Da giovedì 27 giugno sarà in edicola il nuovo numero di “Micromega”,
intitolato “Ateo è bello! – Almanacco di libero pensiero“. In
questo articolo, scritto per il “Rasoio” in occasione dell’uscita del numero,
Maria Mantello spiega perché il mondo religioso continua a non tollerare la
presenza atea.
A più di qualcuno sarà capitato di essersi imbattuto in quella figura di
credente che quando dichiari il tuo ateismo ti perseguita con la sua
compassionevole azione conversionista.
Cerca d’incontrarti, di trattenersi con te. Ogni scusa è buona per parlarti
di Dio, del gruppo parrocchiale che frequenta, di quanto la fede sia appagante.
E se garbatamente cerchi di fargli capire che proprio la Religione non ti
interessa e tanto meno di frequentare strutture clericali; che insomma sei un
ateo felice che rispetta chi crede, ma vuole lo stesso rispetto, comincia a
parlarti (tra un intercalare e l’altro di graziaddio) di miracoli e
guarigioni inspiegabili.
Tu sei in fondo l’ ”anomalia” per la sua identità.
Sei la sfida per la sua riconferma identitario-religiosa. Deve trovare per
forza qualcosa che in te non va: nella tua educazione, nella tua
famiglia… ti chiede del battesimo: tuo, dei figli…
Lo fa per il tuo “bene”. È anche convinto di dialogare.
Provi a spiegargli che il dialogo è già fallito prima di iniziare, se lui
riporta tutto a una Verità eterna e assoluta che tutto sovrasta. Se la
verità è già data nel Dio, tu per lui sei al massimo la “pecora smarrita” da
ricondurre all’ovile della Religione che tutto trascende.
Ti ascolta stupito; lo affascini pure. Ma l’asimmetria comunicativa è
incolmabile.
In altri tempi, in nome di Dio, per il suo “bene”, ti avrebbe,
forse, mandato al rogo.
Giochi definitori in giogo religioso
Ateo, da a-theós (ἄθεος) è chi nega dio, chi non crede in dio, chi è privo
di dio.
L’alfa privativo nega, ma comunque al dio inchioda.
Il dio resta l’affermazione da cui la negazione dipende. L’essenziale che
subordina e ingloba.
La negazione può esistere solo nell’orizzonte del divino, che
paradossalmente è riconfermato nella parola che pure lo sconfessa.
Dio resta la regola di riferimento. L’Assoluto che dà consistenza alla sua
stessa negazione.
L’indipendenza piena è del thèos, che mantiene il sigillo della necessità
anche per essere negato, e quindi resta il padrone del valore di senso.
Inoltre, poiché l’idea di dio si fa coincidere con la perfezione massima,
solo chi all’Assoluto dio crede, parteciperebbe in qualche modo di essa.
In questo giogo definitorio, il credente sarebbe allora l’individuo
compiuto, mentre il non credente, (definizione ancora in negativo) sarebbe il
mancante, l’incompiuto.
Affermazione contro opposizione. Essere del credente contro non essere
dell’ateo.
Come se non ci potesse essere realtà possibile al di fuori dell’orizzonte
religioso che a tutto darebbe senso.
Allora, bisogna azzerare il Simbolo massimo che troneggia sull’orizzonte di
senso. Lo aveva ben compreso Friedrich Nietzsche:
«Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce
del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio!
Cerco Dio!”? – E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che
non credevano in Dio, suscitò grandi risa. [...] L’uomo folle balzò in mezzo a
loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio”? gridò “ve lo
voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini! [...] Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte?
Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? [...]»[1].
L’annuncio è dato al “mercato”, luogo per eccellenza della codificazione
dello scambio secondo un valore dato. Lì ogni cosa esiste nel valore di senso
prefissato. Al mercato il prezzo è stabilito. Un codice prestabilito che
Nietzsche eleva a metafora del grande gioco simbolico che si è costruito sulla
centralità semantica del dio; che è anche il prezzo del sacrificio dei
possibili altri significati di senso tarpati in nome di dio. Per liberare i
possibili, allora bisogna cancellare il Simbolo padrone del valore di senso
Assoluto. Per questo atto radicalmente liberatorio occorre purificare la mente
dall’habitus del gioco definitorio. Occorre la mente sgombra: vuota, “folle”.
Folle, da follis, otre pieno d’aria, ma anche testa vuota. E qui
libera dal pre-ordinato che riempie l’otre-testa abituata ad essere re-legata
al dio che ne fa il suo habitus.
Il “folle uomo” è libero da tutto questo. La sua testa è dis-abitata dalla
reiterazione simbolica. Quindi è la libertà del coraggio individuale “per
strofinare via l’intero orizzonte”.
Per questo lavacro “la spugna” non ce la può dare nessuno, perché è conquista
personale per diventare ciascuno padrone della propria vita.
Solo così si “scioglie” la catena. Si spegne il sole dell’Assoluto per
accendere le proprie individuali lanterne di libertà e responsabilità.
La vita concreta si riappropria allora del suo valore di senso, fuori dalla
predeterminazione ontologico-cognitivo-morale che in nome di dio gli apparati
religiosi pretendono assolutamente di dare al mondo.
É la metafisica religiosa, a essere posta fuori dall’orizzonte del mondo
per liberare l’ethos privato e pubblico.
E in questa prospettiva l’ateo contamina anche il credente che voglia
muoversi al di fuori del confessionalismo della Religione-sistema-mondo.
Ed è quanto rivendica il teologo Dietrich Bonhoeffer (attivista nella
Resistenza antinazista, e per questo arrestato e poi impiccato il 9 aprile 1945
nel campo di concentramento di Flossenbürg), con la sua originale ripresa dell’etsi
Deus non daretur.
«Dobbiamo vivere nel mondo – etsi deus non daretur. [...] Dio
si lascia cacciare fuori del mondo con la croce, Dio è impotente e debole nel
mondo e appunto solo così egli ci sta a fianco e ci aiuta.»[2]
Il dio di Bonhoeffer non vuole troni nel mondo, e così libera la fede
individuale dalla Religione che pre-determina e ingabbia nel suo sistema di
fede.
Non c’è più l’uomo in sé, il bene in sé, la vita in sé, scrive Bonoeffer
nell’Etica, ma individui storici, che si autodeterminano nel dire sì
alla vita “così come è”, nella responsabilità di esserne artefici nell’umana
interrelazione: «Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa
sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. [...] La questione del
bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta,
unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti
viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni e potenze, ovvero nella
nostra vita storica»[3]. Il credente emancipato non ha bisogno delle
fughe escatologiche, scrive ancora Bonhoeffer in un altro passo di Resistenza
e Resa: «Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e
dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione,
ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo (mio Dio
perché mi hai abbandonato?)»[4].
Diversissimi tra loro, Nietzsche e Bonhoeffer, emancipano la soggettività
umana nel libero valore interpretativo di senso. Ed è la danza della libertà di
pensiero e dell’autonomia morale.
Insopportabile per i controllori dell’anima che con la promessa del cielo
edificano troni di controllo politico-sociale sul mondo.
Di fronte a un Occidente sempre più laicizzato e secolarizzato dove atei e
non religiosi sono ormai milioni[5] questa soggettività dell’umano autogoverno
-diritto umano irrinunciabile per la dignità di ciascuno- è diventata
l’ossessione della Chiesa cattolica.
L’attuale catechismo cattolico (emanato nel 1992 da papa Wojtyla) a
proposito di ateismo, ai canoni 2123-2125, stabilisce: «Molti nostri
contemporanei [...] non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano
l’intimo e vitale legame con Dio, così che l’ateismo va annoverato fra le cose
più gravi del nostro tempo»; «L’umanesimo ateo ritiene falsamente che l’uomo
sia fine a se stesso, unico artefice e demiurgo della propria storia»; «Per il
fatto che respinge o rifiuta l’esistenza di Dio, è un peccato contro la virtù
della religione».
Papa Bergoglio sembrerebbe più cauto, stando almeno a quanto scriveva da
cardinale: «Quando mi ritrovo con degli atei, condivido problematiche umane, ma
non propongo subito il problema di Dio, a meno che non siano loro a
chiedermelo. Se accade, spiego perché io credo. Ma sono talmente tante e
interessanti le questioni umane da discutere e condividere, che possiamo
arricchirci vicendevolmente. Siccome sono credente, so che queste ricchezze
sono un dono di Dio. So anche che l’altro, l’ateo, questo non lo sa. Non
affronto il rapporto con un ateo per fare proselitismo, lo rispetto e mi mostro
per quello che sono. Se c’è reciproca conoscenza, affiorano l’apprezzamento,
l’affetto e l’amicizia. Non ho alcun tipo di reticenza, non gli direi mai che
la sua vita è condannata, perché sono convinto di non avere il diritto di
giudicare l’onestà di quella persona»[6].
Forse è solo questione di strategia. Vedremo. Intanto restano come macigni
le stigmatizzazioni dei suoi due predecessori.
Ratzinger, ancora cardinale, in un suo saggio pubblicato in questa rivista
definiva infatti chi non crede “creatura mancata”: «perché se non si sa da dove
viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura
mancata?»[7].
E Wojtyla aveva messo sull’ateo questo sigillo papale: «La negazione di Dio
priva la persona del suo fondamento». Era il 1991, e l’enciclica la Centesimus
annus:
«Se ci si domanda poi donde nasca quell’errata concezione della natura
della persona e della “soggettività” della società, bisogna rispondere che la
prima causa è l’ateismo. È nella risposta all’appello di Dio, contenuto
nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente
dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine
della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può
sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di
conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità
e responsabilità della persona».
Una riproposizione dell’identificazione del credente con l’essere umano, la
cui verità sta nel mito della trascendenza. Nel conformarsi ad essa starebbe la
Vera dignità e responsabilità. Di individui e Stati.
Così, l’aspirazione verso il supposto “paradiso”, speranza struggente,
diventerebbe la legittimazione dell’ordine divino eterno e immutabile che non
ammette contraddizione per una Chiesa che di questo disegno si dice da sempre
universalmente (cattolicamente) depositaria e interprete. E che per questo
vuole essere accreditata come cosmica agenzia giuridico-morale per poter
guidare agli eterni, trascendenti fini ultimi.
Il mistero dell’escatologia per rimuovere le radici atee della libertà di
scelta
Per il Cristianesimo, i fini ultimi (τα ἔσχατα, tà éskhata) dell’uomo sono
proiettati in “Cielo”, e la vita terrena, è solo il transitorio momento di
passaggio per la “vera” vita dopo la morte.
Un ribaltamento di prospettive che ha trasformato la morte in vita eterna,
e la sofferenza in croce espiatoria per la resurrezione finale.
Morte e dolore, le due più grandi paure dell’umanità, vengono così
addomesticate nel dio-padre-provvidenza, come ha scritto Sigmund Freud: «Alla
fine tutto il bene trova la sua ricompensa e tutto il male la sua punizione, se
non già in questa forma della vita, nelle ulteriori esistenze che cominciano
dopo la morte. In tal modo tutti i terrori, le sofferenze e le asperità della
vita sono destinati alla cancellazione [...]. Mediante il benigno governo della
Provvidenza divina, l’angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata,
l’istituzione di un ordine morale universale assicura l’appagamento
dell’esigenza di giustizia, che nella civiltà umana è rimasta così spesso
inappagata, il prolungarsi dell’esistenza terrena mediante una vita futura
istituisce la struttura spaziale e temporale in cui questi appagamenti di
desideri devono trovare il loro compimento»[8].
Una consolazione, una speranza che però ha un prezzo: l’individuo
fideistico-ontologico schiaccia quello storico-biologico… eterno minore da
riscattare e salvare.
Ma da cosa? Dalla sua aspirazione alla libertà di pensiero e di scelta. E
tutto inizia da quella famosa mela…
La mitica cacciata dal Paradiso terrestre è la punizione per volersi
nutrire di conoscenza: aver mangiato all’albero della conoscenza. L’atto di
dis-obbedienza primo è diventare possessori della capacità di conoscere
autonomamente. Questa l’eresia prima, l’atto “diabolico” del mettersi di
traverso, del contraddire, per poter nascere alla vita come dimensione della
libertà di analizzare, capire, scegliere … prendere strade altre.
Nel mito dell’uscita dall’Eden c’è il separarsi dall’indifferenziato essere
per nascere alla storia: mettere i piedi per terra, sporcarsi le mani nella
dimensione spazio-temporale concreta. Assumersi la responsabilità di quel che
si pensa, si dice e si fa.
Nella disobbedienza del mito del Paradiso terreste, c’è inscritto allora il
gesto primordiale di ateismo: opposizione, trasgressione… per andare oltre la
legge del padre. Nella disubbidienza, la condizione per aprire gli occhi al
mondo e nel mondo, capendo e giudicando autonomamente cosa sia bene e male: «Il
giorno che ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio,
conoscitori del bene e del male» (Genesi, 3-5).
Eva e Adamo, avendo attinto all’albero della conoscenza, possono finalmente
esercitare la facoltà di pensare e di scegliere, divengono dei a se stessi,
creatori della propria storia.
È l’inizio della vita storico-biologica, dove l’umana esistenza assume
senso nella finitezza della vita, di cui la morte fa parte: «ma dell’albero
della conoscenza del bene e del male non ne mangiare, perché dal giorno in cui
tu ne mangerai, dovrai morire». (Genesi, 2,17).
Paolo di Tarso cristianizza il mito del Genesi. La narrazione dell’origine
della vita che implicava anche l’origine della morte diviene peccato
originario. Si nasce alla vita in quanto peccatore. La morte è quella del peccato
che diverrebbe genetico. Adamo sarebbe diventato mortale perché peccatore –
pensa s. Paolo – e, poiché tutti gli umani discendono da lui, condivideranno
questa sua stessa sorte: «e quindi, come per un uomo il peccato è entrato nel
mondo, e per il peccato la morte, e la morte raggiunse tutti gli uomini, perché
tutti peccarono». (Lettera ai Romani, 5, 12).
Essendo allora ciascun individuo peccatore, e quindi dannato ancor prima di
compiere la benché minima azione, l’unica speranza è riposta da s. Paolo nel
dono della Grazia e nella promessa della vita eterna quando, dopo la morte
biologica, si potrà finalmente tornare alla mitica condizione paradisiaca, di
là del tempo e dello spazio, nell’eternità originaria.
In questo trascendere la vita, il “peccato originale” costituisce la base e
il punto di partenza del Cristianesimo.
Il sacrificio sulla croce del Dio Uomo, infatti, sarebbe
inconcepibile senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio
giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e
altrimenti condannata dal Dio Padre alla dannazione eterna.
Un’umanità eterna minore, da riscattare, da salvare nell’obbedienza ai
moduli delle Verità eterne e assolute di cui la Chiesa avrebbe le chiavi.
Custode della parola logos-verbo, che per essere “eterna” va sottratta a
secolarizzazione e storicizzazione. Logos-saggezza, blindato nella rivelazione.
In questa Parola il mezzo (chierico) e il messaggio (precetto) sono
tutt’uno. Chi non condivide, sarebbe, come abbiamo già visto “mancante”, “privo
di fondamento”. O come affermava il santo padre della Chiesa, s. Agostino:
“stolto”.
Globalizzazione cattolica e defezione democratica
Scriveva s. Agostino Sull’utilità di credere nel 391: «Nessuno
dubita, infatti, che tutti gli uomini sono o stolti o sapienti. Ora però, non
chiamo sapienti gli uomini assennati e pieni d’ingegno, bensì quelli che hanno,
per quanto l’uomo può averla, una conoscenza indubitabilmente chiara dell’uomo
e di Dio, e una vita e dei costumi ad essa corrispondenti: tutti gli altri,
qualunque siano le loro capacità e qualunque modo di vivere abbiano,
accettabile o non accettabile, li annovererei invece tra gli stolti. [...] Ed è
solo l’autorità che spinge gli stolti ad affrettarsi verso la sapienza. [...]
allora non bisogna perdere la speranza che esista una qualche autorità,
costituita da Dio stesso, sulla quale possiamo appoggiarci, come su un sicuro
gradino, per essere elevati verso Dio.»[9]
Insomma fede religiosa come garanzia di capacità intellettuale che si
adegua alla legge – precetto secondo i dettami della Chiesa, autorità lecita a
guidare verso il retto credere che coinciderebbe col retto pensare.
Una costante che non deflette, e che dalla sistemazione organica che ne dà
Tommaso d’Aquino, continua ai nostri giorni nella prepotenza di voler dettar
legge in nome del trascendente disegno dell’Eterno.
Così l’Aquinate nella sua Summa totius theologiae: «Il mondo è retto
dalla divina provvidenza, è chiaro che tutta la comunità dell’universo è
governata dalla ragione divina. Perciò il piano stesso col quale Dio, come
principe dell’universo, governa le cose ha natura di legge. E poiché la mente
divina non concepisce niente nel tempo, essendo il suo pensiero eterno, come
insegna la Scrittura, codesta legge deve essere eterna.»[10].
Così Wojtyla per addomesticare ethos pubblico e libertà di coscienza: «la
legge stabilita dall’uomo, dai parlamenti, da ogni altra istanza legislativa
umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura, cioè in
definitiva con l’eterna legge di Dio»[11].
«Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l’autorità
della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di
cui la persona umana accetta l’attrattiva e accoglie i comandamenti: La
coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e
ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di
obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la
corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base
del comportamento umano»[12].
Così il vigente catechismo, che al canone 2420 recita: «La Chiesa si
interessa agli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al
Bene supremo, nostro ultimo fine».
É l’antico sogno medievale che ritorna, in un discorso monocorde per
rimuovere quel sapere aude, abbi il coraggio di conoscere, di usare il
tuo intelletto, con cui Kant sintetizzò l’Illuminismo, e che è stata la spinta
per la nascita delle liberal-democrazie, dove le leggi non sono sulle ginocchia
di dio, ma su quelle degli uomini.
L’illuminismo che ha prodotto i diritti umani, che la Chiesa con insistenza
cerca di metabolizzare in doveri cattolici.
Così papa Ratzinger: «I diritti fondamentali non vengono creati dal
legislatore, ma sono iscritti nella natura stessa della persona umana, e sono
pertanto rinviabili ultimamente al Creatore»[13]; oppure quando ricordava che si tratta di
«norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore e
neppure dal consenso che gli Stati possono ad esse prestare. Sono infatti norme
che precedono qualsiasi legge umana: come tali non ammettono interventi di
deroga da parte di nessuno. [...] Nessuna legge fatta dagli uomini può perciò
sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga
drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento
basilare. Dimenticarlo significherebbe indebolire la famiglia, penalizzare i
figli e rendere precario il futuro della società.»[14]. Vale appena ricordare che dopo questi
pronunciamenti il Parlamento dello Stato italiano seppellì il progetto di legge
sulle unioni civili.
La narrazione totalizzante continua, e collaborazionisti per la
globalizzazione cattolica si cercano ovunque, come ha chiesto papa Ratzinger
anche nella sua Caritas in veritate
(29 giugno 2009): «il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un
progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro
sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o
non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al
progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore».
Cambiano i tempi, non la narrazione dagli più alti pulpiti.
Il nuovo papa Bergoglio, al momento, dopo i grandi scandali vaticani
(pedofilia, Ior, Vatileaks) sembra più preoccupato di costruire, attraverso la
sua persona, un’immagine di Chiesa morigerata e defilata rispetto alla
politica.
Anche se poi capita che, come è accaduto il 12 maggio 2013 da S. Pietro,
elogia i Pro-life in marcia su Roma, sollecita a firmare per una legge
europea sul riconoscimento giuridico dell’embrione, nonché a partecipare alla
celebrazione alla Giornata dell’Evangelium Vitae. Sì, proprio
l’enciclica-crociata di papa Wojtyla per riportare le donne a quello spirito
“del sacrificio” in cui “si sono distinte e continuano a distinguersi schiere
di spose e di madri cristiane”.
Vedremo quali saranno gli altri “buongiorno” politici di Bergoglio.
Ma sarà davvero difficile che il nuovo papa possa allontanarsi
dall’intransigenza dei suoi predecessori nel cercare di negare a individui e
Stati autonomia dagli universali disegni dell’universale Religione.
Tuttavia, la Chiesa sa bene che ha perso l’orizzonte definitorio che
accampava sulle coscienze: i messaggi di Nietzsche e di Bonhoeffer, da cui
siamo partiti, sono sempre più diventati realtà.
Ma essa, dopo gli assalti di Wojtyla e di Ratzinger, sta cercando altre
modalità per continuare la sua eterna narrazione. E Bergoglio entra in questa
strategia comunicativa.
La Chiesa fa in fondo il suo mestiere! A noi interessa soprattutto che
facciano il proprio le liberal-democrazie che sono la forma istituzionale della
secolarizzazione delle leggi. E dovrebbero aver ben presente che la garanzia
della civile convivenza democratica non sta certo nel riportare il mondo
«nell’orizzonte della creazione opera della Santa Trinità», «sorgente della
vita della persona, della comunità e del cosmo», in «quell’unità che è il
marchio inconfondibile del Vero», come ha sostenuto il cardinal Scola il 15
maggio scorso a Milano, presso la sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, in
occasione della sua conferenza su “Verità e Libertà”.
Le liberal-democrazie garantiscono la libertà religiosa, ma non
l’occupazione da parte della religione dello spazio pubblico, affinché per
legge venga imposto erga omnes “il marchio inconfondibile del Vero”,
rilanciato non a caso dalla Milano della laicissima giunta Pisapia.
Non abbiamo bisogno di Stati per diritto divino. La libertà è un bene
troppo prezioso.
E come scriveva John Stuart. Mill: «La sola libertà degna di questo nome è
quella di perseguire il nostro proprio bene come meglio crediamo, purché non
cerchiamo di privare gli altri del loro, né li ostacoliamo nei loro tentativi
per conseguirlo. Ognuno è il vero custode della propria salute, sia essa
corporea, mentale o spirituale. L’umanità trae maggiori vantaggi se permette a
ciascuno di vivere come meglio crede, anziché costringerlo a vivere come gli
altri ritengono meglio»[15].
Ed è ancora tema di cogente attualità etico-giuridico-politica. É il
problema con cui ancora dobbiamo fare i conti, soprattutto quando l’accesso ai
diritti sembra dileguare nel vuoto quasi totale di progettualità politica. E
per contenere le legittime aspirazioni di libertà e giustizia, si
ripropone come grande distrattore di massa il ritorno del sacro
nell’omologazione identitaria in una Chiesa che nega il diritto umano
fondamentale ad essere ciascuno il proprietario della sua vita. E che per
l’esercizio di questa funzione antidemocratica usufruisce per giunta di
privilegi di ogni sorta. A cominciare dall’astorico Concordato che è una
macchia nera sulla nostra Costituzione repubblicana.
NOTE
[1] (F. Nietzsche, La Gaia scienza e Idilli di
Messina, Adelphi, 1977, pp.162-163).
[2] (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa,
Lettere e scritti dal carcere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo,
1996, p. 440).
[3] Etica, in Opere di Dietrich Bonhoeffer,
Edizione critica, Queriniana, Brescia 1995, vol. 6, p.214.
[4] op.cit., p.412.
[5] cfr: Phil Zuckerman, Atheism and Secularity. Vol. 1, Issues,
Concepts and Definitions, Praeger, Santa Barbara, California.
[6] Jorge Bergoglio – Abraham Skorka, II cielo e la terra, Mondadori,
2013, p.22.
[7]Joseph Ratzinger, La verità cattolica,
in “Micromega, Almanacco di filosofia”, 2, 2000, p. 43.
[8] L’avvenire di un illusione, in Il
disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 159, 170.
[9] Agostino, De utilitate credendi, XI,
25 – XVI, 34, in Il filosofo e la fede, a cura di O. Grassi, Rusconi,
Milano 1989, pp. 264-274.
[10] Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica,
Edizioni Studio Domenicano, 1995, volume 12, I-II, Questione 91, art.1,
p. 42.
[11] Memoria e identità, Rizzoli, 2005,
p.161.
[12] Veritatis splendor, 6 agosto 1993.
[13] Lettera per il convegno Libertà e Laicità,
11 ottobre 2005.
[14] Discorso al Congresso Internazionale
sulla legge morale naturale, 12 febbraio 2007.
[15] J. S. Mill, Sulla libertà, Milano,
Armando editore, Roma, 1996, p. 58.
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