Mettiamo in fila alcune notizie e vedremo all'improvviso un
allineamento dei pianeti che getta una luce vivida su quanto sta
avvenendo nel mondo in questi mesi. Nel mondo, anche se è in Europa il
fulcro fondamentale che può determinare l'esito della partita.
Prima notizia. Il cda del gruppo francese Alstom ha deciso di accettare l'offerta di
General Electric, decisa ad acquistare il suo settore energetico, pari
al 72% del fatturato. In apparenza sembra una sfida al governo Hollande,
in particolare al ministro dell'economia Arnaud Montebourg,
che aveva preteso un ripensamento, visto che proprio nelle ultime ore
si era fatta avanti la tedesca Siemens – verosimilmente su pressione dei
due governi europei. Le motivazioni erano del resto chiarissime: una
società privata deve pensare soltanto a “creare valore per gli
azionisti”, mentre un governo deve mantenere la “sovranità economica”.
Specie in un settore strategico decisivo come l'energia.
Non c'entrava
nulla (o molto poco) il proverbiale “nazionalismo francese”. Era invece
la manifestazione plastica di come le ambizioni imperialiste dell'Unione
Europea (incardinate sul rapporto franco-tedesco) fossero minacciate da
un'interferenza statunitense.
La decisione del
cda di Alstom è però una mediazione con la richiesta del governo. Ha
infatti contemporaneamente chiesto una “expertise indipendente”
sull'offerta americana che durerà almeno un mese. Ovvero il tempo
chiesto da Siemens per articolare più dettagliatamente la propria
offerta (basata per ora su uno scambio tra le attività energetiche e
quelle ferroviarie, in cui sia Alstom che Siemens sono molto forti),
sfruttando al meglio l'impossibilità per General Electric – nel
frattempo - di cambiare l'articolato e renderlo più “competitivo”
rispetto a quello tedesco. Partita
ancora aperta dunque, con i governi e l'Unione Europea in campo per
impedire una mossa che nessuno sano di mente attribuisce al “libero
gioco del mercato”.
Seconda notizia.
La crisi Ucraina si approfondisce. Ed anche in questo caso gli Stati
Uniti spingono per “sanzioni più dure” contro la Russia, mentre gli
europei nicchiano e si muovono in modo decisamente più soft. In gioco –
anche qui – ci sono le forniture energetiche che Mosca e i suoi
satelliti (Kazakhstan, soprattutto) garantiscono da anni a un'Europa che
ne è priva o quasi.
Terza notizia.
L'ambasciata statunitense a Roma ha inviato una comunicazione ufficiale
al governo italiano invitandolo a rispettare l'impegno a comprare tutti i
90 aerei F35, come da accordi sottoscritti a suo tempo. Perché
“ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli
investimenti e, dunque, sui benefici non soltanto sotto il profilo
militare, ma anche in termini economici in generale e occupazionali in
particolare”. Un ricatto mirante a sotterrare l'ipotesi renziana di
“risparmiare” a conti pubblici sotto stress – e da tagliare
pesantemente, secondo le indicazioni dell'Unione Europea, alla vigilia
dell'entrata in vigore del Fiscal Compact – un esborso considerevole e
soprattutto senza alcun ritorno economico o occupazionale serio (giusto
alcune commesse minori).
Quarta notizia.
Gli Stati Uniti hanno riannodato i rapporti con le Filippine e quindi
riapriranno proprie basi militari nel paese, in esplicita funzione
anti-cinese.
Ne potremmo
inanellare molte altre, di questi giorni o delle ultime settimane (a
cominciare dalla “ripresa di possesso” che si va manifestando
sull'America Latina, attraverso il foraggiamento delle opposizioni in
Venezuela, Bolivia, Ecuador, ecc).
Ma ci sembra più
utile menzionarne soltanto un'altra: secondo uno studio
dell'International Comparison Program della Banca Mondiale, citato dal Financial Times
di oggi, gli Stati Uniti stanno per perdere il loro primato e si
apprestano a consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo.
Il
sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest'anno.
Gli Stati Uniti detengono il primo posto dal 1872, quando avevano
superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall'India,
che sta per prendersi il terzo posto.
È la temuta crisi
dell'egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda
guerra mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti. Non
si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere
anche la prima economia del pianeta. Il “lungo addio” della Gran
Bretagna all'egemonia globale è potuto esser tale solo grazie a un mondo
assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l'ex colonia che
stava diventando una superpotenza.
Oggi l'economia
finanziaria viaggia in tempo reale. La competizione a questo livello si
gioca sui centesimi di secondo. E anche le forze militari sono
mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi. In compenso, si fa per
dire, gli approvvigionamenti energetici stanno diventando sempre più
problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non
convenzionali” sufficienti per ora appena a mantenere allo stesso
livello i consumi planetari.
La quinta
notizia, insomma, spiega tutte le altre. Gli Stati Uniti sanno meglio di
tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio. E hanno deciso di
lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo”
in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”; ovvero dei
privilegiati che possono affrontare i propri problemi stampando dollari e
imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici. Attaccano
in Europa cogliendo i due punti deboli dell'emergente imperialismo
dell'Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare.
Attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l'esplosiva
influenza economica cinese. Gli Usa si giocano il tutto per tutto, prima
che le loro debolezze diventino laceranti o immobilizzanti.
È una dinamica
antica e ripetitiva, una coazione a ripetere; ma estremamente
pericolosa. La crisi economica non passa, la guerra inter-imperialista
si affaccia di nuovo come possibile soluzione. Peccato che tutte quelle
testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una
sola certezza: non ci sarebbero vincitori.
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