sabato 22 giugno 2013

Nessuno tocchi la Costituzione di Salvatore Settis, L'Espresso


 


Nessuno tocchi la Costituzione


La Costituzione è sotto attacco su tutti i fronti. E nessun tema è “di nicchia”, perché la Costituzione non è una litania di articoli isolati, ma una sapiente architettura di principi. In essa, anche il diritto alla cultura (istruzione, ricerca, tutela) è strumento di eguaglianza, giustizia sociale, libertà, democrazia. Ma le modifiche costituzionali di cui si parla in clima di larghe intese non sono indirizzate a questi grandi traguardi. Tendono, invece, a consolidare l’impasse della politica, il “pilota automatico” che assoggetta i governi al potere finanziario, fuori da ogni controllo democratico. Si inventano conventicole arbitrarie e si osa chiamarle “Costituente”: ma un Parlamento eletto con il Porcellum non è legittimato a esprimere nessuna Costituente. E perché Berlusconi non “stacca la spina”al governo Letta, se non perché punta a una riforma simile a quella bocciata dal referendum del 2006? Con il governo Monti, la modifica dell’art. 81 (pareggio di bilancio) fu approvata, senza referendum, dalla stessa maggioranza che appoggia ora il governo: è già pronta a varare una Costituzione presidenzialista ad personam?
L’unica vera costituente, quella eletta dal popolo nel 1946 con l’espresso mandato di scrivere la Costituzione, fu l’esito di un’incubazione che cominciò sotto l’oppressione fascista, prese un ritmo febbrile con la guerra e la Resistenza e coinvolse importanti figure esterne. Grande fu l’attenzione per la pubblica opinione: nei governi Parri e De Gasperi il ministero per la Costituente, affidato a Nenni, promosse via radio e stampa un’intensa campagna di alfabetizzazione costituzionale. In questo spazio pubblico del discorso, la Costituzione fu il progetto di un’Italia migliore: perché «ogni legislatore dev’esser guidato, sorretto, confortato dalla coscienza del suo popolo» (Jemolo), anzi deve cogliervi quella «vita nascosta di attese e speranze che pullula al di sotto degli affanni della vita quotidiana (…): un lampeggiare di rilievi, un affiorare spontaneo di idee e di scorci, che colpisce, e non può non rallegrare» (Nenni). Quanto sono lontane queste parole dalle manovre sotterranee di ingegneria costituzionale a cui ci tocca assistere!
Quello italiano è un “costituzionalismo debole”: lo Statuto Albertino del 1848, in vigore per cento anni, fu debole fin dall’inizio perché concesso dal re e poi avvilito dal fascismo. La Costituzione della Repubblica ha ben altra legittimazione, perché nata dalla Resistenza; ma il suo slancio ideale è mortificato dalla mancata attuazione di diritti cruciali (come il diritto al lavoro). A questo “costituzionalismo debole” è tempo di contrapporre una Costituzione forte: lo richiede la crisi della democrazia rappresentativa, particolarmente grave per l’iniqua legge elettorale e per la ripetuta legittimazione di un leader (Berlusconi) che non dovrebbe esser tale per i conflitti di interesse. Chi governa dimentica il referendum del 2006, quando 16 milioni di italiani (il 62 per cento dei voti) bocciarono una riforma costituzionale che ora si rilancia.
Si ignora il responso delle urne, la crescita dell’astensionismo, il montare dell’indignazione, il rifugio nella protesta, il disagio sociale, la crescita della povertà. Si insegue insomma l’impossibile modello di una democrazia senza popolo. All’insegna di uno “sviluppo” che non crea ricchezza, ma la sposta e la concentra nelle mani di pochi, smontando lo Stato, svendendo i beni pubblici, socializzando le perdite e polarizzando i profitti. Perciò non si può accettare nessuna “pacificazione”, nessuna forzata amnesia: perché la democrazia si nutre di conflitti, non di oblio.
I partiti, è vero, non sono più un luogo di riflessione e di progettazione, ma un macchinario del consenso, fondato sulla perpetuazione delle caste al potere. Dei partiti c’è bisogno: è tempo di espugnarli con le ragioni della Costituzione, manifesto vivente dei nostri diritti, esigendone la piena attuazione. Dopo la rivolta operaia del 17 giugno 1953 Brecht scrisse: «Il popolo, si disse, ha perso la fiducia del governo / e deve riconquistarla raddoppiando il lavoro. / Non sarebbe più semplice, allora, / che il governo sciolga il popolo?». Perché nulla di simile accada in Italia la nostra arma è la Costituzione. Questa, e non un’altra.

Zagrebelsky: “Il presidenzialismo è un pericolo per la nostra democrazia”

di Silvia Truzzi - Il Fatto Quotidiano


Zagrebelsky: “Il presidenzialismo è un pericolo per la nostra democrazia”
 
Capita talvolta che i ruoli s’invertano. “Lei sa che significa la parola parresia? ”, domanda l’intervistato. “Attitudine a dire la verità. Perché me lo chiede? ”. Gustavo Zagrebelsky esita nel rispondere: “Perché questa virtù – parlar chiaro e libero, e agire di conseguenza – mi pare oggi alquanto sbiadita. Il contrario è ipocrisia: negarsi al dovere di dire la verità o dire una cosa per volerne un’altra”.
Esempi, professore?
Stiamo parlando di riforme costituzionali: i discorsi in privato contraddicono quelli in pubblico. Oppure, ci si convince del contrario di quel che si è sempre pensato. Opportunismo o spirito d’omologazione.
Diceva anche: dire una cosa per intenderne un’altra.
Pensi alle “riforme”. Viviamo in tempi d’inceppamento. C’è un sistema di potere che non vuole o non riesce a rinnovarsi. Perciò si cristallizza. Le “larghe intese”, la rielezione della stessa persona a capo dello Stato: non sono due clamorose dimostrazioni di paralisi politica? Qui, nella stasi, s’innestano le riforme e la loro retorica. Ma riforme per cosa? Per aprire, rinnovare, vivificare oppure per afferrare più saldamente il potere, stringendolo nelle mani di sempre, per garantire perduranza d’interessi e pratiche consociative? In una parola: riformare per non cambiare. Mi riferisco agli strateghi del presidenzialismo.
Perché il presidenzialismo sarebbe strumento di conservazione?
Il presidenzialismo, nelle sue varianti, più di qualsiasi altro sistema cambia d’aspetto a seconda delle società ove opera. È camaleontico. Pensi al semi-presidenzialismo francese e alle sue imitazioni africane. Sono la stessa cosa? No. Gli “ingegneri costituzionali” si occupano di formule, ma i costituzionalisti sanno che le costituzioni sono fatte, sì, di formule, ma anche di storia, cultura, abitudini, vizi e virtù. Quale ignoranza nel pensare che la riforma della costituzione sia una questione di modelli astratti d’importazione!
Ha paura che veleggiamo verso il Ruanda più che verso la Francia?
Non facciamo terrorismo costituzionale. Tuttavia, saremmo ciechi se non ci preoccupassimo di alcuni fattori condizionanti. Il primo è la corruzione. Dove la corruzione è diffusa, i presidenzialismi sono non solo essi stessi corrotti, ma ne diventano garanzia. Il secondo è la cultura politica che, in nome della storia, delle libertà, delle tradizioni repubblicane, eccetera, trattiene dall’abuso del potere. Il terzo è la coesione sociale. Dove la convivenza è minacciata dalle disuguaglianze, dalla mancanza di lavoro, dall’abbandono a se stessi di cittadini più deboli, è forte la tentazione di cercare la pace sociale non nella partecipazione democratica, ma nelle misure energiche d’ordine pubblico. Da noi? Come stiamo a corruzione? A incultura politica? A ciò che, pudicamente, si chiama disagio sociale? Chiederei: che ne è del conflitto d’interessi? Credete che si possa pensare a un’elezione diretta del capo del governo senza avere sciolto il nodo che lega politica, economia, informazione?
Teme per la democrazia?
Nelle attuali condizioni sì. Di fronte alle difficoltà, non c’è il rischio che si dica: pensaci tu al posto nostro; fagliela vedere tu a questi queruli e fastidiosi postulanti che chiedono diritti e disturbano la (nostra) pace sociale? Quella massa di elettori mancati, quando si muoveranno, dove andranno a parare?
Il sistema parlamentare non è a sua volta in crisi?
Certamente! Ma, mi pare che la via per uscirne sia rinnovare la politica, cambiare dall’interno i partiti, non temere l’irruzione delle novità, ma assecondarle e costituzionalizzarle, come avviene nelle democrazie non assediate dalla paura del nuovo. Prima, il rinnovamento della politica; poi, eventualmente, la riforma della forma di governo.
Sulle “forme delle riforme” regna una grande confusione. Non si capisce bene quale ruolo abbia la commissione degli esperti e quale il governo. Che c’entra il governo con un percorso che dovrebbe essere parlamentare?
Si vuol seguire una procedura farraginosa, molto più complicata dell’articolo 138. In più, questa farraginosa procedura presuppone una legge costituzionale che la codifichi, da approvarsi con le procedure oggi vigenti. Chi guardasse dall’esterno, penserebbe che si vuole complicare per non fare nulla. Invece, la verità è che, con questo procedimento, non si esautora il Parlamento, ma lo si mette alle corde. Ricorda il discorso del presidente della Repubblica, al momento della sua rielezione? Si è trattato d’un atto d’accusa contro le Camere inconcludenti, che i parlamentari hanno incassato senza battere ciglio. Così, sullo svolgimento della nuova procedura vigilerà il governo, con l’aiuto dei suoi consulenti, sotto l’egida del capo dello Stato e secondo un “cronoprogramma” che dovrebbe garantirne la conclusione entro 18 mesi. Dove sia questa garanzia, però, nessuno lo sa. I Parlamenti, per definizione, sono padroni dei propri tempi e lavori: ci mancherebbe che non fosse così! Per ora, si sa solo che i 18 mesi suonano piuttosto come garanzia di durata del governo. E non vorremmo credere che la garanzia stia nella minaccia di dimissioni del presidente della Repubblica, dimissioni che, come sanno i costituzionalisti, non sono affatto nella sua disponibilità secondo valutazioni politiche e che precipiterebbero la situazione nel caos.
C’è una riforma necessaria e urgente?
Sì, lo si è detto infinite volte: la riforma della legge elettorale. Non sto a ripetere le ragioni. Faccio solo osservare che, per riconoscimento unanime, quella attuale è giudicata incostituzionale. Dunque, per quanto si voglia voltare lo sguardo dall’altra parte, noi abbiamo – unici nel mondo delle democrazie – un Parlamento carente di legalità costituzionale. Se poi consideriamo che la formula del governo di larghe intese – necessitata o non: non è questo il punto – non ha alcun rapporto, anzi è in contrasto, con la volontà degli elettori e con il risultato elettorale, allora al deficit di legalità si aggiunge un altrettanto, anzi più, grave deficit di legittimità. E, in queste condizioni, si pensa di dare al nostro Paese una nuova costituzione? Non è ybris, presunzione?
Sulle riforme gravano poi le incognite legate ai processi Berlusconi. Che opinione s’è fatto della decisione della Consulta sul legittimo impedimento nel processo Mediaset?
Da quel che si sa, mi pare che la Corte abbia fatto applicazione rigorosa dei suoi precedenti. Chi parla di contraddizione, dovrebbe avere cura di studiare un poco e non falsificare i dati. Il punto è la cosiddetta “leale collaborazione” tra governo e autorità giudiziaria. La leale collaborazione non significa affatto autorizzazione a una delle parti perché possa boicottare l’attività dell’altra. Significa che entrambe devono cooperare per un fine comune, il corretto esercizio di funzioni che hanno la medesima dignità costituzionale. La Corte ha ritenuto che da parte dell’allora presidente del Consiglio vi sia stato proprio questo boicottaggio dell’attività giudiziaria. Non c’è nulla d’aggiungere.

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua