domenica 6 aprile 2014

Vogliamo davvero discutere di Berlinguer? di Emiliano Brancaccio

La vita di Enrico Berlinguer meriterebbe di esser nuovamente esaminata in un’ottica non tanto individualistica e soggettiva quanto piuttosto di “cambiamento strutturale”, vale a dire come occasione per una rilettura delle dinamiche del processo storico che fortemente condizionarono la sua vicenda politica. Da un approccio storico-critico alla vita di uno dei leader più carismatici del principale partito comunista d’Occidente si potrebbero trarre  spunti di riflessione non banali anche per l’analisi dell’attuale fase politica.
Il film “Quando c’era Berlinguer”, di Walter Veltroni, purtroppo non fornisce molti elementi utili in questa direzione. La pellicola si avvale in larga misura della potenza evocativa delle immagini di repertorio; per esempio indugia ancora una volta sul rito funebre, sull’impatto visivo del tributo di una folla ammirata e commossa. L’emozione di quel grande omaggio collettivo sembra spandersi lungo l’intera sequenza del film, arrivando per certi versi a condizionare pure i momenti riflessivi del documento. Gli spezzoni in cui la regia abbandona i canoni dell’opera agiografica per offrire occasioni di reale approfondimento critico sono rari: una sorta di eterogenesi dei fini rispetto alle  intenzioni di fondo dell’autore.
E’ questo il modo giusto per onorare la straordinaria vicenda politica di Enrico Berlinguer? I motivi di dubbio non mancano: il rischio di simili operazioni è quello di ossificare anziché attualizzare, di indurre a una superficiale celebrazione piuttosto che stimolare uno sforzo critico di comprensione. Eppure la vicenda di Berlinguer si colloca non soltanto in una fase storica di acutizzazione del conflitto tra capitale e lavoro ma anche in un decisivo crocevia della contesa intercapitalistica continentale e del relativo, tormentato processo di integrazione europea; un crocevia per più di un verso irrisolto, come testimoniano le attuali difficoltà dell’Unione monetaria europea.
Nel tentativo di contribuire a una discussione non agiografica sul ruolo del segretario del PCI anche in rapporto a quella contesa, riporto qui di seguito alcuni passi dedicati a Berlinguer tratti dal capitolo “Il fascino discreto dell’austerity”, in Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore, Milano 2012). Una modalità meno agevole di ricordare Berlinguer ma di cui forse lui stesso avrebbe riconosciuto l’esigenza, considerate anche sue le doti – raramente celebrate – di fruitore non banale del metodo storico-materialista.
                                                                     Emiliano Brancaccio
   
[...] Nel discorso di fine anno il Presidente Napolitano ha ribadito: benché indubbiamente gravi in larga misura sulle spalle dei lavoratori subordinati e dei meno abbienti, la politica di austerità è necessaria affinché l’Italia si impegni per salvaguardare le sue finanze e il suo ruolo nell’Europa unita.
Napolitano riconosce che non tutto dipende da noi, e si appella agli altri paesi europei per riesumare tutti assieme l’affossato spirito comunitario. Egli tuttavia sembra persuaso dall’idea della Cancelliera Merkel che l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa «debbono fare i compiti» se intendono mostrarsi capaci di rimborsare i debiti accumulati, così da riconquistare la fiducia dei mercati e dei paesi leader della zona euro. I creditori si attendono insomma molto, da noi. Se li deludiamo ci manderanno in rovina. Se invece plachiamo i loro timori e confortiamo le loro speranze, potremo dare inizio a una nuova stagione di crescita economica, di benessere sociale e magari, dopo gli anni bui del berlusconismo, persino di progresso civile.
La sensazione di un deja vu è palpabile. Del resto, non è la prima volta che autorevoli esponenti della sinistra indicano il lavacro dei sacrifici quale soluzione necessaria per la salvezza economica e il rinnovamento politico nazionale. Nel corso degli anni Settanta, sulla scia della crisi petrolifera e della cosiddetta stagflazione, fu nientemeno che Enrico Berlinguer a introdurre con insistenza nel lessico della sinistra espressioni come «rigore», «duro sforzo», «tensione eccezionale» e, per l’appunto, «austerità». Il culmine venne forse raggiunto nel 1977, in un celebre discorso al Teatro Eliseo, quando Berlinguer presentò la politica di austerità come una «scelta obbligata e duratura […] condizione di salvezza per i popoli dell’occidente e […] in modo particolare, per il popolo italiano». Per Berlinguer invocare l’austerità significava «abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle riserve, di dissesto finanziario». Non si trattava di parole gettate lì per caso. Quei termini riflettevano lo spirito del tempo, e in particolare quel tormentato, incompiuto processo di avvicinamento del più grande partito comunista d’occidente alle soglie del governo nazionale. L’impatto di quelle espressioni sull’opinione pubblica non fu tuttavia dei più agevoli. Molti intravidero nella linea del segretario del Pci l’annuncio di un ritorno alle privazioni da cui i ceti più deboli del paese si erano soltanto da poco affrancati. Altri l’attaccarono strumentalmente, scorgendo in essa un’opportunità per contrastare l’avanzata dei comunisti verso le leve del potere. Da più parti, dunque, per intenti più o meno manifesti, Berlinguer venne tacciato di «savonarolismo», vocazione «monacale», «moralismo» finalizzato solo a giustificare una ulteriore stretta sulla «cinghia dei poveri». Eppure il segretario comunista concepiva la politica di austerità anche nei termini ambiziosi di una scelta caratterizzata da «un avanzato, concreto contenuto di classe». A suo dire, attraverso di essa, il movimento operaio si sarebbe fatto portatore di «un modo diverso del vivere sociale», attento alla qualità dello sviluppo, alla salvaguardia dell’ambiente e del territorio, e alla connessa esigenza di spostare gli obiettivi generali della produzione dallo stimolo ai consumi privati al soddisfacimento dei bisogni collettivi. Berlinguer proponeva insomma una concezione peculiare dell’austerità, intesa come una «programmazione dello sviluppo che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale», e che per questo fuoriesce «dal quadro e dalla logica del capitalismo».
E’ palese la distanza che separa questa visione dal significato che la parola “austerità” ha assunto nei successivi anni Novanta, durante i quali gli eredi di Berlinguer assicurarono i consensi necessari alla prima, vera svolta tecnocratica del paese, incarnata da Ciampi e dai suoi boys. Ed è forse ancor più accentuato il divario rispetto al significato che oggi Napolitano attribuisce al termine, inteso senza nascondimenti come un doveroso tributo ai mercati finanziari e ai creditori. Sarebbe tuttavia un errore separare nettamente i giudizi su queste diverse concezioni dell’austerità, dal momento che un filo logico lega la vecchia alle nuove. Tutte, infatti, sono state ispirate dalla comune esigenza di misurarsi con quello che in gergo economico si definisce un «vincolo esterno». Per Berlinguer, in ultima istanza, era il vincolo di render compatibili l’ascesa comunista al governo con l’esigenza di una più stabile integrazione del paese negli assetti di potere continentali, fino alla prospettiva dell’ingresso nel Sistema monetario europeo (al quale, se la stagione della solidarietà nazionale fosse proseguita, i comunisti non avrebbero negato il consenso). Per Napolitano, è il vincolo ancor più stringente di mantenere saldamente l’Italia nel perimetro dell’Unione monetaria europea, anche a costo di vedere il sistema produttivo nazionale definitivamente ridotto al rango di mera appendice dell’economia tedesca. La questione, tuttavia, non è semplicemente economica. Come vedremo nelle prossime pagine, sul piano analitico il vincolo esterno non si concretizza semplicemente in un problema di sostenibilità dei conti pubblici ma riguarda piuttosto la tenuta della posizione finanziaria verso l’estero nelle sue varie declinazioni, e per questa via solleva una questione di compatibilità tra il corretto funzionamento di una democrazia sovrana e il rafforzamento di un legame di dipendenza con i meccanismi di riproduzione del capitale finanziario internazionale. Man mano che quel legame di dipendenza si fa più stretto, il cosiddetto vincolo esterno può esigere dosi sempre più massicce di austerity e può quindi trasformarsi in un nodo letale per i diritti sociali e la partecipazione politica, in un cappio al collo del processo democratico. Beninteso, nessuno dei protagonisti citati è stato mai all’oscuro del prezzo, per la democrazia, di una subordinazione al cosiddetto vincolo esterno. In linea di principio, la loro ambizione era ed è quella di collocare la sfida per la democrazia ad un livello più alto, sovranazionale: addirittura l’eurocomunismo, per Berlinguer; più modestamente un rafforzamento delle istituzioni parlamentari europee, per Napolitano. Oggi come ieri, tuttavia, la storia sembra muovere in un’altra direzione. Il motivo in fondo è semplice: in nessun caso la volontà politica di integrazione è stata accompagnata da una forza d’urto in grado anche solo di provare a mettere in discussione la logica del regime di accumulazione che governava le relazioni internazionali. [...]
       
Testo tratto dal capitolo “Il fascino discreto dell’austerity”, in Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte. 

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