Ieri Grillo
è andato a fare un comizio a Piombino ed ha fatto un attacco frontale al PD e
al Sindacato in quanto tale, Fiom compresa. I giornali parlano di 2/3.000
persone. I compagni e le compagne di Piombino che ho sentito di 400/800, di cui
larga parte venuti da fuori con agli autobus. Un cartello che contestava a
Grillo la strumentalità elettorale della sua presenza è stato tolto brutalmente
dalle mani di chi lo teneva - un operaio dell'acciaieria - e fatto sparire dal
servizio d'ordine. Gli operai che in questi hanno hanno fatto le lotte contro
la chiusura dell'acciaieria - una minoranza è bene saperlo - non c'erano, anzi
hanno fatto nei giorni scorsi un invito a Grillo a non venire. Grillo ha
dimostrato nel comizio di non conoscere per nulla la realtà dell'acciaieria di
Piombino, che ha fatto le rotaie per le ferrovie di tutta Europa e non potrà
mai fare pentole. Grillo però i voti li prenderà, anche a Piombino. Non i voti
di chi ha lottato contro la chiusura, di chi si è battuto contro la privatizzazione
della siderurgia ma i voti dei delusi e dei disperati. Vi è chi ha già fatto
notare un anno fa che il successo di Grillo è costruito sulla disperazione che
nasce dalla sconfitta dei movimenti. L'elemento che nella vicenda di Piombino
si evidenzia, è che oggi questa disperazione non solo si è trasformata in
delega all'uomo della provvidenza, ma che sta trasformandosi in delega passiva
priva di ogni speranza. La cosa era certo prevedibile: se le cose vanno male e
per raddrizzarle occorre costruire i rapporti di forza, cosa che non si fa con
4 vaffa e correndo dietro al senso comune su ogni stupidaggine entrata in testa
nella maggioranza degli italiani. Nel cartello che denuncia la strumentalità di
Grillo vi è il segnale di un punto di passaggio: dal Grillo fuori del palazzo e
che rappresenta il popolo, al Grillo che è dentro il palazzo, che ha preso il
25% dei voti, che sta tutti i giorni sui giornali e che non ha cambiato nulla,
ma proprio nulla. Del Grillo che non sa cosa proporre se non di dargli più voti
e più potere. Grillo per una fase ha riempito un vuoto, ha fatto sperare tanta
gente che si riaprisse una efficacia della politica. Oggi comincia a non essere
più così. Nel momento più buio, dove la demagogia e la teatralizzazione della
politica la fanno da padrona, dal punto più disperato, dove una fabbrica
simbolo chiude senza grandi conflitti ma lasciando una enorme disperazione, si
riapre un terreno per la sinistra e per i comunisti, cioè per chi non chiede
deleghe per l'uomo della provvidenza ma lavora a ricostruire una soggettività e
una consapevolezza di ognuno e ognuna, cioè di tutti, di massa si sarebbe detto
un tempo. Non vi è nessuna scintilla che può far divampare un incendio ma un
segnale di un lavoro possibile, di cui anche il successo della lista Tsipras
può essere un tassello.
di Paolo Ferrero
«Il lavoro si può anche perdere ma non si può perdere il reddito».
Beppe Grillo spera così, giocando la carta del reddito di cittadinanza,
di conquistare la piazza di operai della Lucchini di Piombino, che
giovedì ha spento l’altoforno. Una città di 36 mila abitanti cresciuta
nel culto dell’etica del lavoro identificato in questa fabbrica e che
ora rischia di perdere la dignità, anzitutto.
Perché il reddito viene dopo. Sono duemila i lavoratori, tra diretti e indiretti, da ieri senza più la certezza del futuro. Venir qui a barattare il reddito di cittadinanza con l’orgoglio della professionalità operaia è un errore che crea un gelo abissale tra il comico e un pubblico che non era il suo e di sicuro non lo è diventato ieri. Nei viali della fabbrica davanti alla Direzione saranno in millecinquecento a sentire Beppe Grillo. È una bella giornata, di quelle che da queste parti si dedicano al mare qualsiasi cosa debba o possa accadere. Le quattro sono un orario compatibile.
Un rigido servizio d’ordine divide, stranamente, gli ingressi tra pubblico e stampa. Il palco è davanti agli uffici. Lì sopra e intorno si stanno scaldando alcune senatrici Cinquestelle, Nunzia Catalfo, Sara Paglini, Laura Bottici, che spiegano a modo loro perché l’accordo di programma siglato l’altro giorno da governo e regione è «una bufula», il trionfo del «solito cinismo delle parole».
Per questa gente, queste parole puzzano di propaganda. I cittadini parlamentari mostrano di non aver compreso. Quando la misura è colma, nella prima metà del vialetti compare un cartello esplicito: «Troppo comodo fassi vedé per i nostro funerale». Grillo sta per salire sul palco. Una manciata di secondi che impedisce di dire che la contestazione fosse diretta proprio a lui. Il servizio d’ordine passa comunque all’azione: il cartello viene strappato dalle mani del signore che si definisce «un quadro della fabbrica», e finisce in brandelli.
Qualcuno nelle prime file comincia a urlare «comunisti, comunisti» mentre il civilissimo candidato sindaco Cinquestelle di Piombino Daniele Pasquinelli chiede maggiore rispetto per le opinioni diverse. Il dissidente se ne va. Il servizio d’ordine trattiene i giornalisti che lo vorrebbero raggiungere. Così van le cose nella democrazia grillina. Il gelo a questo punto si mescola con la tensione. Grillo è sul palco. Animale da palcoscenico, capisce che questo non è il suo pubblico e cerca di blandirlo come può: «Abbassate le bandiere, perché questo è veramente un funerale». Poi attacca a testa bassa: «È il funerale del sindacato, però, che ha continuato a mettervelo in culo con la speranza».
Durissimo contro il Pd e «il regno schifoso della peste rossa tipico di questa zona». (Nel 2013 il Pd ha tenuto con il 44,7% (57,4 nel 2008) nonostante M5S fosse arrivato al 23,9). C’è poco da fare: la prima volta di Grillo in una piazza non grillina non è un bello spettacolo. Non è un bagno di folla, non è un tripudio di invettive sommerse dagli applausi, non è un vaffanculo in cinquantamila. Attacca tutti, «il nano», «l’ebetino», il governatore Rossi, l’Europa «che tiene bloccati due miliardi per la siderurgia e noi dobbiamo andare a prenderceli». Inevitabile il solito, scontato attacco al presidente Napolitano.
Parla poco Grillo, neppure venti minuti anche perché ammette di «non sapere dove va la siderurgia». Non è il suo pubblico. Lo sa anche lui. La gente non applaude. Non si esalta. Tace. Qualcuno comincia a mugugnare e a uscire dal recinto della manifestazione. Prende forma in un attimo l’orgoglio della tuta blu con su scritto Lucchini. «Io non voglio il reddito di cittadinanza», alza la voce Graziano Martinelli. «Io voglio lavorare, non voglio fare il parassita ma per chi ci hanno scambiato, ohhh». È furioso, Martinelli. Vuole un Paese «con le idee chiare sulle politiche industriali e che si metta al tavolo con gli operai per decidere quale sia la soluzione migliore».
di Claudia Fusani, L'Unità
Perché il reddito viene dopo. Sono duemila i lavoratori, tra diretti e indiretti, da ieri senza più la certezza del futuro. Venir qui a barattare il reddito di cittadinanza con l’orgoglio della professionalità operaia è un errore che crea un gelo abissale tra il comico e un pubblico che non era il suo e di sicuro non lo è diventato ieri. Nei viali della fabbrica davanti alla Direzione saranno in millecinquecento a sentire Beppe Grillo. È una bella giornata, di quelle che da queste parti si dedicano al mare qualsiasi cosa debba o possa accadere. Le quattro sono un orario compatibile.
Un rigido servizio d’ordine divide, stranamente, gli ingressi tra pubblico e stampa. Il palco è davanti agli uffici. Lì sopra e intorno si stanno scaldando alcune senatrici Cinquestelle, Nunzia Catalfo, Sara Paglini, Laura Bottici, che spiegano a modo loro perché l’accordo di programma siglato l’altro giorno da governo e regione è «una bufula», il trionfo del «solito cinismo delle parole».
Per questa gente, queste parole puzzano di propaganda. I cittadini parlamentari mostrano di non aver compreso. Quando la misura è colma, nella prima metà del vialetti compare un cartello esplicito: «Troppo comodo fassi vedé per i nostro funerale». Grillo sta per salire sul palco. Una manciata di secondi che impedisce di dire che la contestazione fosse diretta proprio a lui. Il servizio d’ordine passa comunque all’azione: il cartello viene strappato dalle mani del signore che si definisce «un quadro della fabbrica», e finisce in brandelli.
Qualcuno nelle prime file comincia a urlare «comunisti, comunisti» mentre il civilissimo candidato sindaco Cinquestelle di Piombino Daniele Pasquinelli chiede maggiore rispetto per le opinioni diverse. Il dissidente se ne va. Il servizio d’ordine trattiene i giornalisti che lo vorrebbero raggiungere. Così van le cose nella democrazia grillina. Il gelo a questo punto si mescola con la tensione. Grillo è sul palco. Animale da palcoscenico, capisce che questo non è il suo pubblico e cerca di blandirlo come può: «Abbassate le bandiere, perché questo è veramente un funerale». Poi attacca a testa bassa: «È il funerale del sindacato, però, che ha continuato a mettervelo in culo con la speranza».
Durissimo contro il Pd e «il regno schifoso della peste rossa tipico di questa zona». (Nel 2013 il Pd ha tenuto con il 44,7% (57,4 nel 2008) nonostante M5S fosse arrivato al 23,9). C’è poco da fare: la prima volta di Grillo in una piazza non grillina non è un bello spettacolo. Non è un bagno di folla, non è un tripudio di invettive sommerse dagli applausi, non è un vaffanculo in cinquantamila. Attacca tutti, «il nano», «l’ebetino», il governatore Rossi, l’Europa «che tiene bloccati due miliardi per la siderurgia e noi dobbiamo andare a prenderceli». Inevitabile il solito, scontato attacco al presidente Napolitano.
Parla poco Grillo, neppure venti minuti anche perché ammette di «non sapere dove va la siderurgia». Non è il suo pubblico. Lo sa anche lui. La gente non applaude. Non si esalta. Tace. Qualcuno comincia a mugugnare e a uscire dal recinto della manifestazione. Prende forma in un attimo l’orgoglio della tuta blu con su scritto Lucchini. «Io non voglio il reddito di cittadinanza», alza la voce Graziano Martinelli. «Io voglio lavorare, non voglio fare il parassita ma per chi ci hanno scambiato, ohhh». È furioso, Martinelli. Vuole un Paese «con le idee chiare sulle politiche industriali e che si metta al tavolo con gli operai per decidere quale sia la soluzione migliore».
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