L’ex Ministro Fornero ha recentemente dichiarato che gli italiani lavorano poco e male, e che la bassa crescita della nostra economia dipende anche da questo. La dichiarazione merita di essere commentata perché esplicita una convinzione diffusa, spesso declinata in modo meno drastico.
Non vi è dubbio che uno dei principali problemi dell’economia italiana, se non il principale problema, riguarda il basso tasso di crescita economica, a sua volta in larga misura imputabile alla bassa (e declinante) produttività del lavoro. Vi sono molti dubbi, invece, sulla diagnosi dominante e sulle conseguenti prescrizioni di politica economica. Occorre innanzitutto chiarire che, su fonte OCSE, le ore lavorate in Italia non sono inferiori a quelle erogate nei principali Paesi industrializzati. E’ dunque falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora poco. E’ semmai vero non che gli italiani lavorano poco, ma che sempre meno italiani lavorano. E’ anche falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora “male”, ovvero è basso il rendimento dei lavoratori occupati. Vediamo perché.
La produttività del lavoro dipende fondamentalmente da tre variabili: il capitale fisso di cui il lavoratore dispone, il suo “capitale umano” (derivante dal learning by schooling e dal learning by doing), la sua motivazione al lavoro. La politica del lavoro – in questi ultimi anni – ha provato ad agire quasi esclusivamente su quest’ultima variabile, anche per impulso dell’ex Ministro. Sono state implementate misure di crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo di incentivare l’impegno lavorativo, ponendo i lavoratori nella condizione di erogare il massimo rendimento per accrescere la probabilità di rinnovo del contratto. Sono state introdotte misure di detassazione del salario, ispirate all’idea secondo la quale i lavoratori sono incentivati a fornire maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni. E’ una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di revisione del modello di relazioni industriali, che intende andare (e, di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione “atomistica”, nella quale il singolo lavoratore – con la minima “interferenza” delle organizzazioni sindacali – contratta direttamente con il proprio datore di lavoro. Ed è una logica che viene legittimata con la convinzione – tutta da dimostrare- che possa esistere una flessibilità “buona”, contrapposta, va da sé, a una “cattiva”.
Quali sono stati gli esiti? Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati ed è in continuo declino da almeno un decennio. La ragione fondamentale che spiega questo fenomeno è da ricercarsi, semmai, nella bassa (e declinante) accumulazione di capitale, non nello scarso rendimento dei lavoratori italiani. Se fosse vera la seconda ipotesi, infatti, ci troveremmo in una condizione nella quale, con un alto tasso di disoccupazione e ampia discrezionalità dei licenziamenti, la produttività dovrebbe risultare elevata, per l’elevata credibilità della “minaccia di licenziamento”. Per contro, è proprio una condizione di elevata (e crescente) disoccupazione – e di elevata (e crescente) precarizzazione del lavoro – a generare cali di produttività. Ciò accade per l’operare di questo meccanismo. Le nostre imprese, fatte salve poche eccezioni, esprimono una bassa propensione all’innovazione, dal momento che, nella gran parte dei casi, sono imprese di piccole dimensioni con una specializzazione produttiva in settori “maturi”. A fronte del fatto che è, questo, ormai un dato strutturale, il problema viene accentuato dalle politiche messe in atto negli ultimi anni. In particolare:
1) Le politiche di contrazione della spesa pubblica (e di aumento dell’imposizione fiscale) hanno ridotto i profitti e peggiorato le aspettative imprenditoriali, soprattutto a danno delle imprese che operano su mercati interni, di norma, imprese di piccole dimensioni. A ciò ha fatto seguito minore propensione a investire, e anche minore possibilità di investire, dal momento che riducendosi i profitti si sono ridotti i fondi per l’autofinanziamento degli investimenti. La riduzione degli investimenti, a sua volta, ha accresciuto il grado di obsolescenza del capitale e, in quanto la produttività del lavoro dipende fondamentalmente dalla quantità e dalla qualità di capitale di cui ciascun lavoratore dispone, ciò si è tradotto in cali di produttività. Con disoccupazione in aumento e produttività in declino, è ovvio che il tasso di crescita si sia significativamente ridotto: in altri termini, come efficacemente messo in evidenza sul piano empirico, la produttività del lavoro si riduce al ridursi della domanda aggregata (link).
Si badi che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi già a partire dagli anni ottanta, cioè proprio dalla c.d. svolta neo-liberista (link) e dalla prima fase della c.d. globalizzazione (link).
L’evidenza empirica mostra che la produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale.
Si badi che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi già a partire dagli anni ottanta, cioè proprio dalla c.d. svolta neo-liberista (link) e dalla prima fase della c.d. globalizzazione (link).
L’evidenza empirica mostra che la produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale.
2) L’accelerazione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro ha ulteriormente contribuito al declino della produttività del lavoro. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – soprattutto in una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, con scarsa propensione all’innovazione e poco internazionalizzate – normative che facilitano l’uso flessibile della forza-lavoro costituiscono un potente incentivo, per le imprese, a cercare di recuperare competitività mediante la compressione dei costi. In altri termini, le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro disincentivano le innovazioni e, per conseguenza, si associano a un basso tasso di crescita della produttività. D’altra parte, la precarizzazione del lavoro – accrescendo l’incertezza in ordine al rinnovo del contratto – si associa a una riduzione della propensione media al consumo, con effetti negativi sulla domanda aggregata interna. E, anche per questa via, agisce negativamente sul tasso di crescita.
Per il Presidente del Consiglio “in una fase straordinaria come questa, serve un po’ meno rigidità” dei contratti di lavoro. Quando pressoché tutta l’evidenza empirica disponibile almeno a partire dal Rapporto OCSE 2008 (link) mostra inequivocabilmente che la precarizzazione del lavoro riduce l’occupazione, riduce i salari, riduce la produttività e il tasso di crescita (link); quando si mostra che non ha neppure effetti significativi sull’attrazione di investimenti (né sui processi di delocalizzazione delle imprese italiane), viene da chiedersi – e da chiedere a chi ancora confida sull’efficacia di queste misure – quali possano essere gli effetti macroeconomici di segno positivo derivanti dalla loro reiterazione.
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