giovedì 13 giugno 2013

La crisi del capitalismo e della socialdemocrazia di John Bellamy Foster e Bill Blackwater



 
John Bellamy Foster è meglio noto come autore di ‘Marx’s Ecology’ [Ecologia marxiana] (2000, in cui corregge il malinteso popolare su fatto che Marx non avrebbe ‘compreso’ i limiti ambientali) e come redattore della Monthly Review (monthlyreview.org), la rivista fondata dall’economista marxista Paul Sweezy nei tardi anni ’40. Nel suo libro più recente ‘The Endless Crisis’ [La crisi infinita] (2012, scritto con Robert McChesney) Foster analizza quella che definisce la ‘trappola della stagnazione-finanziarizzazione’. Si tratta dell’emergenza economica in cui si trovano oggi paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: dipendenti per la crescita da un sistema di bolle finanziarie che ora sono scoppiate, appaiono impantanati per il futuro prevedibile in una condizione di stagnazione cronica.

Proprio come si era soliti dire di alcuni che gli era ‘andata di lusso’ [had a good war] in guerra, così a Foster e alla Monthly Review è andata di lusso con la crisi finanziaria. La Monthly Review aveva previsto da molto tempo il crollo e la successiva stagnazione. In Gran Bretagna l’analisi della Monthly Review ha ottenuto commenti favorevoli da Larry Elliot del The Guardian e la sua influenza è in ascesa.

In questa intervista John Bellamy Foster parla non soltanto della crisi in cui si trova oggi il capitalismo maturo, ma anche della crisi che essa ha provocato nella socialdemocrazia. Per molti versi questo è per lui il capolinea della socialdemocrazia: non può più sperare di promuovere la crescita e di ridistribuirne il bottino. La stagnazione, non la crescita, è all’ordine del giorno. In queste condizioni, sostiene, è imperativo che i partiti socialdemocratici si reinventino, ricostruiscano collegamenti con le loro tradizionali fonti di sostegno ed è cruciale che rinvigoriscano la coscienza sociale della maggioranza della popolazione che viene attivamente svantaggiata delle élite finanziarie.

La trappola della stagnazione-finanziarizzazione

Nel vostro nuovo libro, ‘The Endless Crisis’, tu e Robert McChesney parlate della ‘trappola della ‘stagnazione-finanziarizzazione’. Che cosa intendete con questo?

La gente, comunemente, ha visto che cosa è successo nel 2007 e nel 2008, quando è scoppiata la bolla sotto forma di crisi finanziaria, e null’altro. Ma il problema reale è la tendenza alla stagnazione economica delle economie mature, e il rallentamento a lungo termine del tasso di crescita.
La nostra tesi è che la finanziarizzazione, la serie di bolle finanziaria cui abbiamo assistito lungo un periodo di decenni, è stata il principale stimolo dell’economia. Penso che questo sia oggi ben compreso, ma non era compreso così bene cinque o sei anni fa. E anche se l’espansione finanziaria ha sollevato l’economia, le bolle finanziarie hanno sempre i loro limiti.

Quando le bolle scoppiano il governo ovviamente cerca di agire come prestatore di ultima istanza, iniettando liquidità e finanziamenti, per far ripartire il sistema finanziario. Ma non è in grado di affrontare il problema sottostante, che è la stagnazione, è questa volta siamo bloccati; non riesce a far realmente ripartire il sistema e ci troviamo di fronte a un problema di stagnazione economica emerso come conseguenza.

Chiamiamo ciò la “trappola della stagnazione-finanziarizzazione” perché la finanziarizzazione è la risposta alla stagnazione ma crea problemi più grossi, più complessi, e alla fine i due problemi insieme ci pongono in una condizione in cui non siamo realmente in grado di andare avanti.

 

Quali sono le radici di questa condizione di stagnazione che stai descrivendo?

Fondamentalmente, per capire il problema della stagnazione, e anche della finanziarizzazione, si deve andare indietro nel tempo. Possiamo risalire alla Grande Depressione, che fu un periodo di grave stagnazione economica. E naturalmente uscimmo dalla Grande Depressione principalmente in conseguenza della Seconda Guerra Mondiale e dopo la guerra ci fu il periodo che a volte chiamiamo “l’età dell’oro” (anche se ebbe essa stessa problemi di ogni genere) in cui l’economia andava bene per ogni sorta di ragioni. Ciò ebbe a che fare con la ricostruzione delle economie europea e giapponese dopo la guerra; fondamentalmente l’economia era molto liquida perché i consumatori non erano stati in grado di spendere durante la guerra e perciò c’era molto potere d’acquisto; ci fu la seconda ondata della motorizzazione; ci fu la Guerra Fredda che portò a ulteriori espansioni militari. E tutte queste cose spronarono l’economia per un certo tempo.

Ma alla fine gli anni settanta terminarono con una crisi e l’economia cominciò a rallentare. Negli anni settanta il tasso di crescita fu interiore a quello degli anni sessanta; fu più lento negli anni ottanta e novanta rispetto agli anni settanta ed è stato più lento nel primo decennio di questo secolo che negli anni novanta, e pare che l’economia stia rallentando ancora di più. E’ stato così per gli Stati Uniti; è così anche per l’Europa e il Giappone. Dunque questo è un problema di stagnazione che è molto acuto a questo punto.

A partire dai tardi anni settanta, per un paio di decenni l’economia fu sollevata dall’espansione finanziaria, una bolla finanziaria dopo l’altra; l’intero sistema finanziario crebbe in rapporto con l’economia sottostante. Le élite affaristiche non erano in grado di trovare canali d’investimento in quella che è chiamata economia reale, o produzione, perciò riservarono i loro surplus o i risparmi a loro disposizione sempre più nella speculazione finanziaria. Ciò ebbe l’effetto di risollevare l’economia in un modo secondario, ma poi alla fine creò bolle sempre più grandi, crisi finanziarie sempre più vaste e finalmente arriviamo a quella che lo stato, come prestatore di ultima istanza, può a malapena gestire e abbiamo questa crisi interminabile. Ci ha riportati alla grande nella stagnazione perché non possiamo utilizzare efficacemente la finanziarizzazione per espandere il sistema e non c’è altro modo che qualcuno conosca per espandere il sistema su basi di lungo termine, considerate le condizioni attuali.

 

I limiti del minskysmo

Hai citato in precedenza come il ruolo chiave della finanziarizzazione nel mantenere la crescita dell’economia sia diventato più diffusamente compreso solo di recente. Ora, uno dei nomi chiave in rapporto a tale più vasta comprensione più recente è Hyman Minsky. Ma so che tu prendi le distanze da lui in economia e mi chiedo se potresti precisarci quali sono le differenze.
A partire dagli anni ’60, Hyman Minsky sviluppò una teoria delle crisi finanziarie. Derivava da Keynes ed era un socialista, ma si concentrò sulle crisi finanziarie in modo largamente indipendente da quanto accadeva nella produzione; perciò non prese molto in considerazione il problema della stagnazione, o le sottostanti dinamiche di classe. Aveva semplicemente una teoria pura delle crisi finanziarie, dove un sistema finanziario diventa sempre più instabile nel tempo perché quanto più debito si crea, tanto più peggiora la sua qualità, diventa più speculativo ed essenzialmente si ha un sistema Ponzi, e l’intera struttura finanziaria minaccia di venir giù, e il governo deve intervenire come prestatore di ultima istanza.

In realtà non si occupò del rapporto di ciò con l’economia reale e non si occupò di quella che chiamiamo finanziarizzazione, cioè la tendenza di lungo termine della crescita della finanza rispetto alla produzione; invece si concentrò soltanto sulle crisi finanziarie, una dopo l’altra, senza guardare molto alla tendenza di lungo termine, alla costruzione del debito nei decenni. Solo dopo il crollo del mercato azionario del 1987 scrisse un articolo per un libro cui contribuii anch’io (Gottdiener and Komninos, 1989) e introdusse un nuovo concetto di capitalismo da gestori della finanza. Disse: “Guardate, questo adesso è sistemico. Abbiamo un intero sistema economico che è dominato dai gestori della finanza, che sostanzialmente dominano le cose e il capitalismo è fatalmente imperfetto.” Stava tentando di elaborare questo concetto ma non arrivò molto in là.
Harry Magdoff e Paul Sweezy, contemporaneamente, negli anni settanta, ottanta e novanta, avevano scritto sulla crescita della finanziarizzazione come reazione alla stagnazione dell’economia sottostante, ed è da lì che vengo fuori io.


Quelli che aderiscono alla visione mynskista sembrano sostenere che quello che dobbiamo fare è limitare il ruolo del settore finanziario e poi potremo tornare alla “crescita buona” e ripristinare il primato dell’economia reale. Ora tu fondamentalmente suggerisci che ciò non può accadere. E’ probabilmente per questo che definisci questa la “crisi infinita”? Ma in tal caso, quanto infinita è?

Innanzitutto, perché il governo e le banche centrali non possono semplicemente regolare il sistema finanziario? Beh, c’è una ragione principale ed è che abbiamo questo problema sottostante della stagnazione economica. L’espansione del sistema finanziario, dell’intero apparato del debito e del credito, è stata un modo per utilizzare i surplus economici che non erano utilizzati negli investimenti produttivi. Si sono invece riversati nella speculazione e ciò ha creato un effetto ricchezza che costituisce uno stimolo secondario per l’economia sottostante, perché quelli che hanno beneficiato dell’aumento dei prezzi dei beni spendono di più in consumi e ciò stimola l’economia. Anche la finanza offre un po’ di occupazione, anche se non tanta come altri settori dell’economia. Perciò la finanziarizzazione dell’economia è stata questo importante stimolo e ha contribuito a mantenere le economie capitaliste mature in crescita a un tasso piuttosto basso ma considerato adeguato. E senza la finanziarizzazione non c’è stimolo alla crescita. E questo è il problema.

Quando l’espansione finanziaria rallenta, le autorità sanno che c’è una bolla. Sanno che è fuori controllo. Sanno che la speculazione arriverà fino a un certo punto e alla fine scoppierà. E cosa possono fare i regolatori? Possono cercare di dare un giro di vite alla speculazione; ma se lo fanno la bolla scoppia e l’economia entrerà in crisi e forse in una crisi gravissima e nella recessione. Nessuno vuole che ciò accada mentre si trova in carica. Perciò non lo fanno, non cercano di pungere la bolla in anticipo. Il governo non è in grado di stabilizzare le cose in queste situazioni, perché teme di spingere oltre il ciglio del burrone le imprese che sono “troppo grandi per fallire”; teme lo scoppio delle bolle. L’unica cosa che può fare in queste situazioni è dare altra corda agli investitori e sperare di non essere al potere quando alla fine la bolla scoppierà. E dunque è così che il sistema funziona; non è qualcosa che si possa controllare in alcun modo razionale.
In termini del libro The Endless Crises (Foster e McChesney, 2012) ovviamente nulla è davvero senza fine. Marx in un’occasione, seguendo Epicuro, si riferì all’”immortale morte”. In altri termini la sola cosa permanente è il cambiamento, lo scomparire delle condizioni esistenti. Ma è ovviamente sensato riferirsi a una crisi interminabile in un senso più storicamente specifico, in termini dello stesso sistema e della sua fase attuale. L’intera trappola della stagnazione-finanziarizzazione è endemica per il capitalismo maturo della finanza monopolistica. Potrebbe essere che arrivi qualche nuova innovazione che consenta di tirare avanti temporaneamente, ma abbiamo avuto l’intera rivoluzione dei computer e tuttavia non ha stimolato adeguatamente gli investimenti. Google potrebbe essere considerato schierato per tale innovazione. Ma impiega solo circa 20.000 dipendenti in tutti gli Stati Uniti, cifra minuscola. Semplicemente non c’è alcun segno di qualcosa all’orizzonte che risolva il lato domanda del problema dei mercati saturi e di una crescente breccia della sotto-occupazione. L’unica soluzione per quelli al potere, in realtà, è stata la finanziarizzazione ed essa è di per sé molto pericolosa.

Come se non bastasse, ora abbiamo il problema aggiuntivo che, a causa della svolta dell’accumulazione dal settore industriale a quello finanziario, abbiamo una élite di potere finanziario che fondamentalmente domina il panorama, il che rende doppiamente difficile risolvere queste cose. Il neoliberismo è in realtà un riflesso di questa svolta verso un sistema finanziarizzato o verso quello che io chiamo capitale finanziario monopolistico.

 

La reazione alla stagnazione e alla recessione negli Stati Uniti e in Gran Bretagna

Se possiamo ora passare alla reazione al crollo e alla conseguente recessione, in Gran Bretagna nell’ultimo paio d’anni la gente ha guardato all’amministrazione Obama e affermato che ha reagito alla recessione in modo molto migliore rispetto al governo liberal-conservatore del paese, che Obama ha continuato a mantenere un certo stimolo alla spesa e, in conseguenza, ha ottenuto una certa crescita. Qual è la tua opinione su come Obama ha gestito la recessione?

Quando Obama ha assunto la carica ho scritto un articolo con Robert McChesney intitolato “
A New New Deal under Obama?” [Un nuovo New Deal sotto Obama?] (Foster e McChesney, 2009). Ma era chiaro fin dall’inizio che Obama non avrebbe offerto granché in termini di stimolo economico. E dunque c’è stato un modestissimo stimolo economico negli Stati Uniti, 750 miliardi di dollari – in due anni – e una gran parte di esso è consistita in riduzioni delle tasse. I veri aumenti della spesa governativa che ne sono derivati sono stati esigui. Dunque in realtà non c’è stato molto in termini di stimolo governativo diretto. Immagino sempre che quando Obama fu eletto presidente i ragazzoni della Federal Reserve e degli interessi finanziari e Geithner lo abbiano portato in una stanza e gli abbiano detto: “Ti consentiremo il tuo piccolo stimolo, ma stanzieremo più di dieci trilioni di dollari per il salvataggio del sistema finanziario ed è lì che si gioca la partita vera; la tua è solo spettacolo.” Me lo sto immaginando, naturalmente, perché non c’è modo di sapere come si sono svolte le cose dietro le porte chiuse della Casa Bianca, ma è stato qualcosa del genere. Quello che è stato fatto in termini di politica fiscale è stato esiguo a paragone con quanto è stato fatto attraverso la Federal Reserve e la politica monetaria, essenzialmente stampando moneta.
L’economia statunitense non sta andando molto bene; è stagnante, il problema grosso è la stagnazione economica, perché la disoccupazione è enormemente elevata, specialmente se si guarda ai dati U6 anziché a quelli U3 (la disoccupazione reale, che tiene conto degli effetti sui lavoratori potenzialmente attivi e così via). La disoccupazione e la sotto-occupazione in base al dato U6 sono attualmente superiori al 14 per cento.

In Gran Bretagna, ovviamente, abbiamo avuto una recessione a doppio minimo, e siamo preoccupati per un minimo triplo. Ciò ha in parte a che vedere con il fatto che la Gran Bretagna si è spinta molto più in là nell’adottare programmi di austerità che vanno contro tutto ciò che sappiamo sull’economia e quello che si fa in una recessione. Il paese che ha prodotto John Maynard Keynes sembra totalmente ignorante in politica e strategia fiscale; ma c’è di peggio, non è semplicemente una questione di cattiva politica. In Gran Bretagna, per quel che capisco, la City è molto più centrale di quanto sia Wall Street negli Stati Uniti. Fondamentalmente il sistema britannico è più dipendente dal potere finanziario rispetto agli Stati Uniti. In una situazione simile le autorità fanno quello che vogliono gli interessi finanziari, il che non è necessariamente ciò che è bene per la produzione o per l’economia o per l’occupazione o per il reddito. Ma aiuta quelli che hanno i soldi.

Quelli che hanno il capitale monetario – specialmente i grandi interessi finanziari, le banche, le compagnie di assicurazione e i fondi speculativi – sono principalmente interessati oggi a una sola cosa, ed è conservare il proprio capitale. Siamo in un periodo in cui conservare il valore degli attivi finanziari esistenti è in realtà il problema numero uno e ciò sta chiaramente determinando la politica britannica e, in misura minore, quella degli Stati Uniti.

 

L’influenza della Monthly Review

Posso chiederti dell’influenza oggi delle tue idee e, più in generale, della Monthly Review? In quale misura la crisi finanziaria ha dato alla Monthly Review una più diffusa influenza sui media convenzionali?

Beh, lottiamo. La Monthly Review ha, penso, un’influenza crescente sulla sinistra negli Stati Uniti e nel mondo, tra quelli disponibili ad ascoltare, ma nei media convenzionali statunitensi – cioè nei media del mondo imprenditoriale – abbiamo fatto pochissimo in termini di penetrazione. I media sono conservatori, secondo qualsiasi parametro, e sono molto controllati dalle imprese. In realtà i media sono essi stessi enormi imprese monopolistiche. Per cui noi rappresentiamo un punto di vista che è interdetto. Anche se certi interessi imprenditoriali e finanziari ci seguono da vicino, non è certamente qualcosa che diventa spesso pubblico. Abbiamo comunque effettivamente un impatto nella sinistra e nei movimenti in generale e anche tra economisti politici e economisti eterodossi, e penso che tutto questo stia crescendo.

Quello che è interessante oggi, e certamente non lo attribuirei affatto al nostro impatto diretto, è che alcuni economisti liberali di spicco stanno muovendosi, spinti dalla forza degli eventi, verso una valutazione che riflette quella che noi sosteniamo da sempre. Paul Krugman in anni recenti ha riscoperto la stagnazione e dopo la crisi finanziaria ha cominciato a leggere Minsky, seguito da Kalecki. Ora, più o meno negli ultimi mesi, ha scoperto il potere monopolistico e il contrasto lavoro-capitale; dice di non essersi mai reso conto di quanto le innovazioni che risparmiano lavoro possano essere così distruttive per il lavoro. E dice che sta fondamentalmente scoprendo il valore del genere di pensiero marxista vecchio stile! Ovviamente questo non significa che stia per diventare un radicale; solo che è costretto ad affrontare in questi giorni l’economia con un maggiore grado di realismo.

I problemi di cui ci siamo occupati sulla Monthly Review sono sempre più centrali per la situazione attuale e dunque abbiamo un impatto sui dibattiti che hanno luogo tra le persone informate nella comunità finanziaria e tra gli intellettuali di sinistra. Ma negli Stati Uniti il clima politico è ancora molto diverso da quello in Gran Bretagna. In Gran Bretagna il fatto che un leader laburista abbia un padre marxista potrebbe non distruggere in realtà il suo futuro politico in parlamento, ma negli Stati Uniti la destra è molto potente. Cerca costantemente sui mass media di collegare Obama alla sinistra e di dimostrare che è ‘socialista’, il che è ovviamente una palese assurdità. C’è tuttora questa specie di mini-maccartismo che non è mai scomparso realmente del tutto. La stessa ‘sinistra rispettabile’ spesso lo asseconda, controllandosi per apparire quanto più liberale possibile e per minimizzare qualsiasi persistente socialismo sia nelle parole sia negli atti.

 

E per quanto riguarda i campus universitari in Nord America? Mi chiedo in quale misura la generazione più giovane abbia conoscenza del vostro genere di tesi, o lo cerchi.

Beh, personalmente ho più inviti a parlare nei campus di quanti ne potrò mai soddisfare; stanno crescendo enormemente. Tengo alcune conferenze e cerco di passarne altre ad altri. La Monthly Review è ora nota per tre cose: è nota per le sue analisi della crisi ecologica e per la sua conoscenza del capitalismo monopolistico, della stagnazione, della finanziarizzazione e dell’intera trappola economica in cui ci troviamo. Inoltre c’è una terza area, che risale a molto tempo addietro, ed è la critica dell’imperialismo.

Ci sono molte persone che ci chiamano per l’analisi ambientalista e succede da un po’ di tempo; e ora ci sono sempre più persone che si stanno concentrando sulle carenze economiche del capitalismo. Oggi sono gli attivisti più giovani (e forse quelli più anziani) a essere più concentrati sull’economia; mentre diciamo che quelli tra i trenta e i quarant’anni della sinistra sono più interessati all’ambiente. E’ una situazione strana. Perché tempo addietro l’economia non era un grande tema, mentre lo era l’ambiente; ora è l’economia, ma specialmente tra i più giovani, persone influenzate dal movimento Occupy.

 

La fine del capitalismo?

La domanda più grossa che incombe su tutto questo, tornando a quanto hai detto a proposito di come, naturalmente, nulla sia in realtà infinito, è: quale pensi sarà l’evoluzione delle cose? Ed è questa la fine della crescita? E ciò significa la fine del capitalismo?

Ci sono vecchie teorie sul collasso dell’economia (al riguardo Henryk Grossman è l’esempio più famoso) che hanno ancora un certo corso nella sinistra: l’idea che il sistema crollerà semplicemente economicamente a causa del declino del tasso di profitto, e che in quel contesto la sinistra avrà un’ascesa. Ma il capitalismo non crollerà esattamente sotto il profilo economico: quello che abbiamo è un problema di stagnazione, che è una crescita molto lenta e una crescente disoccupazione (e sotto-occupazione) e un eccesso di capacità [produttiva]. Perciò il sistema in realtà non collassa, ma poiché la torta non aumenta, affinché il capitale realizzi i suoi profitti e l’accumulazione, deve prendersi fette più grosse della torta, il che significa che tutti gli altri si prendono fette più piccole e dunque aumenta la disuguaglianza. Il sistema si limita in un certo qual modo a tirare avanti e i conflitti si fanno più intensi, ma non c’è un vero crollo. Gar Alperovitz definisce tale situazione economiche una “stagnazione punteggiata”, cioè una crescita lenta, punteggiata da profonde battute d’arresto, forse a cause di scoppi di bolle. Quello che serve è che la gente si renda conto di quanto disastroso sia questo sistema e specialmente se ne rendano conto quelli che stanno davvero ci stanno rimettendo; devono organizzarsi e cominciare a creare qualcosa di molto diverso.

La crisi ecologica rende ovviamente ciò ancor più urgente. Abbiamo solo pochi decenni al massimo in cui risolvere quel problema, oppure perderemo il controllo del cambiamento climatico e la capacità di evitare che il mondo raggiunga un punto critico planetario. Stiamo guardando alla possibilità che se raggiungeremo [un aumento di] due gradi Celsius assisteremo a un cambiamento climatico estremamente pericoloso con ogni genere di conseguenze al punto che le cose probabilmente finiranno oltre la nostra capacità di controllo.

Economicamente e ambientalmente non abbiamo davvero molto spazio di manovra oggi. Abbiamo un sistema che funziona molto miseramente e sta diventando sempre più disuguale; si affida a un arbitraggio globale della manodopera che sfrutta la gente nel sud globale in misura orrenda; sta distruggendo il pianeta come luogo di abitazione umana. Assistiamo a crisi materiali che si sovrappongono e non possiamo più pensare soltanto in termini economici.

 

Solo per chiarire quello che stai dicendo: tu non vedi un crollo classico del sistema capitalista in termini di pura economia, ma vedi un genuino potenziale perché un sistema economico totalmente diverso lo sostituisca?

Il potenziale naturalmente c’è. Negli Stati Uniti quasi tutto quello che produciamo è una forma di spreco. C’è pochissimo di ciò che produciamo che sia effettivamente utile agli esseri umani; una percentuale molto, molto ridotta della produzione ha a che fare con veri valori d’uso. E abbiamo il potenziale di riorganizzare l’economia per soddisfare i bisogni delle persone e ridurre tutti questi sprechi, ma dobbiamo deciderci a farlo. Spendiamo un trilione di dollari l’anno, parlando in termini prudenziali, in marketing negli Stati Uniti, semplicemente convincendo ogni anno la gente a comprare cose che non vuole realmente. E quello che produciamo in conseguenza di ciò è anch’esso prevalentemente spreco. In conseguenza abbiamo i mezzi per migliorare le vite delle persone anche restringendo l’economia.

Abbiamo la capacità di risolvere questi problemi, ma solo se siamo disponibili a cambiare fondamentalmente le nostre relazioni sociali. E’ anche un’effettiva necessità, poiché se continueremo sulla stessa via molto più a lungo, in termini ecologici precipiteremo nel burrone. In termini economici le persone non stanno neppure molto bene. Abbiamo semplicemente bisogno di un tipo diverso di società e dobbiamo cercare di costruirlo; non c’è un piano.

 

E non si tratterebbe di una società basata sulla crescita economica continua?

Esatto. Non può essere un sistema mirato a una crescita economica esponenziale. Sai, il termine crescita è oggi così distorto che la gente pensa sia principalmente un termine economico. Ma nell’economia classica il termine crescita non era neppure usato. E naturalmente tutti credono nella crescita, è per questo che si tratta di una metafora così gradevole; ma crescere cosa? Quella che misuriamo come crescita economica nella società odierna è spesso qualcosa di negativo; dovremmo sottrarre quello che in realtà sommiamo. Ad esempio, se c’è una perdita di petrolio finiamo per sommarla al PIL, non sottrarla. Tutti i costi di ripulitura e i costi delle cause legali aumentano il PIL. Non c’è sottrazione, dunque, per le perdite ambientali, le perdite del benessere, o per qualsiasi altra cosa. E questa è una grossa parte del problema.

Consideriamo i fenomeni crescita fintanto che qualcosa passa nel mercato, di qualsiasi cosa si tratti. E per contro ciò che non passa attraverso il mercato (come le tartarughe marine che stanno rapidamente finendo per estinguersi) non ha valore. La loro perdita è semplicemente una “esternalità”, di nessun significato reale per l’economia o la crescita. Ma non possiamo più permetterci di affrontare le cose in questo modo, perché ciò significa un sistema che è interessato unicamente a una sola cosa, ed è la produzione di profitti per il vertice, indipendentemente da ciò che in realtà produciamo o dal danno che stiamo infliggendo al pianeta e alla società globale. Non possiamo permetterci una prospettiva così rozza in un mondo che è così limitato, in cui ci sono reali limiti planetari. Inoltre, nonostante l’enfasi sulla “crescita” economica astratta, quelli al vertice non sono neppure più in grado di promettere alla popolazione delle ‘ricadute dall’alto’. Non c’è alcun reale beneficio economico per la maggioranza delle persone dall’odierno schema di accumulazione. Tutto quello che possiamo fare in questo sistema mirato all’accumulazione infinita del capitale è distruggere l’ambiente e le nostre vite.

 

Il significato di questo per la socialdemocrazia

La socialdemocrazia ha cercato di operare all’interno del sistema capitalista ma ridistribuendo più equamente i suoi frutti e, in realtà, cercando di farlo funzionare in modo più efficiente. Dunque dove lascia la socialdemocrazia e partiti come quello laburista l’attuale crisi del capitalismo?
Beh, penso che la socialdemocrazia nel senso tradizionale sia davvero in una situazione impossibile oggi. Innanzitutto l’idea consisteva nel promuovere la crescita e ridistribuirla, ma non c’è alcun modo per promuovere decisamente la crescita. Si potrebbe avere un’espansione di tipo keynesiano per un breve periodo, e sarebbe probabilmente una cosa buona, considerata la crisi attuale. Ma il problema è che abbiamo ora un sistema altamente finanziarizzato, per non parlare della sua globalizzazione, dunque abbiamo un sistema che è dominato dal capitalismo finanziario monopolistico e la vecchia strategia keynesiana non funziona in tale contesto, perché tale strategia va contro gli interessi finanziari che dominano realmente il sistema. Keynes sosteneva l’eutanasia del rentier [chi vive di rendita]. I rentier di oggi hanno preteso l’eutanasia del keynesismo. Non c’è altro modo al presente per espandere il sistema che sia accettabile all’élite del potere finanziario se non quello di promuovere la finanziarizzazione, che accresce anche il potere dell’élite del potere finanziario.

Negli Stati Uniti naturalmente noi continuiamo ad affidarci pesantemente alla spesa militare, abbiamo una storia di keynesismo militare; anche voi. Gli Stati Uniti in realtà spendono un trilione di dollari per l’esercito. Facciamo questo anziché promuovere una spesa governativa civile. Anche basandosi sui dati ufficiali, gli Stati Uniti spendono per l’esercito quanto tutti gli altri paesi del mondo messi insieme, ma questo non è più uno stimolo sufficiente.

Le politiche socialdemocratiche sono fondate su una crescita che non esiste più. Sono fondate su un capitalismo industriale che non esiste più o non nello stesso senso. E sono fondate su un sistema più nazionale che globalizzato. Perciò è molto difficile promuovere un qualsiasi genere di politica socialdemocratica oggi. La politica socialdemocratica ha sempre avuto le sue contraddizioni a causa del suo compromesso con il capitalismo, che è stato problematico sin dall’inizio. Il capitale ha sempre conservato il potere sociale complessivo. Ma oggi le cose sono più complicate. Siamo ora in una fase non tanto di capitale monopolistico, nella quale capitale e lavoro erano in grado di negoziare in una certa misura, bensì in una fase di capitale finanziario monopolistico, in cui il lavoro è messo al muro. Gli interessi finanziari sono una parte molto più forte del tutto; il settore industriale, particolarmente il lavoro, è più debole; e la produzione è sempre più globalizzata. Penso che probabilmente si potrebbe reinventare la socialdemocrazia. Ma dovrebbe essere un movimento che torni alla gente e mobiliti la popolazione in modi nuovi, segnando cambiamenti radicali, fondamentalmente opposti a ciò per cui si è tradizionalmente schierata la socialdemocrazia. Dovrebbe, in altre parole, diventare più, e non meno, socialista. Deve anche far parte di una strategia più internazionale, che comporti alleanze sindacali internazionali. La socialdemocrazia è nata dal movimento socialista; ora deve tornare al socialismo genuino che ha abbandonato. Naturalmente un altro modo per dire questo è: la socialdemocrazia è morta, lunga vita al socialismo.

 

Tu sei stato amico di Ralph Miliband. Quale consiglio pensi vorrebbe dare oggi a Ed Miliband?

E’ una domanda difficile. Non ho conosciuto Ralph davvero bene; l’ho incontrato molte volte ma ero così più giovane di lui che non era qualcosa di simile a un rapporto alla pari. Mi ha incoraggiato. Ho scritto per il Social Register quando lui era direttore. E lo ricordo come il direttore più duro (nel senso buono) con il quale mi sia mai confrontato. Era davvero uno studioso serio. Era forte nello sradicare le conclusioni illogiche. Scrissi un articolo sul pragmatismo liberale e la sinistra statunitense, basato su C. Wright Mills e l’idea di Mills sul vocabolario dei motivi e il realismo fuori di testa (Foster, 1990). La tesi era che se la sinistra adottava in continuazione i temi o il vocabolario tematico dei modi liberali di pensare al fine di presentare le proprie idee, alla fine avrebbe perso la sua presa sulla realtà e la sua capacità di essere rispondente alla popolazione. Avevo ogni sorta di esempi, come l’uso comune da parte della sinistra del concetto di “contratto sociale” tra capitale e lavoro, che nei fatti a malapena esisteva. A Ralph la mia argomentazione piacque.

Penso che la sinistra abbia avuto a lungo di fronte questo problema del pragmatismo liberale, annacquando le proprie idee per conformarle alla visione dominante al punto da non essere più in grado di sviluppare un orientamento strategico. C’è stato un lungo attrito riguardo alle idee critiche e una specie di lunga marcia all’indietro verso il liberalismo. Oggi i socialdemocratici sono fondamentalmente nella posizione dei Liberali con la L maiuscola, di vecchio stampo, e che abbiano perso di vista le idee più radicali e i collegamenti con i sindacati e i lavoratori, e così via, che erano così vitali nelle loro origini. In qualche modo devono tornare a ciò, a quelle radici, ma farlo in un modo nuovo.

Ralph era famoso, naturalmente, per i suoi dibattiti sullo stato. Era solito sostenere, in opere come ‘The State in Capitalist Society’ [Lo stato nella società capitalista] che la relativa autonomia dello stato capitalista dalla classe capitalista o dalla plutocrazia del mondo attuale non era molto grande, il che significava una lotta sociale più dura. Altri, come Nicos Poulantzas, (con il quale era principalmente in contrasto) sostenevano che c’era molta maggiore autonomia relativa e che si poteva avere un movimento euro-socialista o euro-comunista che se fosse riuscito a conquistare il potere poteva efficacemente cambiare le cose mantenendosi all’interno delle regole esistenti. Mi sembra che nei termini di questo dibattito Ed Miliband sia più vicino al modo di pensare di Poulantzas che a quello di suo padre, o che tale sia stato il suo atteggiamento sinora. Il Partito Laburista in realtà può avanzare in un modo solo e cioè arruolando la popolazione come forza nella società, mobilitandola in termini di un nuovo progetto sociale, esattamente quello che il padre di Ed Miliband avrebbe raccomandato. In altre parole quale che sia l’autonomia relativa per lo stato per promuovere il cambiamento sociale nel capitalismo essa richiede una forte lotta sociale/di classe su base più extraparlamentare che parlamentare e la creazione di un progetto sociale interamente nuovo. Questo è sempre stato il rompicapo di quello che Ralph chiamava il “socialismo parlamentare”. (Per inciso, la Monthly Review Press pubblicò il libro di Ralph con quel titolo negli Stati Uniti).

 

Diresti che esiste un periodo precedente di dibattito nella sinistra che i socialdemocratici contemporanei potrebbero tornare a rileggersi, per cercare di scoprire qualcosa per rilanciare la socialdemocrazia come descrivi qui?

I dibattiti nella sinistra britannica in quest’area sono stati un tempo molto significativi: i dibattiti sulla democrazia parlamentare, i dibattiti sullo stato. Tutto questo è stato dimenticato. Suggerirei di leggere quelli che erano stati classificati, come Ralph Miliband, teorici strumentalisti, teorici che ritenevano che lo stato fosse attualmente principalmente lo strumento della classe capitalista. Abbiamo bisogno di questa conoscenza più profonda per sviluppare una strategia sofisticata stato-società che affronti il potere sociale del capitale. La versione strategica più potente del cambiamento mai presentata la Partito Laburista britannico penso sia stata quella di Michal Kalecki nel suo saggio del 1942 “The Essentials for Democratic Planning” [Fondamenti della pianificazione democratica], che fu scritto per Labor Discussion Notes (ristampato in Kalecki, 1986). Ho scritto al riguardo in un articolo in imminente uscita sulla Monthly Review (Foster, 2013). La situazione è cambiata ma l’idea di Kalecki circa la strategia politico-economica è tuttora inestimabile.
La domanda è: come si recluta la popolazione come forza, come si rinvigorisce la gente, come le si dà un progetto sociale che sia sviluppato dal basso, che ottenga il suo sostegno? Guarda al Venezuela. Ovviamente la situazione è molto diversa, ma sono molto in gamba nell’assicurarsi il sostegno della massa della popolazione mediante progetti sociali a livello della base, dandole la sensazione che possa fare qualcosa per cambiare la propria società. Se non si fa questo non è possibile avere nessuna forza a sinistra per il cambiamento politico.

 

La mia domanda finale prosegue il mio interesse qui per la socialdemocrazia e la sua storia passata. Una delle cose cui sono particolarmente interessato è il contrasto tra il Capitale Monopolistico, come nel libro scritto da Paul Sweezy e Paul Baran (1968) e il Supercapitalismo, il libro del 2007 di Robert Reich. Reich descrive il periodo post-bellico come “non esattamente l’età dell’oro” e sostiene la tesi che fu in realtà il capitalismo monopolistico a rendere possibile alle imprese giganti, che si sentivano isolate dalla concorrenza, di fare accordi con i sindacati che assegnarono ai lavoratori quote maggiori della ricchezza. Mi chiedo cosa pensi della tesi e quale rilevanza, se c’è, abbia oggi.

Robert Reich è molto in gamba e sinceramente interessato al lavoro. Ma la sua tesi, nel suo complesso, come io la capisco, mi colpisce come sbagliata. E’ basata sull’idea molto comune nei circoli liberali che in qualche modo possiamo tornare all’”età dell’oro” (o, come la chiama lui, all’”età non tanto d’oro”) e che ciò si basi su qualche genere di corporativismo, o su quello che lui chiama “capitalismo democratico”, in cui grandi aziende e grandi sindacati si mettono insieme. In quest’ottica è stato promosso il fordismo, c’è stato un contratto sociale, eccetera eccetera. Penso sia semplicemente una lettura errata della storia. La prosperità successiva alla Seconda Guerra Mondiale fu un risultato storico molto speciale, derivante dalla guerra, dal maccartismo, dalla Guerra Fredda, eccetera. Considerare tale periodo come il trionfo del capitalismo democratico, che in qualche modo dobbiamo recuperare, significa interpretare male, penso, sia il passato sia, ancor più, quanto è possibile nel presente. E’ vero che il capitale monopolistico raggiunse un limitatissimo accordo con il grande sindacato nel contesto della Guerra Fredda, del militarismo, dell’imperialismo, della lotta contro l’Unione Sovietica, della distruzione dei sindacati radicali, ecc.. Ma quella fu una storia complessa. Fu anche un periodo che portò direttamente sulla via della sconfitta definitiva del sindacato negli Stati Uniti. Non c’è alcuna possibilità di un nuovo capitalismo democratico o corporativismo oggi, in un contesto in cui solo circa l’11% dei lavoratori è sindacalizzato, e per la maggior parte nel settore pubblico; in cui il 14,4 per cento della forza lavoro vuole, ma non può, avere un lavoro a tempo pieno; e in cui il potere del sindacato nello stato si è ridotto quasi a nulla. Reich ha certamente ragione nell’affermare che viviamo in un mondo capitalista più feroce (per quanto riguarda gli stessi lavoratori statunitensi) che negli anni ’50 e ’60. Tuttavia non è un qualche genere di supercapitalismo (o di neoliberismo) che è il problema, né l’abbandono del capitalismo democratico. Il problema sta, piuttosto, nel capitalismo stesso, che si è necessariamente evoluto in tale direzione. Inoltre non è un mondo di competizione sfrenata, bensì di un maggiore controllo monopolistico globale in un sistema fortemente finanziarizzato e globalizzato.

Le entrate delle prime duecento imprese statunitensi rappresentano più del trenta per cento di tutti i profitti lordi dell’economia statunitense e ci sono milioni di aziende nell’economia, dunque c’è un sistema fortemente concentrato. Ma il sindacato si è ridotto quasi all’inesistenza. Certamente sarebbe una gran cosa ricostruire il movimento sindacale, ma si dovrebbe combattere il capitale imprenditoriale per tutto il percorso; non ci sarà alcuna soluzione corporativa. Il socialismo è l’unica risposta. Ma non c’è una via regia al socialismo genuino. Richiede quella che Raymond Williams (1961) soleva chiamare una “lunga rivoluzione”.

 

John Bellamy Foster è professore di sociologia all’Università dell’Oregon e direttore della Monthly Review. Bill Blackwater è direttore associato di Renewal. Questa intervista apparirà su Renewal 21.1 (2013).

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/crises-of-capitalism-and-social-democracy-by-john-bellamy-foster


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