Slavoj
Zizek è senz’altro un personaggio singolare, acuto, spregiudicato e
senz’altro, filosoficamente, “controverso”. Controverso, nel senso che
nel panorama filosofico attuale i giudizi sullo sloveno sono quanto meno
contrastanti. Chi lo annovera come uno dei più validi e pungenti
critici dell’ideologia del nostro tempo vede nelle sue analisi una
geniale sintesi di psicanalisi strutturalista (Lacan), marxismo (Lukàcs,
Althusser), dialettica idealista (Hegel) e pensiero della differenza e
ripetizione di matrice “postmoderna” (Deleuze, Derrida). Chi lo critica,
anche aspramente, vede le sue opere come ciarle che disinnescano la
critica rendendola una sorta di divertimento colto da “radical chic” di
sinistra in cui si alterna la critica sociale alla decostruzione della
cultura di massa (film, romanzi, ecc.) senza mai giungere a un vero
programma di superameno dell’esistente. Tra i sostenitori di questa tesi
vi è anche Diego Fusaro che però sembra non voler distinguere nella sua
analisi (comparsa in rete pochi mesi fa) del “fenomeno Zizek” gli
aspetti più propriamente speculativi del pensiero dello sloveno dal
“personaggio-Zizek” in quanto tale: infatti a più riprese,
particolarmente nel passato, il “gigante di Lubiana” (così come viene
descritto dalle note sulle copertine delle sue opere) si è lasciato
andare ad interviste in cui, più che la sua carica critica nei confronti
del capitalismo mondiale, ha mostrato l’intenzione di apparire
simpatico (cosa che è indubbiamente), diventando un personaggio pubblico
a tutti gli effetti, oscurando di fatto la cosa più importante, cioè il
suo pensiero,
e attirandosi un’ondata di critiche, spesso ingiustificate, che lo
dipingono come “filosofo-pop” o cose di questo genere, concentrando le
critiche sulle uscite (talvolta senz’altro di dubbio gusto) del
pensatore invece che sulle sue opere mentre un vero grande filosofo,
quale Zizek è, ha il diritto e la dignità di essere criticato sul piano
speculativo, cosa che nemmeno lo stimabilissimo Diego Fusaro ha fatto
nel suo articolo limitandosi ad indicare in Zizek un “disinnescatore”
della critica.
Zizek è un vero grande filosofo, si è detto, e ciò emerge in modo inequivocabile in molteplici delle sue opere le quali, anche qualora non le si condivida, hanno bisogno di una critica che proceda sul piano teoretico (compito per altro laborioso vista la difficoltà e articolatezza del pensiero dello sloveno): dalla recentemente ristampata “In difesa delle cause perse”, a “Vivere alla fine dei tempi”, da lavori meno recenti come “Il soggetto scabroso” a quelli invece usciti pochi mesi fa quale è il testo ora preso in esame: la prima parte della monumentale opera zizekiana “Meno di niente”, dedicata niente meno che a quello che è probabilmente il più influente filosofo metafisico degli ultimi tre secoli, parliamo ovviamente di Hegel.
Questo primo e monumentale volume della bipartita opera dello sloveno muove dal presupposto secondo il quale ci troviamo in “un’epoca molto più hegeliana che marxiana”, nel senso che siamo di fronte a una crisi sistemica che non presenta come soluzione l’emancipazione del genere umano attraverso un soggetto storico privilegiato quale era il proletariato per Marx ma che si mostra come una realtà molto più complessa, di interpretazione non facile in cui è necessario, come Zizek sostiene in “Dalla tragedia alla farsa”, parafrasando Marx, non pensare solamente a trasformare il mondo poiché ora si tratta di reinterpretarlo e proprio Hegel è il pensatore più adatto a questo compito in quanto, più di Marx, riesce a pensare al concetto di Sistema, categoria che oggi più che mai sembra caratterizzare il nostro vivere quotidiano in cui, infatti, la frammentazione degli stili di vita, l’atomizzazione e l’esclusione sociali (molteplici sono i riferimenti alle favelas, alle banlieu, da una parte, e ai nuovi ricchi che vivono isolati dal resto della “plebe”, altro termine chiave del testo in questione, dall’altra) sono “sintomi” perfettamente riconducibili ad un unico sistema, quello del capitalismo globale.
Zizek è un vero grande filosofo, si è detto, e ciò emerge in modo inequivocabile in molteplici delle sue opere le quali, anche qualora non le si condivida, hanno bisogno di una critica che proceda sul piano teoretico (compito per altro laborioso vista la difficoltà e articolatezza del pensiero dello sloveno): dalla recentemente ristampata “In difesa delle cause perse”, a “Vivere alla fine dei tempi”, da lavori meno recenti come “Il soggetto scabroso” a quelli invece usciti pochi mesi fa quale è il testo ora preso in esame: la prima parte della monumentale opera zizekiana “Meno di niente”, dedicata niente meno che a quello che è probabilmente il più influente filosofo metafisico degli ultimi tre secoli, parliamo ovviamente di Hegel.
Questo primo e monumentale volume della bipartita opera dello sloveno muove dal presupposto secondo il quale ci troviamo in “un’epoca molto più hegeliana che marxiana”, nel senso che siamo di fronte a una crisi sistemica che non presenta come soluzione l’emancipazione del genere umano attraverso un soggetto storico privilegiato quale era il proletariato per Marx ma che si mostra come una realtà molto più complessa, di interpretazione non facile in cui è necessario, come Zizek sostiene in “Dalla tragedia alla farsa”, parafrasando Marx, non pensare solamente a trasformare il mondo poiché ora si tratta di reinterpretarlo e proprio Hegel è il pensatore più adatto a questo compito in quanto, più di Marx, riesce a pensare al concetto di Sistema, categoria che oggi più che mai sembra caratterizzare il nostro vivere quotidiano in cui, infatti, la frammentazione degli stili di vita, l’atomizzazione e l’esclusione sociali (molteplici sono i riferimenti alle favelas, alle banlieu, da una parte, e ai nuovi ricchi che vivono isolati dal resto della “plebe”, altro termine chiave del testo in questione, dall’altra) sono “sintomi” perfettamente riconducibili ad un unico sistema, quello del capitalismo globale.
Veniamo allora a un’analisi più dettagliata del testo.
Zizek apre le danze con una impegnativa quanto programmatica affermazione: la cosiddetta rottura post-hegeliana (Nietzsche, Heidegger, Deleuze) mancherebbe in realtà il punto, non riuscirebbe a scardinare il paradigma hegeliano nel profondo, mistificando con una serie di più o meno volute incomprensioni il pensiero hegeliano, restituendone l’interpretazione comunemente diffusa dalle università di un filosofo idealista panlogista, il cui concetto di “Io” inghiottirebbe voracemente tutta la realtà riducendola al Soggetto che giunge così al Sapere Assoluto, concetto interpretato come un delirio di totalizzazione ontologica, come quel sapere che il Soggetto raggiungerebbe assimilando tutto lo scibile umano. Insomma, come direbbe Remo Bodei, siamo di fronte a una interpretazione “manicomiale” dell’idealismo hegeliano. Inizia dunque una dissertazione che si estenderà quasi per tutto il corso del volume atta a reinterpretare il pensiero hegeliano allontanando efficacemente le critiche nate da misinterpretazioni. Per fare ciò Zizek muove dalla fondamentale questione, presente già nell’antichità in Platone, del rapporto fra l’Uno e l’Essere, fra, cioè, il principio (arche) e la realtà costituita dagli enti (onta), questione, questa, che l’ateniese affronta nel “Parmenide” per riformare l’aporetica teoria delle idee messa in discussione dalla “rivoluzione sofistica”. Ovviamente il punto focale attorno a cui ruota il problema platonico è quello della giustificazione teorica del divenire di cui facciamo esperienza: la parola di Parmenide è proprio l’ostacolo che va superato per poter spiegare il mutare degli enti. Per superare tale impasse Platone postula l’esistenza della dimensione dell’“istante”, dimensione in cui il tempo contemporaneamente si annulla e si fonda dando origine al molteplice e al diveniente; questa idea fondamentale dell’istante come elemento fondativo della realtà empirica ha uno statuto ontologico paradossale: si tratta di un quantità “negativa”, di uno Zero inteso non come punto di riferimento “base”, “neutro”, della misurazione ma come termine fondativo del molteplice. Come nella moltiplicazione lo zero matematico risucchia ogni quantità nella nullità allo stesso modo lo Zero ontologico indica, quasi nel modo anassimandreo, l’abisso dell’assoluta dissoluzione delle identità particolari, l’essere puro (quasi hegelianamente concepito) privo di qualsivoglia determinazione, dal quale emergono tutti gli enti particolari e nel quale si dissolvono. Zizek spiega questa dimensione della trascendenza (exaiphnes), che collega la dimensione empirica con quella della perfezione “divina” dell’essere, come la presenza di una “traccia” del puro Essere nel dominio dell’empiria; è dunque questa l’essenza dell’Idea per Platone: è attraverso di essa che ci è concesso di giungere alla conoscenza della verità perfetta e immutabile dell’Essere, oltre la fallace e corruttibile realtà dell’esperienza. Subito dopo però si passa ad una critica della concezione platonica: di Platone, Zizek accetta l’impostazione ma si rende conto che l’Idea è qualcosa di effimero e virtuale, di ontologicamente poco consistente essendo la “rappresentazione” (termine assai scorretto considerato che stiamo parlando del pensiero classico ma che aiuta la comprensione del problema) di quel “meno di niente” che la realtà sarebbe, quella quantità negativa da cui tutto trae origine, quell’abisso in cui ogni determinazione si dissolve a cui si accennava sopra. Democrito coniò un termine per indicare questa quantità “generata per sottrazione dal nulla” giocando sulla parola “hen” (Uno) e sul suo opposto “medhen” (Niente), ottenendo l’espressione Den (“dhen”, una sorta di “iente”): una quantità negativa che, propriamente, non esiste, ma persiste, una sorta di non morto, quella che in psicanalisi è chiamata “presenza spettrale” o “fantasmatica”, che come abbiamo detto non ha una sua consistenza ontologica propria (non è direttamente una Sostanza) “eppur si muove” (pag. 76 e seguenti), come riporta il filosofo di Lubiana citando il grande Galileo.
Questa essenza effimera dell’Idea platonica, il fatto cioè che “rappresenti” una realtà (quella sovrasensibile iperuranica) che non abbia Sostanza, come abbiamo visto, indica che non esiste nessun punto di riferimento trascendentale che regoli la nostra esperienza mondana, nessun valore trascendente o garanzia di verità/autenticità della nostra realtà che vada oltre l’orizzonte del nostro esperire: si approda dunque, con un avvicinamento a Hegel, a quella che Lukàcs avrebbe chiamato una concezione “monomondana” dell’idealismo contrapposta a quella “bimondana” tipica del platonismo.
Quella che Zizek compie fin qui è dunque una critica alla metafisica pre-Kantiana di matrice platonica condotta in base agli stessi principi che reggevano quelle posizioni teoretiche utilizzando per lo più la medesima terminologia per giungere alla negazione di qualsiasi trascendenza e all’affermazione dell’emergere di qualunque valore universale dai processi interni alla realtà stessa tanto che vi è, da parte dell’autore, una professione di “ateismo devoto” sul finire della Parte Prima del volume, pagine bellissime, molto intense e dalla decisiva pregnanza teoretica in cui è presentata un’analisi raffinatissima della Trinità in cui non vi è nemmeno l’ombra di avversione nei confronti della religione, anzi, ma un tentativo di concepire la Religione come un movimento dello Spirito che si volge alla rappresentazione dell’Assoluto, concepito come necessariamente immanente alla Sostanza, ribadendo come i valori propugnati dalla rappresentazione religiosa dell’Assoluto portino alla conoscenza di ciò che è Universale, se elevati a Concetto.
Verso la fine della Parte Prima del volume 1 vi è anche una parentesi sul pensiero fichtiano ed in particolare sul concetto di “Anstoss” che è proprio l’elaborazione fichtiana di quell’”impulso”, poi interpretato anche dal punto di vista psicanalitico dallo sloveno, della Sostanza a reduplicarsi, ad autoriflettersi: l’”Anstoss” è il punto focale dell’attività ponente dell’Io (che autopone il suo oggetto). L’”Anstoss” non va inteso però come il non-Io, come un oggetto sostanziale/determinato, trascendente rispetto all’Io: l’”Anstoss” è l’impulso automatico a porre l’oggetto, è autogenerato dallo stesso processo del porre e proprio per questo motivo ha la stessa “spettralità” del Den democriteo: è una presenza sintomatica dell’attività pensante/riflettente, una pura forma vuota del porre mediata dalla pura attività ponente priva di contenuto particolare e dunque senza Sostanza: l’”Anstoss” è il buco stesso nella Sostanza che indica l’essenza della soggettività stessa come alienazione dalla Sostanza e in perenne autoriflessione alla ricerca della riappropriazione della Sostanza stessa (pag. 186).
A questo proposito si segnala una fondamentale riflessione dell’autore che indica la necessità del passaggio dalla Sostanza ad un intelletto che la pensi incentrata sul:
“concetto
heiddeggeriano di essere umano come Dasein, come l’«esserci»
dell’Essere stesso, come il luogo dell’evento-avvento dell’Essere,
cosicchè è l’Essere stesso che «ha bisogno» del Dasein. Con la scomparsa
del Dasein non c’è nemmeno l’Essere, non c’è alcun luogo in cui
l’Essere possa, precisamente, aver luogo” (pag. 135).
La
Parte Seconda apre con una serie di considerazioni su Deleuze e il
“passato puro” collegato all’impossibilità di interpretare Hegel come
uno storicista a cui seguono delle pregnanti pagine sul “libero
arbitrio” in cui la marziale dimostrazione della fondamentale libertà di
cui gode il nostro giudizio muove dalla considerazione secondo cui,
come visto sopra, non esistono riferimenti trascendenti rispetto alla
nostra condizione dai quali far derivare le norme che orientano il
nostro vivere ed essendo il processo storico in cui siamo immersi un
processo mediato dall’attività intellettiva e pratica del soggetto è
certamente vero che il range di cose che possiamo pensare, scegliere,
deliberare, fare, ecc. sia storicamente determinato ma è altrettanto
vero che dall’altro lato tutte le facoltà elencate siano, nel loro
orizzonte storico, perfettamente libere e dunque libertà e necessità
sono perfettamente consustanziali alla realtà monomondana in cui operiamo e dunque ogni processo, precisamente, non è ancora,
fin tanto che non è pensato e/o mediato dalla prassi trasformatrice di
un soggetto. Infatti, Hegel è presentato come il pensatore dell’autopoiesi:
nella realtà non esiste alcun senso, alcun ordine stabilito a priori
rispetto al campo stesso in cui la realtà si svolge/decide (altrimenti
una qualsiasi ipotesi di tipo aprioristico necessiterebbe di un supporto
ontologico trascendentale che come abbiamo visto non esiste se non come
proiezione virtuale delle rappresentazioni per il pensiero), ogni
evento avviene tramite un atto di decisione soggettiva che instaura una
catena causale nell’altrimenti assoluto regno della contingenza (pag.
571 e seguenti): la natura infatti è dominata dalla pura contingenza
delle sue leggi, senza essere dominata da alcun principio esterno
affermando un regno di pura contingenza. Solo l’avvento di un soggetto
impone una forma di necessità attraverso un atto di decisione
(Entscheidung): ogni necessità è sempre posta da una Ragione e dunque da
un soggetto, non vi è necessità se non quella mediata dallo Spirito.
In questo modo vi è l’emersione dell’ordine dal caos informe. Questo è il dispiegamento propriamente detto della Dialettica contingenza/necessità: l’affermazione della contingenza attraverso la negazione della necessità (la necessità infatti emerge solo nella forma di una contingenza: questa però non preesiste come fondamento alle cause che hanno portato alla sua manifestazione ma, al contrario, sono le cause, puramente contingenti, che si pongono come fondamento che fanno emergere la necessità dalla contingenza). Come fa notare l’autore, infatti, il nostro libero arbitrio e ogni necessità che si determina sono perfettamente interni alla realtà in cui agiamo e a cui noi, come soggetti, contribuiamo a determinare organicamente in senso, come abbiamo detto, autopietico; pensare che ci sia un principio superiore/regolatore a priori significa concepirci come osservatori esterni che evidenziano il costituirsi di una necessità ed:
“in questo modo si oscura il fatto noi siamo parte della realtà, che il (possibile, locale) conflitto tra le nostre «libere» aspirazioni e la realtà esterna che resiste ad esse è un conflitto inerente alla realtà stessa” (pag. 259).
Questo
fondamentale passaggio ci porta alla focale questione sollevata nel
“Terzo Interludio” che riguarda principalmente la costituzione del
potere che è per Hegel una sorta di atto “irrazionale”, eccessivo, che
fonda per Entscheidung una catena causale necessaria: questo
“atto”, tipico della soggettività libera/fondante la necessità,
“sutura”, secondo la terminologia zizekiana stessa, le contraddizioni
della realtà compiendone la razionalità. Questo “Io decido” hegeliano
riportato nella “Filosofia del diritto” è la pura cornice formale in cui
si iscrive la razionalità del Reale, senza altra legittimazione
dipendente da un Grande Altro (tessuto simbolico prescindente l’attività
ponente soggettiva); per questo per Hegel lo stato razionale doveva
essere incarnato da una monarchia: la figura del monarca è una figura
completamente formale che, citando la “Filosofia del diritto”, “mette i
puntini sull’ i”, formalizza l’attività legislativa a cui non
prende parte rendendo esecutivi i decreti; il monarca hegeliano è dunque
una figura formale, sostituibile, che rende con la sua presenza
legittimo l’operare della burocrazia statale. Per questo è impossibile
ritenere Hegel un padre del totalitarismo: nel totalitarismo vi è la
fusione delle figure del “monarca” (potere formale-esecutivo) e del
potere burocratico-specialistico, fusione che Hegel nella già citata
“Filosofia del diritto” respingeva esplicitamente poiché portatrice di
barbarie. La figura del “leader” in Hegel non è dunque il “filosofo re”
platonico: per Hegel “non comanda chi sa”; conclude Zizek affermando che
il totalitarismo del XX secolo è una mistificazione del governante
descritto dal filosofo tedesco: Stalin non è in senso formale un
“padrone” nel significato hegeliano del termine. Hegel non è dunque un
giustificazionista storicista: anzi, il potere è fondato da un atto di
volontà estraneo alla catena di rimandi causali storicisti (lo stato
nasce da un atto di violenza).
La parte conclusiva del testo è dedicata a ciò che precisamente il grande idealista tedesco non può per i suoi stessi presupposti pensare. Si intrattiene allora una sorta di dialogo a distanza con le posizioni teoretiche del grande filosofo francese Deleuze in merito alle categorie da quest’ultimo analizzate quali differenza e ripetizione. Per il francese (così come per Zizek), Hegel non può pensare la “differenza” se non come contraddizione (e dunque come momento riconducibile alla logica dell’identità). Ciò rende difficile spiegare il Nuovo in termini hegeliani in quanto ogni novità dovrebbe sorgere per Hegel immanenentemente dal movimento dello Spirito. Per Deleuze, invece, il Nuovo è concepito come ripetizione del Vecchio: in quanto, in questo modo, è scardinata a livello virtuale la processualità delle proprietà attuali soggette al ciclo di generazione e decomposizione; il radicalmente Nuovo è per il francese la ripetizione del Vecchio poichè in tal modo si elude il ciclo di generazione e decomposizione degli oggetti attuali, mutando nel campo simbolico il significato stesso di rinnovamento. Nel significato deleuziano, allora, il Nuovo si distingue dal Vecchio per una Differenza minima: le proprietà attuali rimangono le stesse mentre ciò che cambia è l’eccesso a livello virtuale che permette la permanenza di tali proprietà, ridefinendo, come già detto, la categoria stessa di rinnovamento.
Nello sviluppo dialettico l’esito emergente (“sintesi”) prevede sempre un eccesso, uno scarto, imprevisto, “escrementizio”, irriducibile al processo stesso ma che è il punto “sintomale” di quel processo. Come la “verità” nell’analisi del sogno freudiana si trova nella tensione di forma e contenuto, nello scarto tra le due, così la “verità” di un processo dialettico si trova nei suoi sintomi, in quei fenomeni emersi dal processo ma non riconducibili alla razionalità immanente al processo (da ciò deriva il nostro libero arbitrio), la pura eccezione, la pura contingenza che si erge a necessità del processo (come il re nella filosofia del diritto). Hegel non riesce però a pensare a un clinamen della negazione, a una negazione cioè che non si compie in modo completo (come una contraddizione “perfetta”) ma che fallisce generando una situazione di compromesso (sovradeterminazione) in cui coesistono più principi spirituali (“vecchi” e “nuovi”) non completamente sviluppati/compiuti e che esistono (insistono), in modo sintomale, sotterraneo.
Va allora ribadito il ruolo della distorsione immanente a ogni processo come principio. La “determinazione oppositiva” hegeliana coglie l’aspetto chiave della sovra determinazione: ad esempio, l’economia è il fondamento della distorsione del campo sociale ma tale distorsione non appare mai direttamente nella forma dell’economico in quanto tale (come prevedrebbe la logica hegeliana della determinazione oppositiva) ma sempre sottoforma di lotte politiche particolari, contingenti. Dunque l’economico virtuale non incontra mai se stesso nel campo attuale in modo diretto (sottoforma di economico) ma sempre in una molteplicità di fattori politici particolari. Ciò che non riesce a “pensare” radicalmente la dialettica è la molteplicità dei fattori contingenti in cui si incarna la distorsione, che abbiamo visto essere il principio che fa scaturire il processo stesso dal suo interno (una sorta di clinamen, proprio come l’”Anstoss” fichtiano).
Questa “differenza”, intesa non come contraddizione diretta, è detta Verstellung: una sorta di slittamento, di complicazione di un principio fondamentale. Tale determinazione risulta inscritta già nel concetto di totalità di Hegel come un tutto disorganico che comprende le costitutive distorsioni ed infatti esistono tracce di questa “Logica del compromesso” in varie “tappe” dello Spirito in cui emergono delle figure (come la “plebe”, uno scarto sintomale/irriducibile del/al corpo sociale) che non trovano un assimilazione logica nel processo ma che rimangono sempre come un eccesso costitutivo del processo stesso.
Dunque termini come pulsione, Aufhebung, ripetizione sono nomi che indicano il concetto unitario di Reale come la differenza assoluta attorno a cui ruota l’esperienza di ogni soggetto nel tentativo di ricongiungersi con la sua Sostanza (il soggetto è davvero tale nell’atto e perderebbe la propria sostanza proprio nel momento in cui la raggiunge in modo definitivo).
Constatato che esistono delle tracce di questo “resto indivisibile” nel pensiero del tedesco, la domanda allora è: la logica di Hegel segue questo paradigma della Verstellung? La dialettica hegeliana è una logica della “purificazione”, dice Zizek: il soggetto si appropria di un oggetto (da conoscere) del desiderio per riempire a livello ontico una mancanza ontologica (la mancata appropriazione della sostanza). Ma riesce Hegel a pensare alla ripetizione/pulsione, cioè a quell’elemento (“resto indivisibile”) che sfugge/resiste sempre al superamento idealizzante prodotto proprio dall’”immane potenza” della stessa negazione hegeliana? L’Aufhebung è riconciliazione del soggetto con la sostanza nel segno di una forma di “rassegnazione”, sostiene l’autore: il progresso (compimento del processo) è inteso come movimento che restaura una potenzialità nell’attualità (che opportunità offre il processo come esso si è svolto fino ad ora? Nello stesso modo, per intendersi, in cui Benjamin intendeva la rivoluzione proletaria come redenzione dei tentativi passati).
L’eccesso di negatività è alla base libertà: la riconciliazione è riconoscimento del resto indivisibile non-dialettizzabile emergente dal processo dialettico, il nucleo irriducibile stesso del soggetto. L’eccesso patologico, il sinthome contingente, irrazionale, decentrato, si incarna proprio nella figura del Re della filosofia del diritto. Dall’argomentazione di Zizek sembra che Hegel applichi la logica della Verstellung nelle figure della “Fenomenologia” e nei momenti dello Spirito ma non sia in grado di concettualizzarlo in modo proprio nella Logica che rimane ancorata a una contraddizione diretta che si rapporta con l’identità e alla quale si riconduce. La logica dunque non riesce a rendere conto compiutamente, in quanto schema formale, degli slittamenti di cui lo stesso Hegel poi rende conto nella presentazione delle categorie del Reale. Per dirla con Deleuze esiste dunque una tensione tra virtuale (Logica) e attuale (Spirito) nel pensiero hegeliano che sembrerebbe far emergere nella ricchezza dello Spirito proprio quel surplus sintomale tipico dell’Aufhebung che la pura logica riflessiva non può pensare.
Per Zizek, Deleuze, il più accanito anti-hegeliano, si pone, in modo apparentemente paradossale, come la Aufhebung del tedesco, come colui che riuscendo a ripetere Hegel nel tentativo di far filosofia senza considerarlo neppure (come il francese affermava), ne riesce a individuare proprio quel nucleo traumatico, l’incapacità di pensare la pura ripetizione, incarnata in quella soggettività (Anstoss, Den, objet a) irriducibile al processo dialettico, che sempre ritorna al compimento di ogni movimento Spirituale come quel “meno di niente” che continua a generare/disturbare dall’interno l’incedere inesorabile dello Spirito. Solo in questo modo è possibile superare Hegel, proprio attraversandolo e ripetendolo. In questo modo il tedesco si prende la sua “vendetta esemplare” (pag. 616) riaffermando proprio quel suo principio fondamentale secondo la via per la verità è nell’elemento stesso della verità (identità delle categorie di pensiero ed essere).
Concludendo,
questo primo volume di “Meno di niente” è un’opera densissima che si
può capire a fondo solo leggendola e rileggendola, soffermandosi
infinitamente sugli innumerevoli punti focali, che questa recensione ha
tentato, sicuramente in modo mai abbastanza compiuto, di presentare nel
modo più ordinato possibile. Siamo di fronte a un’opera che suscita
sicuramente innumerevoli punti critici che vanno discussi ma senza
essere liquidati frettolosamente: con questo testo Zizek conferma di
essere un gigante del pensiero contemporaneo, in grado di far ricondurre
una vastissima gamma di riferimenti anche molto lontani ad un unico
pensiero organico.
Va sottolineata la grande pregnanza dei 3 “Interludi” inseriti nell’opera che non vanno semplicemente ad adornare l’opera con alcuni riflessioni estemporanee ma che si inseriscono in modo determinante nell’economia complessiva dell’opera mettendo in relazione la discussione sul pensiero hegeliano con la ricerca marxiana (nel “Primo Interludio”), con la scoperta del Soggetto agli albori della modernità e la sua messa in discussione nel mondo contemporaneo da Derrida e Foucault in rapporto al tema della follia come condizione che fonda la soggettività stessa (“Secondo Interludio”) e con la questione dell’autorità in Hegel che è vista nascere da un atto di violenza, di decisione, appunto soggettiva (“Terzo Interludio).
Vi sono dei punto critici, abbiamo detto, di cui i più controversi sono la concezione zizekiana dell’uomo come ente plasmato, foucaultianamente, solo dall’esperienza, dai rapporti egemonici di potere e dal disciplinamento che ne consegue e dunque privo di una sua natura/sostanza/essenza che lo caratterizza in modo specifico; in questo frangente, nonostante le molte affinità rilevabili in altri settori, vi è una differenza irredimibile dal punto di vista teoretico con altri pensatori hegeliani contemporanei come il compianto Costanzo Preve che rilevava, al contrario dello sloveno, una natura tendenzialmente solidale/relazionale nell’essere umano [e quest’ultima è anche la posizione personale sostenuta di chi scrive, n.d.a.].
Quest’opera si ritaglia dunque uno spazio estremamente importante nel dibattito filosofico contemporaneo in quanto contribuisce in modo determinante a riportare sulle scene una discussione sul grande Hegel che, tutt’altro che morto, continua ad aggirarsi come uno spettro minacciando le costruzioni ideologiche dei teorici post-moderni riportando alla ribalta quel Soggetto (e la conseguente prassi trasformatrice) di cui oggi avremmo tanto bisogno.
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