della vita sono destinati alla cancellazione [...]. Mediante il benigno governo della Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata, l’istituzione di un ordine morale universale assicura l’appagamento dell’esigenza di giustizia, che nella civiltà umana è rimasta così spesso inappagata, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una vita futura istituisce la struttura spaziale e temporale in cui questi appagamenti di desideri devono trovare il loro compimento»[8].
Una consolazione, una speranza che però ha un prezzo: l’individuo fideistico-ontologico schiaccia quello storico-biologico… eterno minore da riscattare e salvare.
Ma da cosa? Dalla sua aspirazione alla libertà di pensiero e di scelta. E tutto inizia da quella famosa mela…
La mitica cacciata dal Paradiso terrestre è la punizione per volersi nutrire di conoscenza: aver mangiato all’albero della conoscenza. L’atto di dis-obbedienza primo è diventare possessori della capacità di conoscere autonomamente. Questa l’eresia prima, l’atto “diabolico” del mettersi di traverso, del contraddire, per poter nascere alla vita come dimensione della libertà di analizzare, capire, scegliere … prendere strade altre.
Nel mito dell’uscita dall’Eden c’è il separarsi dall’indifferenziato essere per nascere alla storia: mettere i piedi per terra, sporcarsi le mani nella dimensione spazio-temporale concreta. Assumersi la responsabilità di quel che si pensa, si dice e si fa.
Nella disobbedienza del mito del Paradiso terreste, c’è inscritto allora il gesto primordiale di ateismo: opposizione, trasgressione… per andare oltre la legge del padre. Nella disubbidienza, la condizione per aprire gli occhi al mondo e nel mondo, capendo e giudicando autonomamente cosa sia bene e male: «Il giorno che ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio, conoscitori del bene e del male» (Genesi, 3-5).
Eva e Adamo, avendo attinto all’albero della conoscenza, possono finalmente esercitare la facoltà di pensare e di scegliere, divengono dei a se stessi, creatori della propria storia.
È l’inizio della vita storico-biologica, dove l’umana esistenza assume senso nella finitezza della vita, di cui la morte fa parte: «ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare, perché dal giorno in cui tu ne mangerai, dovrai morire». (Genesi, 2,17).
Paolo di Tarso cristianizza il mito del Genesi. La narrazione dell’origine della vita che implicava anche l’origine della morte diviene peccato originario. Si nasce alla vita in quanto peccatore. La morte è quella del peccato che diverrebbe genetico. Adamo sarebbe diventato mortale perché peccatore – pensa s. Paolo – e, poiché tutti gli umani discendono da lui, condivideranno questa sua stessa sorte: «e quindi, come per un uomo il peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte, e la morte raggiunse tutti gli uomini, perché tutti peccarono». (Lettera ai Romani, 5, 12).
Essendo allora ciascun individuo peccatore, e quindi dannato ancor prima di compiere la benché minima azione, l’unica speranza è riposta da s. Paolo nel dono della Grazia e nella promessa della vita eterna quando, dopo la morte biologica, si potrà finalmente tornare alla mitica condizione paradisiaca, di là del tempo e dello spazio, nell’eternità originaria.
In questo trascendere la vita, il “peccato originale” costituisce la base e il punto di partenza del Cristianesimo.
Il sacrificio sulla croce del Dio Uomo, infatti, sarebbe inconcepibile senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e altrimenti condannata dal Dio Padre alla dannazione eterna.
Un’umanità eterna minore, da riscattare, da salvare nell’obbedienza ai moduli delle Verità eterne e assolute di cui la Chiesa avrebbe le chiavi. Custode della parola logos-verbo, che per essere “eterna” va sottratta a secolarizzazione e storicizzazione. Logos-saggezza, blindato nella rivelazione.
In questa Parola il mezzo (chierico) e il messaggio (precetto) sono tutt’uno. Chi non condivide, sarebbe, come abbiamo già visto “mancante”, “privo di fondamento”. O come affermava il santo padre della Chiesa, s. Agostino: “stolto”.
Globalizzazione cattolica e defezione democratica
Scriveva s. Agostino Sull’utilità di credere nel 391: «Nessuno dubita, infatti, che tutti gli uomini sono o stolti o sapienti. Ora però, non chiamo sapienti gli uomini assennati e pieni d’ingegno, bensì quelli che hanno, per quanto l’uomo può averla, una conoscenza indubitabilmente chiara dell’uomo e di Dio, e una vita e dei costumi ad essa corrispondenti: tutti gli altri, qualunque siano le loro capacità e qualunque modo di vivere abbiano, accettabile o non accettabile, li annovererei invece tra gli stolti. [...] Ed è solo l’autorità che spinge gli stolti ad affrettarsi verso la sapienza. [...] allora non bisogna perdere la speranza che esista una qualche autorità, costituita da Dio stesso, sulla quale possiamo appoggiarci, come su un sicuro gradino, per essere elevati verso Dio.»[9]
Insomma fede religiosa come garanzia di capacità intellettuale che si adegua alla legge – precetto secondo i dettami della Chiesa, autorità lecita a guidare verso il retto credere che coinciderebbe col retto pensare.
Una costante che non deflette, e che dalla sistemazione organica che ne dà Tommaso d’Aquino, continua ai nostri giorni nella prepotenza di voler dettar legge in nome del trascendente disegno dell’Eterno.
Così l’Aquinate nella sua Summa totius theologiae: «Il mondo è retto dalla divina provvidenza, è chiaro che tutta la comunità dell’universo è governata dalla ragione divina. Perciò il piano stesso col quale Dio, come principe dell’universo, governa le cose ha natura di legge. E poiché la mente divina non concepisce niente nel tempo, essendo il suo pensiero eterno, come insegna la Scrittura, codesta legge deve essere eterna.»[10].
Così Wojtyla per addomesticare ethos pubblico e libertà di coscienza: «la legge stabilita dall’uomo, dai parlamenti, da ogni altra istanza legislativa umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura, cioè in definitiva con l’eterna legge di Dio»[11].
«Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l’autorità della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l’attrattiva e accoglie i comandamenti: La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano»[12].
Così il vigente catechismo, che al canone 2420 recita: «La Chiesa si interessa agli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al Bene supremo, nostro ultimo fine».
É l’antico sogno medievale che ritorna, in un discorso monocorde per rimuovere quel sapere aude, abbi il coraggio di conoscere, di usare il tuo intelletto, con cui Kant sintetizzò l’Illuminismo, e che è stata la spinta per la nascita delle liberal-democrazie, dove le leggi non sono sulle ginocchia di dio, ma su quelle degli uomini.
L’illuminismo che ha prodotto i diritti umani, che la Chiesa con insistenza cerca di metabolizzare in doveri cattolici.
Così papa Ratzinger: «I diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, ma sono iscritti nella natura stessa della persona umana, e sono pertanto rinviabili ultimamente al Creatore»[13]; oppure quando ricordava che si tratta di «norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore e neppure dal consenso che gli Stati possono ad esse prestare. Sono infatti norme che precedono qualsiasi legge umana: come tali non ammettono interventi di deroga da parte di nessuno. [...] Nessuna legge fatta dagli uomini può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare. Dimenticarlo significherebbe indebolire la famiglia, penalizzare i figli e rendere precario il futuro della società.»[14]. Vale appena ricordare che dopo questi pronunciamenti il Parlamento dello Stato italiano seppellì il progetto di legge sulle unioni civili.
La narrazione totalizzante continua, e collaborazionisti per la globalizzazione cattolica si cercano ovunque, come ha chiesto papa Ratzinger anche nella sua Caritas in veritate (29 giugno 2009): «il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore».
Cambiano i tempi, non la narrazione dagli più alti pulpiti.
Il nuovo papa Bergoglio, al momento, dopo i grandi scandali vaticani (pedofilia, Ior, Vatileaks) sembra più preoccupato di costruire, attraverso la sua persona, un’immagine di Chiesa morigerata e defilata rispetto alla politica.
Anche se poi capita che, come è accaduto il 12 maggio 2013 da S. Pietro, elogia i Pro-life in marcia su Roma, sollecita a firmare per una legge europea sul riconoscimento giuridico dell’embrione, nonché a partecipare alla celebrazione alla Giornata dell’Evangelium Vitae. Sì, proprio l’enciclica-crociata di papa Wojtyla per riportare le donne a quello spirito “del sacrificio” in cui “si sono distinte e continuano a distinguersi schiere di spose e di madri cristiane”.
Vedremo quali saranno gli altri “buongiorno” politici di Bergoglio.
Ma sarà davvero difficile che il nuovo papa possa allontanarsi dall’intransigenza dei suoi predecessori nel cercare di negare a individui e Stati autonomia dagli universali disegni dell’universale Religione.
Tuttavia, la Chiesa sa bene che ha perso l’orizzonte definitorio che accampava sulle coscienze: i messaggi di Nietzsche e di Bonhoeffer, da cui siamo partiti, sono sempre più diventati realtà.
Ma essa, dopo gli assalti di Wojtyla e di Ratzinger, sta cercando altre modalità per continuare la sua eterna narrazione. E Bergoglio entra in questa strategia comunicativa.
La Chiesa fa in fondo il suo mestiere! A noi interessa soprattutto che facciano il proprio le liberal-democrazie che sono la forma istituzionale della secolarizzazione delle leggi. E dovrebbero aver ben presente che la garanzia della civile convivenza democratica non sta certo  nel riportare il mondo «nell’orizzonte della creazione opera della Santa Trinità», «sorgente della vita della persona, della comunità e del cosmo», in «quell’unità che è il marchio inconfondibile del Vero», come ha sostenuto il cardinal Scola il 15 maggio scorso a Milano, presso la sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, in occasione della sua conferenza su “Verità e Libertà”.
Le liberal-democrazie garantiscono la libertà religiosa, ma non l’occupazione da parte della religione dello spazio pubblico, affinché per legge venga imposto erga omnes “il marchio inconfondibile del Vero”, rilanciato non a caso dalla Milano della laicissima giunta Pisapia.
Non abbiamo bisogno di Stati per diritto divino. La libertà è un bene troppo prezioso.
E come scriveva John Stuart. Mill: «La sola libertà degna di questo nome è quella di perseguire il nostro proprio bene come meglio crediamo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro, né li ostacoliamo nei loro tentativi per conseguirlo. Ognuno è il vero custode della propria salute, sia essa corporea, mentale o spirituale. L’umanità trae maggiori vantaggi se permette a ciascuno di vivere come meglio crede, anziché costringerlo a vivere come gli altri ritengono meglio»[15].
Ed è ancora tema di cogente attualità etico-giuridico-politica. É il problema con cui ancora dobbiamo fare i conti, soprattutto quando l’accesso ai diritti sembra dileguare nel vuoto quasi totale di progettualità politica. E per contenere le legittime aspirazioni di libertà e giustizia,  si ripropone come grande distrattore di massa il ritorno del sacro nell’omologazione identitaria in una Chiesa che nega il diritto umano fondamentale ad essere ciascuno il proprietario della sua vita. E che per l’esercizio di questa funzione antidemocratica usufruisce per giunta di privilegi di ogni sorta. A cominciare dall’astorico Concordato che è una macchia nera sulla nostra Costituzione repubblicana.

NOTE
[1] (F. Nietzsche, La Gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, 1977, pp.162-163).
[2] (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Lettere e scritti dal carcere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, p. 440).
[3] Etica, in Opere di Dietrich Bonhoeffer, Edizione critica, Queriniana, Brescia 1995, vol. 6,  p.214.
[4] op.cit., p.412.
[5] cfr: Phil Zuckerman, Atheism and Secularity. Vol. 1, Issues, Concepts and Definitions, Praeger, Santa Barbara, California.
[6] Jorge Bergoglio – Abraham Skorka, II cielo e la terra, Mondadori, 2013, p.22.
[7]Joseph Ratzinger, La verità cattolica, in “Micromega, Almanacco di filosofia”, 2, 2000, p. 43.
[8] L’avvenire di un illusione, in Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 159, 170.
[9] Agostino, De utilitate credendi, XI, 25 – XVI, 34, in Il filosofo e la fede, a cura di O. Grassi, Rusconi, Milano 1989, pp. 264-274.
[10] Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, 1995,  volume 12, I-II, Questione 91, art.1, p. 42.
[11] Memoria e identità, Rizzoli, 2005, p.161.
[12] Veritatis splendor, 6 agosto 1993.
[13] Lettera per il convegno Libertà e Laicità, 11 ottobre 2005.
[14] Discorso al Congresso Internazionale sulla legge morale naturale, 12 febbraio 2007.
[15] J. S. Mill, Sulla libertà, Milano, Armando editore, Roma, 1996, p. 58.

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