Le prospettive economiche per l’Italia restano gravissime, al punto che secondo le ultime previsioni il 2013 si chiuderà con una ulteriore contrazione di circa due punti del Pil (qui e in seguito dati Ocse). Il ministro Saccomanni afferma che la crisi è “peggiore di quella del ‘29” ma continua a ripetere che il governo deve rispettare il vincolo del deficit pubblico al 3% del Pil. Ne segue che per quest’anno sono ormai possibili solo manovre a saldo zero e anche nel 2014 ci saranno ben pochi margini di intervento, limitati alla differenza tra il deficit tendenziale e il vincolo del 3%: circa mezzo punto di Pil, non più di 8 miliardi. Risorse che non sarebbero più nemmeno disponibili se dovessimo dare corso al Documento di Economia e Finanza che – in linea con Six Pack e Fiscal Compact – si pone l’obiettivo di azzerare il deficit (in termini strutturali) mediante nuovi progressivi innalzamenti dell’avanzo primario sino a un valore record di fine legislatura del 5,7% del Pil (90 miliardi di euro).
Insomma, nonostante l’emergenza in cui ci troviamo, il governo sembra avere le mani legate e prospettarci ancora austerità. Ma è ormai acclarato che questo tipo di politiche frena la crescita e non assicura il riequilibrio dei conti pubblici. Lo abbiamo sperimentato in Italia, dove gli interventi restrittivi non hanno dato gli effetti previsti né in termini di crescita (le previsioni del precedente esecutivo per il 2013 erano di un + 0,5%, mentre il Pil si riduce al ritmo del 2%) né in termini di finanze pubbliche (il rapporto debito e Pil, stimato in diminuzione, continua ad aumentare). E lo abbiamo sperimentato in Europa, dove il Fondo Monetario Internazionale ammette che sono stati ampiamente sottostimati gli effetti deleteri delle politiche di austerità. Il punto è – come ho già sottolineato mesi fa su queste colonne – che i modelli previsionali adottati dalle principali istituzioni internazionali hanno introiettato la “teoria dell’austerità espansiva”, attribuendo ai moltiplicatori della politica fiscale, che misurano l’impatto delle politiche espansive sul Pil, valori negativi o prossimi allo zero. In realtà, i moltiplicatori si sono rivelati molto più grandi ed è ormai innegabile che una politica restrittiva (un aumento del saldo tra prelievo fiscale e spesa pubblica) riduce il Pil in misura almeno equivalente, con retroazione negativa sulle entrate fiscali.
Per questo, proseguire con il rigore è a dir poco rischioso, e occorrerebbe imprimere una svolta alla politica economica nazionale, smettendola di considerare i vincoli europei alla stregua di “tabù”, come ormai riconoscono gli stessi campioni dell’austerità. La nuova strada da battere consisterebbe nell’azzeramento dell’avanzo primario, oggi pari a 2,4 punti di Pil. Ciò significherebbe disporre di oltre 35 miliardi di euro da utilizzare per ridurre la pressione fiscale sul mondo della produzione e promuovere politiche industriali. L’impatto sulla crescita di un intervento di questo tipo può essere analizzato alla luce delle nuove stime del moltiplicatore della politica fiscale. Alcuni studi relativi all’Italia mostrano che in condizioni recessive il moltiplicatore della spesa pubblica supererebbe il valore di 2 (ma esistono anche stime di moltiplicatori pari a 3). Qui, molto più prudentemente, consideriamo il valore medio (pari a 1,3) dell’intervallo calcolato dal capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard. Sotto questo assunto, l’azzeramento del nostro avanzo genererebbe una crescita del Pil di oltre 45 miliardi di euro, 3 punti di Pil, fornendo la spinta di cui abbiamo oggi tanto bisogno. Ed entro 9-15 mesi, raggiunto il picco espansivo, anche gli effetti immediati di incremento di deficit e debito risulterebbero in buona misura compensati da due fattori: l’aumento stesso del Pil, che naturalmente abbatte i rapporti significativi di finanza pubblica, e la crescita delle entrate fiscali, che trainate dalla ripresa incrementerebbero di almeno un punto di Pil.
Insomma, andare oltre il vincolo europeo sul deficit conviene, perché può permetterci di rilanciare l’economia italiana. Inutile sottolineare che sarebbe eccellente concordare a livello europeo una simile discontinuità, magari prima di procedere a più complessi interventi di riassetto delle istituzioni europee e del palinsesto macroeconomico. Infatti, al di là delle motivazioni più squisitamente politiche, una azione espansiva portata avanti di concerto dai membri dell’eurozona, e trainata da quelli che hanno i conti più solidi, darebbe ulteriore impulso alla crescita e gioverebbe agli equilibri della bilancia commerciale; e con una Banca Centrale Europea accomodante anche le possibili tensioni sugli oneri del debito risulterebbero efficacemente arginate. Ma se l’Europa continuasse a tergiversare e trascurare il baratro dentro cui stiamo scivolando, dovremmo considerare la possibilità di una azione unilaterale. Certo, si tratterebbe di una strada estremamente ardua, ma potrebbe finire con l’essere l’unica via che resta prima di arrenderci al declino o essere costretti a decisioni che metterebbero a repentaglio ancora maggiore la tenuta della zona euro.
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