Seminario: E’ possibile un’Europa più giusta e solidale? Promosso dal Comitato Roma XII per Tsipras, coordinato da Sandro De Toni. Relatori: Giulio Marcon, Mario Pianta, Bruno Steri
Come abbiamo constatato sin dalle prime riunioni di questo Comitato, la campagna elettorale in cui siamo impegnati è tutt’altro che semplice. Abbiamo il compito di introdurre ragionamenti e chiarificazioni su tematiche ostiche, contrastando opposte semplificazioni. I salotti televisivi dedicati alle prossime europee confermano in particolare le insidie provenienti dalle destre, i cui esponenti riprendono in una forma semplificata concetti, spunti analitici che noi da tempo utilizziamo contro l’ispirazione e le politiche di questa Unione Europea; e li piegano a conclusioni inaccettabili, nazional-populiste e regressive. Penso che, in un tale contesto, la cosa peggiore che potremmo fare è assecondare una tendenza a essere dipinti come dei critici moderati , dei cauti riformatori che nei confronti di questa Europa dell’ austerity esprimono tutto sommato una contestazione soft . Al contrario, penso che la nostra critica debba essere netta, nei contenuti e nei toni. Dalla nostra propaganda elettorale deve cioè risultare chiaro che o si cambia radicalmente rotta o si va a sbattere : la crescita degli euro-scettici sta lì a dimostrarlo.
Quale principio di solidarietà?
Si deve muovere dalla constatazione di un dato, non dunque un punto che è in discussione ma un dato di fatto: secondo quanto dicono le stesse rilevazioni ufficiali, è in atto una tendenza involutiva che, anziché integrare progressivamente i Paesi membri dell’Unione, sta distanziando le loro economie. Si tratta di un’incipiente divaricazione che è registrata persino nel lessico in uso, dove si distingue tra Paesi “periferici” (sempre più deboli) e Paesi centrali (sempre più forti). Una tendenza che, oltre ad essere pesantemente iniqua dal punto di vista dei diritti sociali e dell’eguaglianza (tra cittadini, tra popoli), espone di fatto la compagine europea al rischio dell’implosione. Occorre dire chiaramente che quelli che sabotano il progetto europeo non sono coloro che si oppongono a questa Europa, ma coloro che hanno sin qui elaborato e applicato le sue politiche demenziali e antipopolari. E’ stata costruita un’Europa di ispirazione liberista, alla cui base non riesce a emergere un vero e proprio principio di solidarietà (intendo ciò non semplicemente in un’accezione etica, ma anche e soprattutto in riferimento al mantenimento di una soglia di omogeneità, un livello minimo di coesione al di sotto del quale una comunità non regge). Se la regione di un qualsiasi Stato, che sia di assetto federale o non – poniamo, l’Abruzzo italiano o la California statunitense – dovesse precipitare in una temporanea ancorché profonda crisi economico-sociale, o anche fosse teatro di imprevedibili e catastrofici eventi naturali, dovrebbe comunque poter godere di immediati trasferimenti di risorse finanziarie da parte del centro statuale: gli addetti pubblici dovrebbero continuare ad esser pagati perché i servizi dovrebbero continuare ad assicurare le loro provvidenze, i lavoratori privati dovrebbero poter usufruire di una retribuzione di mantenimento in caso di arresto della produzione aziendale, il territorio in questione dovrebbe godere di una fiscalità di vantaggio così da compensare il decremento dei redditi con un corrispondente decremento delle tasse, e così via. Nulla di strano: si tratta di riequilibri automatici, tipici di un assetto politico-istituzionale normale . Non così per l’Unione europea. Dove non solo non c’è nulla di tutto questo; c’è stato anzi l’opposto. Basta vedere il trattamento riservato alla Grecia: i cosiddetti (tardivi) “aiuti” concessi da Bruxelles sono serviti a sanare i debiti contratti col sistema bancario europeo, essendo peraltro sottoposti a vincoli (i famigerati aggiustamenti strutturali) che hanno devastato le condizioni di vita del popolo greco (al punto da rendere irraggiungibile perfino l’acquisto di farmaci salva-vita da chi ne aveva urgente bisogno).
“ Tenere i conti in ordine”?
Il fatto è che, in luogo del suddetto principio di solidarietà, si è preferito seguire fedelmente e prescrivere tassativamente ricette in linea con il seguente orientamento: per aspirare ad una condizione di prosperità e al fine di ottenere la fiducia dei mercati, occorre tenere i conti in ordine (con il sottinteso che c’è chi lo fa, gli eurovirtuosi, e chi no, gli eurospendaccioni). Si tratta di un orientamento che, per un verso, semplifica e omette di dire cose essenziali; per altro verso, si presta a qualche imbroglio di troppo. In primo luogo, bisogna infatti specificare che, se con la formulazione “tenere i conti in ordine” si allude alle misure che vanno sotto il nome di “politiche di austerità”, non si può allora tacere del secco fallimento delle stesse. Non è vero che l’austerità serva a tenere i conti in ordine. E’ la storia di questi ultimi quattro anni a dimostrarlo: quella del nostro Paese – dall’ultimo Berlusconi, attraverso Monti, fino ai nostri giorni – in modo eclatante. Non c’è uno, tra i parametri della nostra economia ritenuti fondamentali, che non sia vistosamente peggiorato: dal debito in valore assoluto al famigerato rapporto debito/Pil, dal medesimo Pil al tasso di disoccupazione. Come è stato giustamente sottolineato da chi è intervenuto prima di me, non c’è di che stupirsi. Infatti, se si taglia la spesa pubblica per stare dentro i parametri imposti dai patti europei – dunque se la si taglia in termini consistenti (previdenza, sanità, stipendi pubblici) e non solo attraverso comprensibili ma insufficienti risparmi via spending review – si deprimono i redditi; conseguentemente la domanda cala, la macchina produttiva non si riavvia e la crisi perdura. In definitiva, una tale sequela rende ancor più precaria la solvibilità del Paese, avendo come esito finale l’incremento del fatidico rapporto debito/Pil (cioè esattamente quel rapporto che, all’opposto, si intendeva ridimensionare). E’ la fallimentare strada percorsa in questi anni e che lo stesso Renzi continua a percorrere, accreditando peraltro una missione impossibile: riguadagnare al Paese margini di crescita e giustizia sociale e, al contempo, confermare il rispetto dei draconiani patti europei (a cominciare dal fiscal compact ).
Il vangelo del pareggio di bilancio
Dunque è appurato che, lungo il filo conduttore delle politiche d’austerità, la formula del “tenere i conti in ordine” ha come risultato paradossale il peggioramento dei conti. Ma, in secondo luogo, siamo poi sicuri che tale formula sia di per sé così auspicabile? In realtà, essa include più di un imbroglio. A cominciare dal vangelo del pareggio di bilancio , sua esemplare concretizzazione. In effetti, chi è più ammirevole di un padre di famiglia che tiene il bilancio familiare in ordine? E’ per lui del tutto naturale far quadrare i conti e evitare di fare il passo più lungo della gamba. Peccato però che il paragone sia fallace: quel che vale per una famiglia non vale per uno Stato. Il quale non solo può, ma anzi in circostanze date deve spendere al di là dell’equilibrio dei conti (o, come si dice, in deficit spending ). Come ci ricorda la lezione di un economista borghese intelligente, John Mainard Keynes, non è vero che il risparmio è sempre buono e la spesa sempre cattiva. Non vale per la sfera pubblica, a maggior ragione in tempi di crisi, quando la propensione dei privati all’investimento latita e uno Stato democratico ha il compito di promuovere la crescita e la buona occupazione, riducendo altresì i dislivelli di reddito. La grancassa propagandistica liberista, oltre a mettere definitivamente alla berlina Karl Marx, ha indotto a gettare nel dimenticatoio anche i fondamentali della tradizione keynesiana: stupisce che nel nostro Paese un tale regressivo orientamento sia stato adottato dallo stesso Partito Democratico, il quale – più realista del re – ha addirittura inserito il pareggio di bilancio (e dunque il divieto per lo Stato di operare in deficit) nella Costituzione, stravolgendone in questo modo l’ispirazione di fondo. Così divengono inoperanti, ad esempio, i suggerimenti keynesiani di un altro acuto economista, Abba Lerner, il quale annotava che esistono spese cattive e spese buone, che cioè è bene distinguere le spese che dissipano risorse da quelle che muovono ricchezza e redditi e preparano, moltiplicandolo, un ritorno positivo: per cui importante non è l’entità complessiva della spesa, ma la sua composizione.
“ whatever it takes”
A smentita del suo apparente buon senso, la formula dei “conti in ordine” nasconde un’ulteriore fallacia. Quante volte abbiamo ascoltato in televisione il predicatore di turno ammonire che, per guadagnare la benevolenza dei cosiddetti mercati, occorre appunto mantenere i conti dello Stato in ordine! Anche questa pretesa ovvietà è stata clamorosamente falsificata dalla storia recente. Infatti, cos’è che di colpo ha frenato e poi invertito la tendenza al rialzo del differenziale tra gli interessi pagati dai titoli di stato italiani e quelli garantiti dai bond tedeschi (il famigerato spread )? Non certo il miglioramento dei nostri conti che, al contrario, hanno continuato a peggiorare. La corsa dello spread, che appariva fin lì inarrestabile, si è fermata non appena – a luglio del 2011 – il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha pronunciato la fatale sentenza: “La Bce farà tutto quello che è necessario ( whatever it takes ) per salvare l’euro”. Come d’incanto, da quel momento lo spread ha preso a ridiscendere. Ciò ha dimostrato che l’impennata speculativa non concerneva tanto i nostri conti e il nostro debito come tali, quanto piuttosto i loro effetti sull’euro e la tenuta complessiva dell’Unione europea. Non appena dalla Bce è arrivato l’annuncio di un minimo di garanzia (la possibilità di acquisto sul mercato secondario da parte della Banca Centrale Europea di titoli dei Paesi in difficoltà e la costituzione del cosiddetto Fondo “salva-stati”), ad evitare che la crisi di un singolo membro Ue potesse mandare a gambe all’aria l’euro e con esso l’Unione e il suo mercato unico, la sete speculativa si è placata.
Interessi di classe
Abbiamo sin qui menzionato alcune delle evidenti contraddizioni in cui è andata a infilarsi l’impostazione liberista delle politiche europee, con il connesso dogma dell’austerità. C’è da chiedersi a questo punto: ma a cosa dobbiamo tanta ostinazione, una tale pervicacia nel rifiutare di prendere atto dei ripetuti fallimenti? La risposta in fondo non è così complicata. Non abbiamo certo a che fare con un establishment di sciocchi e ottusi; piuttosto, occorre constatare la forza di un accecamento ideologico (indotto da quello che va sotto il nome di “pensiero unico”), ma soprattutto l’inflessibile e inconfessabile coazione che è dietro un tale accecamento: quella della difesa di determinati interessi di classe, nel contesto di un conflitto intercapitalistico tra capitali nazionali forti e capitali nazionali deboli (fa bene Emiliano Brancaccio a insistere su questo punto). Se si guarda dietro il martellante battage rigorista dei “conti in ordine”, appaiono le “lacrime e sangue” imposte al grosso delle popolazioni europee: è il prezzo richiesto dal capitale finanziario continentale, in nome di una sintesi politica e economica che non prevede spazio per il lavoro, i diritti, l’eguaglianza sociale. Questo è il senso degli annunci epocali via via piovuti dal pulpito di Mario Draghi: l’Europa generosa dispensatrice di provvidenze è al tramonto; entriamo nell’era di un’Europa adeguata ai tempi della globalizzazione capitalistica, quella della Troika e del “pilota automatico” (incaricato di disinnescare gli imprevisti della democrazia e rendere permanente la rotta prescelta). Mentre il contesto europeo continua a favorire i Paesi forti e l’aumento del surplus dei loro conti con l’estero (più esattamente: la remunerazione dei capitali investiti nell’export), i Paesi debitori devono adeguarsi al passo, irrobustendo il loro potenziale competitivo anch’essi attraverso il contenimento del costo del lavoro (leggi: abbassando le retribuzioni reali, liberalizzando il mercato del lavoro, tagliando la spesa sociale e il welfare). Le classi popolari, ovunque dislocate, sono quelle che pagano il conto: davanti alla più grave crisi capitalistica dal 1929 in poi, che si tratti di cittadini tedeschi o greci, francesi o italiani, a stringere la cinta devono essere sempre i soliti noti.
Guardare avanti, oltre i nostri attuali limiti
Questa è l’entità della sfida: l’imminente tornata elettorale va letta alla luce della prospettiva politica generale e dei passi in avanti necessari per mettersi nella condizione di affrontarla. In questa sala vedo riunite le diverse espressioni di quella che è in Italia la sinistra di alternativa. Molti di noi, quando fu inaugurata la moneta unica europea, militavano nello stesso partito, Rifondazione Comunista. Ricorderete che la parola d’ordine con cui ci accostammo a quell’evento fu: Sì all’euro e all’Europa, No a Maastricht. Che una tale sintesi politica includesse una forte dose di contraddittorietà è oggi confermato in termini eclatanti. Ma anche allora percepivamo la difficoltà, i limiti di un progetto politico-istituzionale concepito e gestito per via eminentemente monetaria. Decidemmo comunque di provare: in politica può accadere di trovarsi ad attraversare una contraddizione provando a sostenerla senza esserne schiacciati, di imboccare una strada stretta per tentare di cambiare i rapporti di forza e aprire una prospettiva. Non ce l’abbiamo fatta, questo è chiaro. Ma accettammo comunque la sfida perché ritenevamo ineludibile l’obiettivo di corrispondere alla dimensione continentale ormai richiesta dal conflitto sociale e dalla battaglia politica: una dimensione che la controparte aveva già abbondantemente guadagnato. Oggettivamente, il campo concreto della lotta di classe e delle stesse vertenze locali non era più soltanto quello delimitato dai confini di un Paese: per essere vincenti, occorreva tassativamente conseguire una dimensione che fosse all’altezza dei nuovi conflitti. Fino a qualche mese fa sono stato responsabile Europa del Prc: dunque, non starò qui a dirvi dell’indubbio contributo dato da questo partito alla costituzione di una sinistra europea degna di questo nome. Tuttavia bisogna dire che, nonostante gli sforzi, l’esito non è sufficiente, non siamo ancora adeguati. A questo livello, non c’è una coesione sociale e una soggettività politica davvero in grado di contrastare i processi in corso. Anche a livello sindacale dobbiamo registrare una tale insufficienza. Finalmente nel 2012 la Ces, la Confederazione europea dei sindacati, è riuscita a indire uno sciopero europeo: ma, rispetto a quello che in questi anni sta cadendo sulla testa dei lavoratori e dei popoli del continente, è ancora poca cosa. Occorrerebbe ben altra forza d’urto, con obiettivi programmatici coerenti e comuni e con una mobilitazione dura e coordinata. Diciamocelo senza diplomazie: se c’è un Paese dove si lavora molto di più e si retribuisce molto meno, dove c’è libertà di licenziare, incondizionata o con breve preavviso, dove non esistono tredicesima e trattamento di fine rapporto, dove il dumping fiscale consente una tassazione molto più bassa – ebbene, perché un possessore di capitale intenzionato a operare nel settore produttivo non dovrebbe andare in un tale Paese, vigendo la libera circolazione dei capitali ed essendo l’unico vincolo quello della remunerazione del proprio capitale? Beninteso, non si tratta di ipotesi astratte; Paesi con le suddette caratteristiche esistono e fanno parte dell’Unione europea. Per questo è decisivo costruire una risposta adeguata alla dimensione attuale del conflitto di classe : la prospettiva europea si conquista o si perde anche e soprattutto a questo livello strutturale. Le prossime elezioni possono contribuire a creare le condizioni di partenza per una tale risposta.
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