giovedì 17 aprile 2014

Un nuovo slancio, ma per quale Europa? di Etienne Balibar, Le Monde Diplomatique

Dapprima accodata all’egemonia statunitense, poi inglobata dal capitalismo finanziario globalizzato, l’Europa è a rischio di esplosione. L’aumento delle disuguaglianze tra i paesi e le regioni che la compongono, tra il Nord e il Sud, ha infatti sostituito la divisione di un tempo tra l’Est e l’Ovest. La Germania domina al centro di questo spazio in cui ogni Stato diventa il predatore potenziale dei suoi vicini. E dunque, che fare?

L’Europa è morta, viva l’Europa? Dall’inizio dell’anno, che vedrà le elezioni del Parlamento europeo – investito per la prima volta del potere di eleggere il Presidente della Commissione – i paradossi e le incertezze dell’integrazione europea sono all’ordine del giorno.

Da un lato, i profeti di sventura annunciano che la paralisi e la dissoluzione continuano a incombere, perché nessuna delle ricette applicate ha risolto la contraddizione insita in una costruzione politica il cui principio guida implica l’antagonismo fra gli interessi dei suoi membri. Queste ricette hanno perpetuato la recessione, accentuato le disuguaglianze tra nazioni, generazioni e classi sociali, bloccato i sistemi politici e generato una sfiducia profonda delle popolazioni verso le istituzioni e l’integrazione europea in quanto tale. Dall’altro lato, i sostenitori del metodo Coué colgono ogni segno «non negativo» per annunciare che ancora una volta il progetto europeo approfitta delle sue crisi per rilanciarsi, facendo prevalere l’interesse pubblico sulle differenze.

Quel che, senza dubbio, fa la debolezza di tali proclami, è che a ben vedere tutti i segni invocati (per esempio, l’unione bancaria) riguardano mezze misure, recanti innovazioni ma altrettante limitazioni. Quel che tuttavia impedisce di trattarle con sufficienza, è l’argomento della necessità: le economie delle nazioni europee sono troppo interdipendenti, le loro società troppo assoggettate a meccanismi comunitari per non temere la catastrofe che lo smantellamento dell’Unione sarebbe per tutti. Ma questo argomento si basa a sua volta sul presupposto che nella storia e nella politica la continuità vince sempre, il che significa anche che la crisi attuale avrebbe un carattere semplicemente ciclico.

La partita decisiva si è giocata in Germania

In definitiva, questi giudizi si annullano e non possono portare che a giri retorici. Difettano di una maggiore profondità storica, che consenta di far comprendere quale svolta sia, in un processo che dura da oltre mezzo secolo, la «grande crisi» attuale. E mancano di un’analisi delle contraddizioni che la crisi rivela nel cuore della costruzione istituzionale, in particolare nella sovrapposizione di strategie politiche e logiche economiche. Insomma, occorre più radicalità nel valutare i cambiamenti già avvenuti, non solo a livello della distribuzione dei poteri, ma anche della definizione degli attori e del terreno di confronto tra progetti alternativi. Non saprei soddisfare un programma di questo tipo, ma illustrerò per sommi capi quel che mi sembra costituire le tre principali dimensioni d’analisi della crisi, e della sua risoluzione in un senso o nell’altro.

La prima dimensione riguarda la storia, senza la quale non capiremmo né a quali tendenze reali – non riducibili a un «progetto» o a un «piano» – corrisponde la trasformazione dell’Europa in un sistema post-nazionale, né perché il suo esito e la sua stessa forma rimangano a questo punto incerte. Insistiamo qui su due fatti, uno ben noto agli storici, e l’altro sottovalutato nel dibattito tra sostenitori e avversari del federalismo, soprattutto quando si limitano al piano dell’architettura giuridica.

La storia dell’integrazione europea è abbastanza lunga per essere passata attraverso molte fasi distinte, strettamente legate alle trasformazioni del «sistema mondo (1)». Fasi identificabili sulla base della corrispondenza tra le estensioni successive del sistema europeo e la crescente complessità delle istituzioni che ne garantiscono l’integrazione, gestendo equilibri instabili tra sovranità nazionale e governance comunitaria. Distinguiamo dunque tre fasi: una, dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) al periodo seguito agli avvenimenti del 1968 e della crisi petrolifera (senza dimenticare la decisione di Richard Nixon contro il sistema di Bretton Woods [2]); l’altro, dai primi anni ’70 alla caduta del sistema sovietico e alla riunificazione tedesca del 1990; l’ultima, infine, dall’allargamento a Est fino al momento della crisi aperta dall’esplosione della bolla speculativa statunitense nel 2007 e, per quanto riguarda l’Europa, dal debito sovrano della Grecia, evitato in extremis nel 2010 alle condizioni che sappiamo.

Questo momento segna l’entrata in una nuova fase? Penso di sì, anche se le tensioni che osserviamo intervengono solo dall’entrata a tappe forzate nella globalizzazione, che domina la politica comunitaria da vent’anni – o proprio per questo: perché queste tensioni, sia nazionali che sociali, hanno effettivamente raggiunto un punto di rottura. Si è aperto un periodo di incertezza e fluttuazioni, che porta con sé la possibilità di un bivio dai contorni ancora imprevedibili. Da qui l’importanza del secondo punto. È un errore credere che l’evoluzione dell’integrazione europea segua un percorso lineare, le cui uniche variabili sarebbero l’avanzata o il ritardo rispetto al «progetto». Al contrario, ogni fase ha comportato un conflitto tra diverse vie.

La fase iniziale, dopo il 1945, si inserisce nel contesto della guerra fredda, ma anche della ricostruzione di impianti industriali e dell’istituzione di sistemi di sicurezza sociale in Europa occidentale. Comporta una forte tensione tra l’integrazione nella sfera di influenza degli Stati uniti e ricerca di una rinascita geopolitica e geo-economica dell’Europa (che va di pari passo, di fatto, con il perfezionamento del modello sociale europeo) – è questa seconda tendenza che, in pratica, prevale, beninteso in un quadro capitalista.

Succede lo stesso, con un risultato inverso, nella fase recente, a favore non di un’egemonia Usa ormai in declino, ma dell’incorporazione al capitalismo finanziario globalizzato. In Germania si è giocata la partita decisiva, risolta dalla decisione del cancelliere Gerhard Schröder (1998-2005) di raggiungere il modello della competitività industriale per mezzo di bassi salari.

Ma la questione determinante è comprendere come sono state operate le scelte e come si è trasformato il rapporto di forze nella fase intermedia, quella del condominio franco-tedesco e della «grande commissione» presieduta da Jacques Delors (1985-1995). Infatti, in quel periodo è stato avanzato il progetto di un doppio passo avanti sovranazionale, con la creazione della moneta unica e lo sviluppo dell’«Europa sociale», destinati a costituire i due pilastri del «grande mercato». Sappiamo che in realtà la prima è diventata l’istituto centrale dell’Unione (anche se non tutti gli Stati membri vi partecipano), mentre l’altro si è limitato alle disposizioni formali del diritto del lavoro. Questa inversione richiederebbe un racconto dettagliato, per evidenziare non solo le responsabilità individuali, ma le cause politiche oggettive – tra le quali, oltre alla pressione del neoliberismo, non si dovrebbe dimenticare l’incapacità del movimento sindacale europeo di pesare sulle decisioni comunitarie, a causa del provincialismo delle sue componenti quanto dello squilibrio di forze, mentre si moltiplicavano le delocalizzazioni. Una importante lezione per il futuro. La costruzione dell’Europa presenta tuttora delle alternative. Ma la possibilità di coglierle dipende da forze e progetti che non sempre sono presenti.

La seconda dimensione è l’economia, a condizione di considerarla in tutte le sue accezioni. Ciò significa, in primo luogo, che non c’è economia fuori da una dimensione sociale e dalle polarizzazioni che implica: pro o contro una determinata struttura delle disuguaglianze e degli investimenti, per questo o quel modello di relazioni sociali nelle imprese e di consumo, pro o contro la protezione dei lavoratori e delle loro qualifiche contro i rischi della flessibilità. E, pertanto, non vi è separazione tra i problemi dell’economia e quelli della politica: non solo perché nessuna politica può essere definita indipendentemente dai vincoli economici, cosa che tutti sono pronti a ammettere, ma soprattutto perché non c’è economia che non sia anche un insieme di scelte (collettive) e il risultato di un rapporto di forza.

Comprimere i redditi, precarizzare il lavoro

Ovviamente, il discorso neoliberista continua a negare questa integrazione, in nome dell’idea che «non c’è alternativa» alle esigenze del rendimento finanziario. Ma questo discorso è appunto lo strumento del rapporto di forza. Pochi decenni dopo la sua messa in campo, per la pressione del mercato, la conversione dei governi alla «politica dell’offerta» e l’azione concertata della Commissione europea, se ne possono osservare gli effetti. La società europea è stata portata sulla soglia della disgregazione e le sue popolazioni sono state spinte alla disperazione, senza che ciò abbia arrecato all’economia considerata nel suo insieme alcun reale vantaggio nella competizione internazionale.

Cerchiamo di essere più precisi. Una delle fonti di redditività dei capitali in Europa oggi è una forma particolare di ciò che alcuni marxisti hanno chiamato accumulazione per esproprio (3): le risorse che ne sono l’oggetto non sono più «beni comuni» tradizionali o di proprietà individuali, ma consistono in un insieme di diritti e di accesso ai servizi pubblici che formano una sorta di «proprietà sociale» (4).

Dalla fine del XIX secolo, le lotte di classe o le politiche sociali avevano assicurato alla classe operaia un livello di vita che si situava al di sopra del minimo definito dalla «concorrenza libera e non distorta» e che presupponeva anche una certa limitazione delle disuguaglianze nella società. Stiamo assistendo oggi, in nome della competitività e del controllo del debito pubblico, a un doppio movimento in senso contrario. Si devono comprimere i redditi reali da lavoro e renderlo precario perché sia più «competitivo», pur continuando a sviluppare il consumo di massa, raschiando il fondo del potere d’acquisto dei lavoratori o altrimenti contando sulla loro possibilità di indebitarsi. Senz’altro possiamo immaginare che strategie di «zonizzazione» e di differenziazione sociale o generazionale permettano di ritardare l’esplosione della contraddizione tra questi obiettivi. Ma, a breve, quest’ultima può solo peggiorare, per non parlare dei rischi sistemici di cui è portatrice l’economia del debito.

L’integrazione europea così orientata sulla via di un neoliberismo quasi costituzionale ha un altro effetto, che ne mina le condizioni morali e politiche. Mentre la possibilità di superare gli antagonismi storici all’interno di una costruzione post-nazionale in cui la sovranità sia condivisa implicava una convergenza almeno tendenziale tra gli Stati – dal triplice punto di vista delle loro capacità complementari, della perequazione delle risorse e del reciproco riconoscimento dei loro diritti –, il trionfo del principio della concorrenza ha portato a un continuo peggioramento delle disparità. Invece di un co-sviluppo delle regioni d’Europa, si assiste a una polarizzazione che la crisi ha drammaticamente accentuato. La distribuzione delle capacità industriali, quella dei posti di lavoro e delle possibilità di successo, quella dei percorsi di formazione, è sempre più diseguale. Al punto che si potrebbe dire, osservando la traiettoria sull’insieme del continente a partire dal 1945, che una grande divisione tra il Nord e il Sud ha sostituito la divisione Est-Ovest, anche se la separazione non si concretizza in un muro, ma piuttosto in un drenaggio unilaterale di risorse.

Quale posto occupa la Germania in questo sistema basato sullo sviluppo ineguale? Era prevedibile che la riunificazione del paese dopo mezzo secolo di lacerazione portasse a una rinascita del nazionalismo, come era prevedibile che la ricostruzione di una Mitteleuropa in cui le aziende tedesche e i loro subappaltatori hanno potuto approfittare al massimo delle risorse di manodopera «a basso salario e alta capacità tecnologica (5)», producesse un vantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei. Ma non era inevitabile che questi due fattori si trasformassero in egemonia politica (anche «a malincuore», secondo la formula in voga [6]).

Questo attiene alla posizione di cerniera che la Germania è riuscita a occupare, tra l’uso delle risorse dell’economia europea, o anche dei suoi punti deboli (come è il caso per l’opportunità di prendere prestiti a tassi negativi sui mercati finanziari, compensati dai tassi elevati di altri paesi europei), e la specializzazione della sua industria d’esportazione al di fuori dell’Europa. Viene così – momentaneamente – a trovarsi nel punto in cui si concentrano i vantaggi nazionali dello sviluppo ineguale, tanto più che risulta – relativamente – meno impegnata di altri (in particolare la Francia) nella finanziarizzazione di tipo neoliberista (7). Ma l’effetto d’egemonia ha altre ragioni, che vanno dalla mancanza di meccanismi di deliberazione e di elaborazione collettiva delle politiche economiche «comunitarie», alla stupidità degli atteggiamenti difensivi di altri governi (in particolare i francesi, che non considerano minimamente di impegnarsi a trovare forme alternative di sviluppo delle istituzioni sovranazionali). In ogni caso questo effetto d’egemonia si viene ad aggiungere allo iato tra «l’Europa dei ricchi» e «l’Europa dei poveri»: ormai fa parte degli ostacoli strutturali all’integrazione europea. E non è la preoccupazione di «rilanciare l’Europa» periodicamente attribuita alla cancelliera Angela Merkel che cambierà qualcosa. In Europa ci sarà per molto tempo una «questione tedesca».

Sovranità o federalismo, un falso dibattito

La situazione attuale ha tuttavia qualcosa di paradossale anche dal punto di vista dell’ideologia e degli obiettivi del neoliberismo. Nel momento in cui si profilano dei rovesciamenti di congiuntura e in cui gli economisti del Fondo monetario internazionale (Fmi) aggiungono le loro voci ai critici dell’austerità – che genera recessione e aggrava l’insolvenza dei paesi indebitati – sembrerebbe che l’Europa come unità economica sia una delle regioni del mondo peggio piazzata per rilanciare la propria attività. Non c’è sicuramente nessuna spiegazione semplice per questo paradosso, ma si possono ipotizzare alcune cause ideologiche.

Alcune rimandano alla proiezione sulla moneta unica del modello ordo-liberista dell’indipendenza assoluta della Banca centrale rispetto agli obiettivi della politica economica «reale». Altri rimandano a una sorta di cattiva coscienza delle classi dirigenti europee, le quali, dopo aver dovuto concedere più di altri alle politiche pubbliche di tipo keynesiano, percepiscono qualsiasi rilancio dell’economia attraverso la domanda e l’innalzamento del livello vita delle classi popolari come un pericolo mortale di ricaduta nella logica del capitalismo «sociale».

Infine, credo che non si debba escludere un calcolo di un altro tipo, più sinistro, illustrato dall’ostinazione con cui sono stati perseguiti lo smantellamento e la colonizzazione dell’economia greca con il pretesto di «riforme strutturali». È l’idea che per quanto negativi siano i risultati dell’austerità e del monetarismo in termini di prosperità generale, essi preparino comunque le condizioni per una maggiore redditività almeno per determinati investimenti (o per determinati capitali): quelli che, «europei» o no, sono già ampiamente de-territorializzati e possono immediatamente delocalizzare le loro attività da un luogo a un altro. Ovviamente, questo calcolo è politicamente valido solo finché la «distruzione creatrice» non intacca in profondità il tessuto sociale e la coesione delle nazioni dominanti, il che non è garantito. Applicato all’Europa, il progetto neoliberista non porta alla trasformazione del suo oggetto: tende alla sua scomparsa.

Quanto sopra spiega già come le dimensioni della crisi si coniughino per guidare l’integrazione europea a un punto di flessione che comporta la potenzialità di una nuova fase, ma secondo orientamenti radicalmente incompatibili tra loro. Tuttavia, né la cristallizzazione del conflitto né la sua evoluzione possono darsi al di fuori di uno spazio politico di confronto e di rappresentanza. Chiaramente, essi dipendono dal modo in cui si sarà risolto un doppio problema di legittimità e di democrazia. Questa è la terza dimensione su cui voglio insistere. Come affrontarla in modo realistico? In primo luogo, è necessario abbandonare lo scontro tra il discorso «sovranista» e il discorso «federalista», che si fonda sulla contrapposizione tra due situazioni altrettanto immaginarie: da un lato, l’idea di comunità nazionali in qualche modo naturali, a cui sarebbe sempre possibile tornare per fondare la legittimità delle istituzioni in base all’espressione della volontà generale, dall’altro, l’idea di un demos europeo virtuale, in qualche modo chiamato a costituirsi e a esprimersi per il fatto che esiste una struttura rappresentativa a livello sovranazionale.

La prima idea non ignora solo le condizioni in cui la sovranità nazionale esprime il potere, per la maggioranza del popolo, di influenzare le scelte dei governi: mantiene anche la finzione di una legittimità invariata dello Stato-nazione come unico quadro entro il quale i cittadini fanno valere i propri diritti. Al contrario, la seconda si rifà a una concezione procedurale della legittimità. Non si chiede affatto quali processi politici abbiano effettivamente investito la rappresentanza democratica di una funzione costituente nella storia degli Stati-nazione.

Dobbiamo prendere atto che il sistema politico europeo, per quanto incoerente possa apparire, è già un sistema misto, in cui esistono diversi livelli di responsabilità e autorità: è molto più federale di quanto non lo percepisca la maggioranza dei cittadini, ma meno democratico di quanto affermi di essere, in quanto la divisione dei poteri tra le istanze comunitarie e nazionali consente a ciascuno di loro di organizzare la propria irresponsabilità e blocca la formazione dei contro-poteri.

Questo sistema non è mai stato stabile, ma la crisi attuale l’ha ulteriormente destabilizzato facendo sorgere al suo interno un’istanza quasi sovrana: la Banca centrale «indipendente», posta nell’articolazione fra le finanze pubbliche degli Stati e il mercato finanziario internazionale. Ma il suo accresciuto potere non riflette né il semplice sviluppo della tecnocrazia, né solo l’influenza del capitalismo privato. È piuttosto un tentativo di «rivoluzione dall’alto», nell’epoca in cui il potere politico non si separa più dal potere economico e soprattutto finanziario (8). Il punto è sapere se possa portare a un nuovo regime di sovranità, e quali soluzioni alternative sia possibile opporre.

Da qui la seconda confusione che è importante spazzar via, quanto al rapporto tra legittimità e democrazia. Se ci atteniamo a una definizione realistica e non ideologica della legittimità dei sistemi politici, si può sostenere che l’unica legittimità effettiva sia quella conferita da procedure democratiche: tutta la storia dimostra invece il contrario. È nelle cosiddette situazioni eccezionali, com’è noto, che strutture autoritarie di vario tipo tendono a rivendicare e a ottenere la delega al potere da parte delle popolazioni, con o senza procedura costituzionale. Ciò che colpisce, tuttavia, nella congiuntura attuale, è che l’urgenza di far fronte agli attacchi speculativi contro la moneta unica e, di conseguenza, di regolare un minimo il sistema finanziario fuori controllo non abbia portato alcuna nuova legittimità alla Commissione di Bruxelles. Di conseguenza, di fronte alle iniziative «straordinarie» della Banca centrale europea (Bce) e del suo presidente, governi e capi di stato hanno potuto presentarsi come incarnazione unica della sovranità popolare e dei diritti decisionali dei popoli. La democrazia è stata corrosa da entrambi i lati contemporaneamente, e il sistema politico nel suo complesso ha fatto un passo avanti sulla via della «democratizzazione».

Questo esperimento richiede un ritorno ai meccanismi e alle cause storiche su cui si è basato il privilegio degli Stati-nazione in materia di legittimazione del potere. In breve, una parte di queste cause rimanda alla potenza emotiva dell’ideologia nazionale o nazionalista stessa, in particolare – ma non unicamente – nelle società che hanno forgiato la propria coscienza collettiva nella resistenza a un susseguirsi di imperialismi che miravano alla distruzione della loro identità e alla cancellazione della loro storia.

Ma, in prospettiva, un altro fattore acquista un significato strategico, in quanto mostra al contempo perché la forma nazione non ha una capacità di legittimazione assoluta e perché la legittimità democratica dello Stato-nazione rimane appesa a condizioni sociali ed economiche, e non semplicemente alle forme della procedura rappresentativa o all’idea di «sovranità popolare». Questo fattore è – in particolare nei paesi dell’Europa occidentale – il fatto che la trasformazione dello Stato gendarme in Stato sociale ha preso la forma della creazione di uno Stato nazionale sociale, dove la conquista di diritti sociali è strettamente combinata alla periodica ricostruzione dell’appartenenza nazionale (come fu il caso, in particolare, all’indomani di due guerre mondiali e, in Francia, di guerre coloniali [9]). Questo spiega sia perché la massa dei cittadini ha visto nella nazione l’unico quadro di riconoscimento e di inclusione nella comunità e perché questa dimensione civica della nazionalità si eroda (o degeneri in «populismo», basato sull’esclusione degli stranieri), quando lo Stato comincia a funzionare, nei fatti, non come l’involucro della cittadinanza sociale, ma come lo spettatore impotente della sua degradazione o lo strumento zelante della sua decostruzione.

La crisi di legittimità democratica in Europa oggi è sia il fatto che gli Stati nazionali non hanno più né i mezzi né la volontà di difendere o rinnovare il «contratto sociale», sia il fatto che le istanze dell’Unione europea non hanno alcuna predisposizione a ricercare le forme e i contenuti di una cittadinanza sociale di livello superiore – a meno di non esservi spinti un giorno da un’insurrezione delle popolazioni o dalla presa di coscienza dei pericoli politici e morali che fa correre all’Europa la combinazione di una dittatura esercitata «dall’alto» dai mercati finanziari e un malcontento antipolitico alimentato «dal basso», da condizioni di vita sempre più precarie, dal disprezzo per il lavoro e dal saccheggio delle possibilità di futuro.

Ma la descrizione di questo vicolo cieco porta anche qualche lezione, pur molto aleatoria, quanto ai mezzi per venirne fuori. Per quanto pesino il perdurare di questa situazione e l’amarezza per le occasioni mancate, c’è da sperare che il pessimismo dell’esperienza non tarpi completamente le ali alle risorse della fantasia – che derivano anche da una migliore comprensione dei fatti. L’introduzione di elementi democratici nelle istituzioni comunitarie costituirebbe già un contrappeso alla «rivoluzione conservatrice» in corso (10). Ma le condizioni politiche di questo non vengono da sé. Arriveranno solo dalla spinta simultanea delle opinioni pubbliche a favore di un’inversione delle priorità dell’Europa, che diano la priorità al lavoro, all’inserimento delle giovani generazioni nella società, alla riduzione delle disuguaglianze e all’equa ripartizione del carico fiscale sulla rendita finanziaria. E questa spinta esisterà solo se i movimenti sociali o gli «indignati» morali attraversano le frontiere, si rafforzano abbastanza per ricostituire una dialettica di potere e di opposizione nell’insieme della società europea. La «contro-democrazia» deve venire in aiuto della democrazia (11).

Nazioni in cerca della loro identità perduta

Questa legittimità dell’integrazione europea non può essere decretata o inventata per mezzo di un’argomentazione giuridica. Può solo risultare, tendenzialmente, dal fatto che l’Europa diventi la posta in gioco e il quadro dei conflitti sociali, ideologici, delle passioni, insomma politici, che riguardano il proprio avvenire. Paradossalmente, è quando l’Europa sarà contestata – anche violentemente – non più in nome del passato che ha prodotto, ma in nome del presente che essa divide e del futuro che essa può aprire o chiudere che diventerà una costruzione politica stabile. Un’Europa capace di governarsi è senza dubbio un’Europa democratica, invece di un’Europa oligarchica e tecnocratica. Ma un’Europa democratica non è l’espressione di un demos astratto: è un’Europa in cui le lotte popolari si uniscono e impediscono la confisca del potere di decisione.

Resistere alla sottrazione di democrazia non è sufficiente a cristallizzare una leadership storica, ma è una condizione necessaria per «rifare l’Europa». La crisi dell’Europa attuale, sovente definita esistenziale perché mette i suoi cittadini di fronte a scelte radicali e, in fin dei conti, a «essere o non essere», è stata sicuramente preparata dal fatto che le sue istituzioni e i suoi poteri sono stati sistematicamente sbilanciati a scapito della possibilità di partecipazione dei popoli alla loro storia. Ma quel che l’ha fatta precipitare, è che si è messa a funzionare deliberatamente non come uno spazio di solidarietà tra i suoi membri e di iniziativa di fronte ai rischi della globalizzazione, ma come uno strumento di penetrazione della concorrenza mondiale al cuore dello spazio europeo, impedendo il transito tra i territori e scoraggiando le imprese comuni, respingendo qualsiasi armonizzazione «dall’alto» dei diritti e dei livelli di vita, rendendo ogni Stato il potenziale predatore dei suoi vicini.

Da questa spirale autodistruttiva, non si può ovviamente uscire sostituendo una concorrenza con un’altra – per esempio sostituendo alla concorrenza salariale, ai regimi fiscali e ai tassi d’interesse una concorrenza per la svalutazione, come propongono alcuni sostenitori del ritorno alle monete nazionali (12). Possiamo venirne fuori solo attraverso l’invenzione e la proposta ostinata di un’altra Europa diversa da quella dei banchieri, dei tecnocrati e dei rentier della politica. Un’Europa dei conflitti tra modelli antitetici di società, e non tra nazioni in cerca della loro identità perduta. Un’Europa altermondialista, in grado di inventare per se stessa e di proporre al mondo strategie di sviluppo rivoluzionarie e forme allargate di partecipazione collettiva –, ma anche di accoglierle e di adattarle a proprio beneficio qualora fossero proposte altrove. Un’Europa dei popoli, ovvero del popolo e dei cittadini che lo compongono.


NOTE

(1) Si legga Immanuel Wallerstein, Comprendre le monde. Introduction à l’analyse des systèmes-monde, La Découverte, Parigi, 2006.
(2) Ndr. Nel sistema di Bretton Woods (1946-1971), nato dagli accordi omonimi, il valore del dollaro era direttamente ancorato all’oro, mentre le altre monete erano indicizzate sul dollaro. Nell’agosto 1971, il presidente Nixon decise di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro.
(3) Si legga David Harvey, Le Nouvel Impérialisme, Les Prairies ordinaires, Parigi, 2010.
(4) Si legga Robert Castel, Claudine Haroche, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi, Fayard, Parigi, 2001.
(5) Secondo Pierre-Noël Giraud, L’Inégalité du monde. Economie du monde contemporain, Gallimard, coll. «Folio Actuel», Parigi, 1996.
(6) Si legga «Europe’s Reluctant Hegemon», The Economist, Londra, 15 giugno 2013.
(7) Si legga Gérard Duménil, Dominique Lévy, La Grande Bifurcation. En finir avec le néolibéralisme, La Découverte, 2014.
(8) Si legga «Union européenne: la révolution par en haut?», Libération, Parigi, 21 novembre 2011.
(9) Si legga La Proposition de l’égaliberté. Essais politiques, 1999-2009, Presses universitaires de France (Puf), Parigi, 2010.
(10) Si legga Jürgen Habermas, La Constitution de l’Europe, Gallimard, coll. «Nrf Essais», 2012.
(11) Si legga Pierre Rosanvallon, La Contre-Démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Parigi, 2006.
(12) Si legga ad esempio Jacques Sapir, Faut-il sortir de l’euro?, Seuil, Parigi, 2012. (Traduzione di E. G.)

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