Tra le intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza e le critiche di chi, come Giorgio Lunghini, pensa che quel reddito non risolva la questione dell’autonomia dei non occupati, rimane aperta una sola via: la redistribuzione del lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro ma senza decurtazioni di salario
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Giorgio Lunghini nel suo Reddito sì, ma da lavoro” ha sottolineato che la proposta del reddito di cittadinanza soffre di limiti intrinseci. Con le sue parole: “quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolve la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.”
Si tratta di un’argomentazione logicamente ineccepibile. Ma l’evoluzione della realtà sociale notoriamente non va di pari passo con la logica, visto il ricorrente sopravvenire di eventi contraddittori, cioè di fenomeni che impongono la ristrutturazione degli stessi presupposti del ragionamento e dell’azione. Può così accadere che la giusta critica alla proposta del reddito di cittadinanza venga articolata senza tener conto di alcuni degli elementi che hanno fondatamente spinto i sostenitori di quella strategia ad optare per quella soluzione, anche se poi quegli stessi elementi li hanno spinti a sbagliare nello svolgimento della soluzione del problema, ma non nella sua formulazione di partenza. Cerchiamo di vedere di che cosa si tratta.
Lunghini rappresenta il quadro dei rapporti sociali attuali con il seguente schema:
Questo schema, a mio avviso distorce il dato di fatto con il quale ci stiamo confrontando. Il quadro delle relazioni produttive – sia di quelle che riescono a procedere fisiologicamente, sia di quelle che incontrano ostacoli – mi sembra che sia piuttosto il seguente:
Perché è importante tener conto di questa articolazione più complessa della realtà? La tesi di Lunghini è condivisibile per la parte di strada che ci permette di percorrere, ma non ci consente di portare il problema della disoccupazione di massa odierno alla sua coerente risoluzione. La produzione capitalistica di merci – dice – si arresta nonostante ci siano molti bisogni insoddisfatti perché la loro soddisfazione non garantirebbe alle imprese un profitto. Questo meccanismo impone, così, all’attività produttiva una limitazione artificiale, visto che le risorse materiali per soddisfare quei bisogni esistono.
Che fare per superare questo blocco? La risposta di Lunghini è chiara. “Si tratterebbe di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci alla messa in moto di … lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti … lavori di cui c’è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale”. Un passaggio che dovrebbe scaturire “dall’azione dello stato, attraverso istituzioni appropriate tutte da inventare”.
Ma, a mio avviso, a quel blocco delle spese capitalistiche, in assenza delle quali è impossibile il pieno uso delle risorse produttive esistenti attraverso i rapporti privati, si è risposto a partire dalla Seconda guerra mondiale, con lo sviluppo dello Stato sociale keynesiano, che per un trentennio ha garantito una spesa pubblica crescente, alternativa sul piano qualitativo e aggiuntiva su quello quantitativo.
Tant’è vero che in quel periodo abbiamo goduto del più straordinario sviluppo negli ultimi due secoli, uno sviluppo che ha radicalmente cambiato la vita degli abitanti dei paesi sviluppati, e ha assicurato il pieno impiego stabile, visto che la disoccupazione media nell’insieme dei paesi Ocse è stata, per tutto il trentennio, di appena il 3,3%. Per dirla in termini drastici: quello che Lunghini propone di fare è – in buona parte – già stato fatto. Non bisogna infatti dimenticare che in quel periodo l’occupazione pubblica in Gran Bretagna è triplicata, passando da 2.500.000 a 7.500.000 unità, realizzando quel sistema di soddisfazione dei bisogni non a pagamento rappresentato dai diritti sociali. Un aumento che, seppure in forma meno impetuosa, è intervenuto in tutti i paesi sviluppati e che, dopo trent’anni di smantellamento neoliberista, vede ancora occupata direttamente dalla spesa pubblica da 1/5 a ¼ della forza lavoro complessiva.
Per quale ragione Lunghini non ha richiamato questo aspetto essenziale della storia recente? E come si intreccia questa omissione con la critica della proposta del reddito di cittadinanza? I sostenitori del reddito di cittadinanza, talvolta senza neppure essere pienamente consapevoli, partono dal presupposto che il problema della disoccupazione di massa si presenti ormai come un problema strutturale. Vivendo da più di trent’anni una situazione nella quale si parla sistematicamente di crescita e di possibili piani per creare lavoro, senza che nulla cambi, sono ormai diventati scettici sulla reale praticabilità di queste prospettive. Anche se sono in pochi a enunciarlo analiticamente (per un’eccezione recente vedi Krugman, Sympathy for the Luddites, NYT 13. giugno 2013 http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Sympathy-for-the-Luddites) sottostante alla loro proposta c’è, cioè, l’ipotesi del sopravvenire di una crescente difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato sulla scala necessaria a garantire l’eliminazione della disoccupazione. Per sostenere che il reddito deve essere “da lavoro”, Lunghini deve ovviamente confutare quest’ipotesi, e credere che, grazie all’intermediazione dello stato, l’attività salariata possa ancora espandersi, permettendo di soddisfare i bisogni insoddisfatti, fino a garantire il pieno impiego. Nel farlo incorre però, secondo me, in alcuni semplificazioni che non sono affatto condivisibili.
La prima è quella dell’individuazione del lavoro salariato erogato correntemente, cioè occupato, come fonte della sola produzione di merci. Ma un medico del sistema sanitario nazionale, un insegnante della scuola pubblica, un netturbino, un vigile urbano, ecc. sono lavoratori salariati e producono una ricchezza che non viene venduta come merce. Essi soddisfano bisogni sociali, ricevono in cambio della loro attività un denaro, ma chi li impiega (la pubblica amministrazione) non vuole trarre dal loro impiego un guadagno, e nemmeno una reintegrazione delle somme spese – ché altrimenti i loro servizi dovrebbero essere venduti. Essi sono quindi occupati da una spesa di denaro effettuata come reddito, per garantire alla società di godere di valori d’uso. E, infatti, se vuole tornare a occuparli lo stato deve ogni volta procurarsi di nuovo il denaro che ha speso e vuole tornare a spendere.
Ma se la proposta di Lunghini ha già trovato una più o meno rozza attuazione, per quale ragione non dovremmo procedere ulteriormente in quella direzione, magari migliorando le sue pratiche attuative? La risposta sta proprio nello scetticismo dei sostenitori del reddito di cittadinanza: anche quella strategia si è scontrata con degli ostacoli, che non essendo stati compresi non hanno potuto essere superati. La disoccupazione è tornata a crescere prima che l’ideologia neoliberista prendesse il sopravvento, non dopo. La svolta è intervenuta a metà anni Settanta, quando gli stessi laburisti inglesi hanno ripudiato il keynesismo, perché non riuscivano più a ottenere, dalla sua applicazione, gli effetti positivi dei quali avevano goduto nei precedenti trent’anni. Reagan e la Thatcher arrivano dopo, quando il keynesismo è stato ovunque abbandonato – si pensi alla svolta dell’Eur della Cgil del ’77 – e i conservatori si sono presentati come coloro che “l’avevano detto che non funzionava”. La loro parola d’ordine è stata: “la spesa pubblica non è la soluzione, ma il problema”.
Inutile dire che le loro fantasie di un rinnovato sviluppo su base privata, tale da arricchire realmente la società, si sono dimostrate del tutto infondate, cosicché è subentrata una tendenza strutturale al ristagno, mascherata da una forsennata speculazione finanziaria che ha finito solo col sottrarre una quota crescente del reddito alla parte più povera della società.
Se noi vogliamo affrontare i problemi attuali non possiamo limitarci a partire dagli svolgimenti recenti di questo lungo processo storico. Dobbiamo piuttosto risalire al problema che si è presentato a metà anni Settanta, il quale ha influenzato tutta l’evoluzione successiva, per il fatto di essere rimasto irrisolto. I sostenitori più intelligenti del reddito di cittadinanza, in qualche modo lo fanno, ma poi imboccano una scorciatoia, che porta completamente fuori strada, quella di non riconoscere la natura sociale del denaro, e di scindere il reddito dal lavoro.
Lunghini ha ragione nel sostenere che il reddito di cittadinanza – che è cosa diversa dall’indennità di disoccupazione – renderebbe una parte della società parassitaria nei confronti dell’altra. E ha ragione anche nel ritenere che l’espansione della spesa pubblica sia stata un mezzo efficace per tornare ad impiegare il sovrappiù del settore capitalistico in modo socialmente utile, invece di farlo marcire nella disoccupazione di massa. Ma sbaglia, a mio avviso, nel credere che questa strada sia ancora aperta o, addirittura, che debba essere imboccata ora per la prima volta. Credo che l’errore sia dovuto alla sua convinzione che il processo riproduttivo sociale si riduca, ancora oggi, al solo rapporto capitale-lavoro salariato, e al di fuori di questo rapporto ci sia “una terra di nessuno”. Come ho indicato nel mio schema, le cose non stanno affatto così. Accanto al rapporto capitale-lavoro salariato, che è in drammatico declino nei paesi sviluppati, è cresciuto un rapporto alternativo pubblica amministrazione- lavoro salariato, che ha incontrato a sua volta gravi difficoltà, dopo aver garantito uno straordinario sviluppo.
Ora, se si tiene presente tutto ciò, e si vuole procedere sia tendendo conto delle giuste intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza, che delle altrettanto giuste critiche di Lunghini, rimane aperta solo una via: la redistribuzione del lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro senza alcuna decurtazione del salario. Ci sono molti passaggi analitici che sostengono questa proposta, ma sarebbe troppo lungo svilupparli in questa sede. (Chi vuole può far riferimento al mio Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri.) Mi limito qui a dissentire dalla riserve di Lunghini. Non è solo la riduzione dell’orario di lavoro ad “essere difficilissimamente praticabile in un paese solo”. La sua proposta di un aumento della spesa pubblica per i lavori concreti è fortemente osteggiata, e men che mai potrebbe passare in un “paese solo”. La riduzione dell’orario di lavoro “non implica affatto, come sostiene Lunghini, “che le merci possano soddisfare tutti i bisogni”. Al contrario, scaturisce proprio dalla constatazione che ci sono bisogni insoddisfatti e potrebbero essere soddisfatti sì creando il lavoro salariato residualmente necessario, ma soprattutto creando quello spazio, al di fuori del rapporto salario e della forma merce nel quale gli individui possono imparare a soddisfarli. Se la riduzione è organizzata solo per ridurre il tempo di lavoro degli occupati, lascia ovviamente fuori i disoccupati. Ma quello per cui Keynes si espose in Prospettive economiche per i nostri nipoti, era di più rispetto alla pura e semplice riduzione della giornata lavorativa. Si trattava, appunto, della redistribuzione del lavoro, della quale la riduzione era una condizione. Né è vero che la redistribuzione del lavoro presuppone salari elevati. Se i salari sono diminuiti per la difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato, è ovvio che essa contribuisce a porre fine a quella caduta, appunto perché sottrae le possibilità di occupazione al gioco della domanda e dell’offerta sul mercato del lavoro.
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