Il
prof. Guglielmo Forges Davanzati, docente presso l’Università del
Salento affronta temi eterogenei ed estremamente attuali: dal jobs act
di Renzi, al problema del credit crunch bancario, alla controversa
visione della produttività, al nesso tra Circuitismo e Modern Money
Theory fino alla delicata questione della moneta unica e di una
possibile “exit strategy”.
In un suo recente articolo ha affermato che il Jobs Act di Renzi sia “una proposta sostanzialmente vuota” e che riproporrebbe, in modalità diverse, ulteriori politiche di precarizzazione del lavoro. Alla luce di questa affermazione, secondo lei, quali sarebbero le misure che il Governo dovrebbe invece adottare per rilanciare l’occupazione e ridurre la disoccupazione che ha raggiunto la drammatica soglia del 12,9% e del 42,4% per i giovani?
Il Jobs Act recepisce una proposta di Boeri e Garibaldi, che fa
riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a
tutele crescenti. Avendo realizzato che alle imprese non serve poter
disporre di una selva di tipologie contrattuali (come previsto nella
c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione,
finalizzato ad abolire alcune tipologie contrattuali tuttora vigenti, e
non utilizzate, e istituire un contratto unico con un iniziale periodo
di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. Ma il
contratto unico a tutele crescenti non sostituisce i contratti a tempo
determinato. In questo senso, la proposta è vuota, ovvero non modifica,
nella sostanza, nulla.
Le politiche di precarizzazione del lavoro hanno effetti negativi
sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei
salari rispetto al PIL. Vi è ampia evidenza empirica che mostra che
all’aumentare della flessibilità del lavoro –misurata dall’EPL
(Employment protection legislation)– l’occupazione non solo non aumenta,
ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il
fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a
riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è
peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese
nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica
riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto
nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo,
dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le
fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa
presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo
collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in
condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata
probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca
del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a
cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte
delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti
relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo
del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale. Il fatto
che la riduzione della protezione dei lavoratori riduce l’occupazione è
spiegabile alla luce di almeno due effetti macroeconomici.
1) La flessibilità riduce la propensione al
consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato
rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi
futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di
disoccupazione riducendo i consumi, per quanto ciò sia possibile, con
conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata interna. La
riduzione dei consumi, associata al crescere della precarietà, deriva
anche da due cause ulteriori: la difficoltà (se non l’impossibilità)
per i lavoratori con contratto a tempo determinato di accedere a mutui,
e –in quanto il precariato riguarda prevalentemente individui
provenienti da famiglie con basso reddito– la scarsa disponibilità di
risorse derivanti dai risparmi delle famiglie d’origine.
2) A ciò si aggiunge che l’adozione di
contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei
costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita
dimensionale delle imprese. Come rilevava Keynes: “se si paga meglio
una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo
a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita
dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo
standard generale”. Dunque, sono semmai misure che rendano più rigido
il mercato del lavoro a poter creare le condizioni per l’aumento
dell’occupazione e del tasso di crescita.
Professore molti ritengono che il fenomeno del credit crunch (stretta del credito) da parte degli istituti finanziari (banche) sia dovuto a diverse ragioni tra le quali l’avidità e l’incompetenza di chi gestisce gli Istituti di credito o i modesti incentivi che ricevono i manager delle banche o ancora viene fatto dipendere dalla bassa capitalizzazione del sistema bancario. A ragion veduta si può ritenere che la restrizione del credito sia causata da “altri fattori”, può spiegarci quali?
Le principali banche centrali dei Paesi industrializzati – BCE
inclusa – stanno, da tempo, inondando di liquidità il sistema economico,
adottando politiche monetarie definite “non convenzionali”. Con quali
risultati? Ci si aspetterebbe un aumento degli investimenti e
dell’occupazione. Ci si aspetterebbe anche un aumento del tasso di
inflazione. Per contro, sta accadendo il contrario o comunque non si
stanno verificando i risultati attesi. Su fonte ISTAT, si registra che,
in Italia, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione
del 3.3%, il tasso di disoccupazione è aumentato, dal 2012 al 2013, di
circa un punto percentuale e le (più ottimistiche) previsioni indicano
un tasso di crescita nell’ordine del -1.4%. Il tasso di inflazione
resta sostanzialmente fermo su valori di poco superiori all’1%. Le
principali motivazioni che spiegano la sostanziale inefficacia delle
politiche monetarie espansive nell’attuale configurazione del
capitalismo sono così sintetizzabili.
1) In una condizione di aspettative
pessimistiche, la riduzione dei tassi di interesse non costituisce un
incentivo rilevante per effettuare investimenti o, al limite, è una
condizione totalmente irrilevante nelle decisioni di spesa delle
imprese. Si osservi che le aspettative non sono un dato ma dipendono in
modo cruciale dall’andamento della domanda. In fasi recessive,
caratterizzate da bassa e declinante domanda di beni di investimento e
beni di consumo, è del tutto ovvio che le imprese posticipino i loro
investimenti, attivando un circolo vizioso che, in assenza di
interventi esterni, è destinato ad autoalimentarsi. La riduzione degli
investimenti, infatti, contribuisce a generare ulteriori riduzioni
della domanda aggregata e ulteriori aumenti del tasso di
disoccupazione. La riduzione della domanda, a sua volta, disincentiva
gli investimenti.
2) Un basso tasso di inflazione – attuale e atteso - costituisce un ulteriore fattore di freno agli investimenti, dal momento che gli imprenditori assumono rischi se ritengono di poter vendere a prezzi tali da consentire loro di acquisire margini di profitto ‘normali’. In tal senso, la riduzione del tasso di inflazione definisce una condizione per la quale i costi inizialmente sostenuti per attuare un progetto di investimento eccedono i ricavi attesi. Se si ammette che gli investimenti crescono al crescere del tasso di inflazione, non si capisce per quale ragione la BCE continui a darsi un target del 2%, oltre il quale si ritiene obbligata a intervenire riducendo il tasso di inflazione. D’altra parte, il target del 2% non trova riscontro in un fondamento ‘scientifico’ inoppugnabile, e riflette una decisione esclusivamente politica.
2) Un basso tasso di inflazione – attuale e atteso - costituisce un ulteriore fattore di freno agli investimenti, dal momento che gli imprenditori assumono rischi se ritengono di poter vendere a prezzi tali da consentire loro di acquisire margini di profitto ‘normali’. In tal senso, la riduzione del tasso di inflazione definisce una condizione per la quale i costi inizialmente sostenuti per attuare un progetto di investimento eccedono i ricavi attesi. Se si ammette che gli investimenti crescono al crescere del tasso di inflazione, non si capisce per quale ragione la BCE continui a darsi un target del 2%, oltre il quale si ritiene obbligata a intervenire riducendo il tasso di inflazione. D’altra parte, il target del 2% non trova riscontro in un fondamento ‘scientifico’ inoppugnabile, e riflette una decisione esclusivamente politica.
3) Il fattore più rilevante che motiva
l’inefficacia delle politiche monetarie espansive risiede negli effetti
che queste producono sulla gestione del credito da parte delle banche
commerciali. Come documentato dalla Banca d’Italia fin dal 2010, in
Italia (e nei principali Paesi OCSE) è in atto una rilevante
restrizione del credito combinata con una altrettanto rilevante
riduzione della domanda di finanziamenti da parte delle imprese. Da qui
un apparente puzzle. Come è possibile tenere insieme una consistente
immissione di liquidità da parte delle banche centrali con la riduzione
del credito da parte delle banche commerciali? Si consideri che i
profitti delle principali banche internazionali sono in costante
aumento. I principali istituti di credito su scala globale fanno
registrare incrementi di utili eccezionali: si stima che, su base
annua, JP Morgan, Ciibank, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman
Sachs abbiano, in media, più che raddoppiato i loro profitti. In una
condizione “fisiologica”, nella quale le banche raccolgono risparmi per
erogare finanziamenti, i profitti bancari sono dati dalla differenza
fra i ricavi ottenuti dal rimborso del debito maggiorato con interessi
da parte delle imprese e gli interessi dovuti ai risparmiatori (più i
costi di gestione).
Nella condizione attuale, è da escludere che i profitti siano
generati dagli interessi pagati dalle imprese, proprio a ragione della
restrizione del credito in atto. La gran parte dell’incremento degli
utili bancari va, dunque, imputato all’attività speculativa, ovvero
all’acquisto e alla vendita di titoli sui mercati finanziari, e a
operazioni di acquisizione e fusione.
Si è, dunque, in presenza di un fenomeno – la “finanziarizzazione”
bancaria – che, per le dimensioni assunte, è decisamente inedito. Tutto
ciò è reso possibile, in ultima analisi, da due fattori: la piena
libertà assegnata all’intero sistema bancario di operare senza vincoli
sui mercati finanziari e, soprattutto, l’attuazione di politiche fiscali
restrittive.
La caduta della domanda aggregata –accelerata dalle politiche di
austerità– riducendo i mercati di sbocco, riduce i profitti delle
imprese, fino a determinarne il fallimento. Ciò si traduce, da un lato,
in una riduzione delle garanzie che le imprese possono offrire alle
banche per ottenere finanziamenti e, dall’altro, nel peggioramento delle
aspettative imprenditoriali. Le imprese domandano meno credito e le
banche –assegnando maggiore rischiosità ai progetti di investimento–
riducono l’offerta di credito. Ne segue l’aumento del tasso di
disoccupazione e, a fronte della riduzione degli investimenti (e,
dunque, della crescita dell’obsolescenza del capitale tecnico), e la
riduzione della produttività del lavoro. Tassi di disoccupazione
crescenti e bassa crescita della produttività non possono che generare
continue riduzioni del tasso di crescita. In definitiva, una politica
monetaria espansiva che non sia associata a una politica fiscale
espansiva è del tutto inefficace.
Uno dei temi molto in voga nel panorama politico è il continuo richiamo alla produttività: molti dei mali dell’Italia, se non tutti, vengono attribuiti ad un suo basso livello al contrario della Germania che viene continuamente elogiata per i suoi alti livelli; Adam Posen, invece, non rileva questo grosso incremento della produttività tedesca e soprattutto quest’ultima è cresciuta molto più velocemente rispetto ai salari. Secondo Lei da cosa dipende la produttività? Aumentarla è la soluzione per uscire dalla crisi?
Non vi è dubbio che la crescita tedesca sia soprattutto dovuta a
politiche di deflazione salariale, con una dinamica sostenuta (anche se
ora in flessione) della produttività, secondo un modello di export-led
growth. Accrescere la produttività è senza dubbio uno strumento
rilevante per uscire dalla recessione: il problema sta in come
raggiungere questo obiettivo.
Veniamo all’Italia. L’ex Ministro Fornero ha recentemente dichiarato
che gli italiani lavorano poco e male, e che la bassa crescita della
nostra economia dipende anche da questo. La dichiarazione merita di
essere commentata perché esplicita una convinzione diffusa, spesso
declinata in modo meno drastico. Non vi è dubbio che uno dei principali
problemi dell’economia italiana, se non il principale problema,
riguarda il basso tasso di crescita economica, a sua volta in larga
misura imputabile alla bassa (e declinante) produttività del lavoro. Vi
sono molti dubbi, invece, sulla diagnosi della prof. Fornero.
Occorre innanzitutto chiarire che, su fonte OCSE, le ore lavorate in
Italia sono superiori a quelle erogate nei principali Paesi
industrializzati. È dunque falsa l’affermazione secondo la quale in
Italia si lavora poco. Ed è anche falsa l’affermazione secondo la quale
in Italia si lavora “male”, ovvero è basso il rendimento dei lavoratori
occupati. Vediamo perché. La produttività del lavoro dipende
fondamentalmente da tre variabili: il capitale fisso di cui il
lavoratore dispone, il suo “capitale umano” (derivante dal learning by
schooling e dal learning by doing), la sua motivazione al lavoro. La
politica del lavoro –in questi ultimi anni– ha provato ad agire quasi
esclusivamente su quest’ultima variabile, anche per impulso dell’ex
Ministro. Sono state implementate misure di crescente deregolamentazione
del mercato del lavoro, con l’obiettivo di incentivare l’impegno
lavorativo, ponendo i lavoratori nella condizione di erogare il massimo
rendimento per accrescere la probabilità di rinnovo del contratto. Sono
state introdotte misure di detassazione del salario, ispirate all’idea
secondo la quale i lavoratori sono incentivati a fornire maggiore
impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle
loro retribuzioni.
È una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di
revisione del modello di relazioni industriali, che intende andare (e,
di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione
“atomistica”, nel quale il singolo lavoratore – con la minima
“interferenza” delle organizzazioni sindacali – contratta direttamente
con il proprio datore di lavoro.
Quali sono stati gli esiti? Come certificato nell’ultimo Rapporto
OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi,
fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati e, a partire
dagli anni ottanta (ovvero proprio dalla fase nella quale si è
cominciato a mettere in atto queste politiche), è costantemente
declinata.
La ragione fondamentale che spiega la costante riduzione della
produttività del lavoro in Italia è da ricercarsi, semmai, nella bassa
(e declinante) accumulazione di capitale, non nello scarso rendimento
dei lavoratori italiani. Se fosse vera la seconda congettura, infatti,
ci troveremmo in una condizione nella quale, con un alto tasso di
disoccupazione e ampia discrezionalità dei licenziamenti, la
produttività dovrebbe risultare elevata, per l’elevata credibilità della
“minaccia di licenziamento”. Per contro, è proprio una condizione di
elevata (e crescente) disoccupazione a generare cali di produttività.
Ciò accade per l’operare di questo meccanismo. Le nostre imprese, fatte
salve poche eccezioni, esprimono una bassa propensione all’innovazione,
dal momento che, nella gran parte dei casi, sono imprese di piccole
dimensioni con una specializzazione produttiva in settori “maturi”.
Il circuitismo, di cui lei è uno tra i massimi esponenti, presenta notevoli punti di contatto con la MMT, la teoria portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard, i cui maggiori esponenti sono W. Mosler, R.L. Wray, M. Forstater, W. Mitchell etc… Ultimamente il prof. Alain Parguez (fondatore del circuitismo francese) ha abbracciato in toto la MMT. Potrebbe descriverci, se ci sono, i punti di dissonanza tra questa teoria e il circuitismo?
A me non sembra che la MMT rappresenti qualcosa di radicalmente nuovo
rispetto alla teoria del circuito monetario, in particolare nella
formulazione datane da Augusto Graziani in Italia fin dai primi anni
’80. Schematicamente, la teoria del circuito monetario (o teoria
monetaria della produzione – TMP) analizza lo svolgimento del processo
economico, in un’economia capitalistica, assumendo l’esistenza di tre
macro-agenti: banche, imprese e lavoratori. Lo schema prevede fasi
sequenziali circolari, articolate come segue. Le banche, nel loro
complesso, creano moneta-credito sulla base della domanda di
finanziamento proveniente dalle imprese. L’offerta di moneta è endogena
ed, essendo la moneta un puro segno, la sua produzione non incontra
vincoli tecnici: in tal senso, è producibile ad infinitum. Le imprese
quantificano la domanda di finanziamenti (il c.d. initial finance) sulla
base del monte salari contrattato con i lavoratori. Gli scambi interni
al macrooperatore imprese danno luogo a un saldo netto nullo, dal
momento che non si dà fuoruscita di moneta dal sistema delle imprese. Il
monte salari monetario torna alle imprese sotto forma di ricavi di
vendita e le imprese restituiscono il debito alle banche. La MMT fa
partire, per contro, il circuito monetario dalla spesa pubblica,
rilevando che, sul piano logico, non si potrebbe avere prelievo fiscale
senza una preventiva immissione di moneta da parte dello Stato. Come ha
correttamente rilevato Mark Lavoie, questa assunzione discende dal
considerare il settore bancario e lo Stato come un unico settore
consolidato. Al di là degli aspetti tecnici relativi a (marginali)
divergenze sulla natura e il ruolo della moneta, credo che sia rilevante
sottolineare come entrambi gli orientamenti convergano nel ritenere
che un’economia capitalistica di mercato genera spontaneamente
disoccupazione, e come, per conseguenza, sia necessario un incisivo
intervento pubblico in economia.
La proposta di Wray – che recupera quella di Minsky – secondo la
quale l’operatore pubblico dovrebbe svolgere la funzione di “datore di
lavoro di ultima istanza” mi pare pienamente recepibile anche nel
contesto teorico della TMP.
In un paper denominato “Modern Money Theory 101: A Reply to Critics”, Wray e Tymoigne hanno chiarito alcuni punti discussi della MMT: tra i vari aspetti analizzati c’era anche quello relativo alla banca centrale e al ruolo della moneta nel circuito. Loro hanno precisato dunque che la moneta di stato (HPM) è accettata dalle banche in quanto necessaria a regolare i conti di riserva presso la propria banca centrale, e che le riserve vengono immesse nel sistema con la spesa pubblica. Se le cose stanno cosi allora, in cima al circuito si andrebbero a collocare il Tesoro e la Banca Centrale (che svolgono operazioni simultanee e a stretto contatto) denominate “settore governativo”. Il prof. Parguez ha accettato questa modifica e l’ha inserita nel suo modello. Lei cosa pensa a riguardo?
Esistono modelli “circuitisti” nei quali la produzione di moneta
avviene in presenza di una Banca centrale. Ma resta ferma l’ipotesi che
la creazione di moneta avviene da parte del sistema bancario su domanda
delle imprese (assumendo, in prima istanza, che le banche siano
perfettamente accomodanti, ovvero che non restringano o razionino
l’offerta di credito). Per quanto capisco, la tesi secondo la quale
l’immissione di moneta avviene mediante spesa pubblica finanziata dalla
Banca Centrale può valere in particolari contesti istituzionali, e,
quindi, non può essere considerata una tesi di carattere generale.
Nel circuito monetario tra banche, imprese e lavoratori manca inizialmente una parte, che verrà poi aggiunta al lavoro compiuto da Graziani (come ricorda anche Giorgio Gattei , in una recente intervista rilasciata a “Economia per i Cittadini”): manca la “monetizzazione del plusprodotto”. Se infatti l’intero salario venisse speso nell’acquisto dell’intera produzione , verrebbe a mancare la moneta necessaria a monetizzare i profitti delle imprese. Quindi, dando per scontato che la totalità delle nazioni non potranno mai vantare esportazioni nette contemporaneamente, Le chiedo: il debito pubblico è una necessità degli Stati?
Sì, si tratta del c.d. paradosso dei profitti, per il quale, siccome i
ricavi monetari eguaglianoi costi monetari per la collettività delle
imprese (posta uguale a 1 la propensione al consumo dei lavoratori), i
profitti monetari aggregati al netto degli interessi risultano nulli. A
fronte dei numerosi tentativi di risolvere “tecnicamente” il problema,
resta il punto teorico sollevato da Giorgio Gattei: la riproduzione
monetaria del capitalismo può avvenire solo a condizione di espandere il
debito pubblico.
Veniamo all’euro. Il nostro punto di vista è il seguente: data l’irriformabilità dell’euro, causa assenza reale di volontà politica, l’uscita dall’euro, e probabilmente dall’unione europea, risulta l’unica via percorribile ma da sola non è sufficiente! Ipotizzando una “Euro exit” con le attuali politiche di austerità, la situazione italiana rischierebbe addirittura di aggravarsi. E. Brancaccio ipotizza un’uscita da “sinistra” proprio per evitare soluzioni “gattopardesche” (ad esempio, il ricorso alla svalutazione come volano di un’economia al traino dell’export, c.d. “export-led”). Anche A. Graziani sottolineava tutta una serie di rischi e di disequilibri legati a tale possibilità. Qual è il suo pensiero in merito?
Credo che occorra preliminarmente sgombrare il campo da un duplice
equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti
dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte
dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia
dall’UME, vi sarebbe spazio per l’attuazione di politiche fiscali
espansive, ed eventualmente di recupero di competitività via
svalutazione del tasso di cambio. Il primo equivoco nasce dal fatto che
il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è
sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e,
dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra
economia. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo
rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il
primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle
nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono
succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza
minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti,
in tal senso, è emblematica.
Il secondo equivoco nasce da
un’interpretazione –piuttosto diffusa– del funzionamento della politica
economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit”
porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle
politiche economiche in Italia. È ovvio, per contro, che nulla assicura
che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e
cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a
scelte politiche che vadano nella direzione di un aumento della spesa
pubblica, di misure di ridistribuzione del reddito, di detassazione, ed
eventualmente della svalutazione del tasso di cambio. In quest’ultimo
caso, peraltro, come è stato osservato, si avrebbe un calo dei salari
reali –tramite inflazione importata– che dovrebbe essere compensato
dall’introduzione di meccanismi di indicizzazione. Ma, anche qui, siamo
nella sfera delle decisioni politiche che verranno assunte dopo
l’eventuale abbandono della moneta unica, dunque del tutto
imprevedibili.
Si può anche considerare che l’abbandono dell’euro da parte italiana
non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una
struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco
innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale. E, d’altra
parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dal ritorno al marco,
anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi
europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò
fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle
esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle
esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a
vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e
considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla
tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente concludere
che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità
dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di
esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non
l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro.
Se si accetta questa analisi, occorre semmai lavorare per riformare l’Unione Monetaria Europea.
Si tratta di continuare a fare anche un lavoro di critica della
politica economica (oltre che, ovviamente, battaglia politica), che, per
alcuni aspetti, già qualche risultato ha dato. Ci si riferisce, in
particolare, ai numerosi contributi di Paul Krugman sulla irrazionalità
delle politiche di austerità e alla scoperta del clamoroso errore
commesso da Reinhart e Rogoff nella quantificazione dei criteri di
sostenibilità del debito pubblico. Mentre è difficilmente discutibile la
tesi secondo la quale sono gli interessi di classe a guidare la
politica economica, è controversa e più difficilmente difendibile l’idea
che la critica della politica economica sia sostanzialmente
ininfluente. Si tratta di una vexata quaestio, che, tuttavia, risulta
decisamente attuale nel contesto presente. Non si può ignorare la
(timida e tardiva) presa d’atto del fatto che le politiche di austerità
non soltanto producono recessione, ma sono anche del tutto inefficaci
per l’obiettivo che (ufficialmente) si propongono, ovvero la riduzione
del rapporto debito pubblico/PIL. E si può ritenere che ciò dipenda
anche dall’enorme mole di pubblicazioni, prodotte in questi ultimi anni,
che ha dimostrato che le politiche di austerità generano
esclusivamente “inutili sofferenze”, come peraltro certificato dal
Fondo Monetario Internazionale. Così come non si può ignorare il fatto
che i nuovi Trattati Europei (in particolare, il Six-Pack) contengano
alcune clausole che, di fatto, recepiscono proposte provenienti da
economisti “eterodossi”: si pensi alla norma che prevede procedure di
infrazione per avanzi/disavanzi eccessivi della bilancia commerciale,
misura palesemente in contrasto rispetto alla tradizionale impostazione
delle politiche economiche dell’Unione, che riprende un’analoga
proposta formulata (senza successo) da John Maynard Keynes nella
conferenza di Bretton Woods (l’”international clearing union”). Certo,
si può sostenere che si tratta di un episodi marginali.
Ma va riconosciuto che, pure a fronte del fatto che il “pensiero
unico” è dominante nelle Università e nei media, il capitale non sempre
riesce a mettere sotto silenzio le voci critiche e, dunque, non sempre
riesce a contenere le spinte conflittuali. Con solo. Le dinamiche in
atto si svolgono all’interno di un capitalismo “flessibile”, capace di
adattarsi e di mutare, e di modificare le proprie strategie in relazione
alla necessità di creare, contestualmente, le condizioni per la sua
riproduzione e le condizioni per la sua legittimazione sociale. E, nel
modificare le proprie strategie, esprime una domanda di idee economiche
che rende il mainstream sempre più disponibile a recepire posizioni
teorico-politiche di orientamento “critico”. Infine. Per correttezza nei
confronti di un grande economista defunto, Augusto Graziani, faccio
rilevare che non hai mai scritto su un’uscita “da sinistra” dalla moneta
unica.
Siamo totalmente d’accordo sull’assenza di una politica industriale che dura ormai da decenni nel nostro paese. É lecito sostenere che l’assenza di una politica industriale sia stata favorita anche a causa dei vincoli adottati per l’adesione al serpente monetario europeo e allo SME successivamente: l’euro è solo la fine di un processo iniziato negli anni 70. Secondo Lei Professore, é possibile tornare ad effettuare nuovamente politiche industriali rimanendo nell’euro?
Non credo che, di per sé, un sistema di cambi fissi impedisca di fare
politiche industriali. Più in generale, gli attuali problemi economici
italiani non mi sembrano discendere direttamente dall’adozione della
moneta unica, ma da scelte politiche reiterate nel corso degli ultimi
ventenni che hanno delineato un modello di specializzazione produttiva
in settori “maturi” e sempre meno competitivi su scala internazionale. I
vincoli europei e le politiche di austerità hanno drammaticamente
accentuato i problemi.
Qualora si dovesse scegliere di abbandonare l’eurozona: non sarebbe forse auspicabile, come dicono i sostenitori “dell’uscita dall’euro da sinistra”, adottare misure di protezione come il ripristino dell’indicizzazione dei salari, l’introduzione di dazi per le importazioni, la “difesa” degli asset industriali strategici, la nazionalizzazione dei grandi istituti di credito?
Ovviamente sarebbero misure auspicabili, ma – ripeto – l’abbandono
dell’eurozona non è né una condizione permissiva né una condizione
cogente perché si facciano politiche ridistributive. Non riesco a vedere
un nesso fra fuoriuscita dall’UME e un plebiscito a favore di Governi
di sinistra in Italia. Semmai – date le condizioni attuali – una
deflagrazione dell’Unione potrebbe aprire spazi per formazioni politiche
xenofobe, fasciste, neo-naziste.
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