mercoledì 12 giugno 2013

M5S, più che politica la questione si fa psicoanalitica di Antonello Caporale, Il Fatto Quotidiano

La furia dissolutoria ha sempre a che fare un po’ con la psicanalisi, con l’autocoscienza, con i pensieri cattivi che popolano la nostra mente e ci fanno sentire come mostruosa la fatica di vivere, coabitare in questo mondo. Le vicende del Movimento a cinque stelle obbligano a indagare oltre il campo di una incredibile insipienza politica. Io non penso che il Movimento sia destinato a una tragica e repentina scomparsa, e ritengo anzi che il largo seguito abbia incanalato energie vitali, producendo per una democrazia ammalata una rivolta salutare, un gancio dove la disperazione potesse appendersi e sperare. Sperare che qualcosa cambiasse finalmente. Piccola o grande, ma qualcosa doveva cambiare. E se in tv vedo quanta gente resiste in piazza, si accalca al palco dove Beppe Grillo parla mi convinco che questo Movimento sia destinato a durare, ad esistere oltre i propri errori. Tra il deserto che popola i circoli degli altri partiti e la folla che popola questo movimento in un modo forse caotico, spesso inconcludente, prediligo questa seconda scena. Quel che non comprendo al pari di molti di voi è come sia stato possibile inanellare in tre mesi una cifra così alta di errori. E’ vero, gestire un consenso così alto essendo alle prime armi è una fatica di Sisifo, e gestirlo avendo contro il resto del mondo (media compresi) rende ancora più vano il tentativo di rispondere a una domanda così impellente di cambiamento. E comprendo che affrontare come prima prova l’elezione del presidente della Repubblica, con le furbizie, le menzogne e i trabocchetti che si porta dietro, è una gara persa in partenza. Comprendo lo straniamento degli eletti stretti da un mandato popolare che esigeva rottura e una richiesta di cambiamento che esigeva mediazione. Ogni scelta sarebbe parsa come un tradimento. 
Quel che non capisco – anzi che proprio non si capisce – è la mostruosa capacità di farsi del male, dichiararsi unfit, inutili, inadeguati, incompetenti anche quando davanti a sé vi erano questioni semplici che imponevano una soluzione semplice. Tre settimane di passione per decidere cosa fare della diaria, se darla via, intascarla, sospenderla. Bastava l’uso di una dose minima di intelligenza: se 2500 euro mensili non sono sufficienti per condurre una vita doppia (due case, due città etc), ciascuno prende dalla diaria ciò che ritiene necessario. Se ne fissava un tetto (mille, duemila euro mensili?) e il resto sarebbe stato bonificato al gruppo parlamentare. Ogni mese il conto corrente del gruppo avrebbe mostrato la cifra dei risparmi, che era ed è senso dello Stato, rigore, coerenza, moralità. Ogni mese il movimento avrebbe potuto destinare circa duecentomila euro a campagne simboliche ma di grande impatto. In politica i simboli sono tutto, e quei soldi, anche se spiccioli rispetto al mare dei bisogni e delle attese, avrebbero aiutato a condurre le proprie battaglie e gli altri partiti a mostrare di essere all’altezza della domanda di moralità. Consegnare in aprile, faccio un esempio, quei soldi alla lotta per la scuola pubblica, magari finanziando cinquanta borse di ricerca,  avrebbe obbligato tutti a riflettere su un bene comune così essenziale. Distribuendo in maggio la medesima somma a dieci artigiani in crisi si sarebbe obbligato il Parlamento a decidere misure efficaci e straordinarie, invece che mostrarsi solo parolaio. Sistemare in giugno una piazzetta, dieci mura scrostate in una città degradata, sarebbe valso a consegnare a noi tutti i costi dello spreco, dell’ignavia. Sono idee banali, e magari ne esistono di migliori, ma proprio perché la questione era così modesta, non mi capacito del fatto che non si sia fatto capire un’acca di quei soldi e di quel problema: se intascano o non intascano anche la diaria, a chi la danno, quando e perché.
E non mi capacito del fatto che un movimento così disomogeneo, transpolitico, affastellato secondo biografie improvvisate, avesse bisogno di una cura, un governo più presente, meglio definito. Guidarlo col megafono, a furia di post e di strilli, di maleparole, di aut aut, è il peggio del peggio possibile. Se i 5 stelle devono tutto a Grillo, Grillo ha con i suoi eletti un dovere di confronto, un obbligo di rendicontazione delle sue idee. Se sono deputato non devo scoprire da internet cosa fare e non fare. Se andare in tv o non andarci. Se posso dire buongiorno a un giornalista oppure, come un ebete, sorridergli e avanzare muto. Se il mondo è fatto solo di traditori o anche di gente perbene, se gli incapaci esistono dappertutto o solo dalle parti degli altri. Il confronto sarebbe servito anche a Grillo, a chiarirsi le idee, perché certo le ha nebulose e fragili, a capire cosa non va. Ma sembra tutto inutile: lui parla da Genova o dalle piazze, Casaleggio opera da Milano, e questi altri a Roma stanno accovacciati, spaesati e irrilevanti persino alla loro stessa vita. Ogni giorno una vocina di contestazione si alza e non c’è scampo: fuori! Perciò, più che politica, la questione si fa psicanalitica.

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